
Si può anche ipotizzare che la mossa di Parigi fosse in qualche modo stata provocata dall’analoga iniziativa napoletana, nella quale non è difficile immaginare lo zampino austriaco. Comunque sia, si trattava di una decisione capace di modificare il quadro geostrategico del conflitto. Se Venezia avesse avuto in mente di giocare la carta francese per evitare la pericolosa egemonia di una potenza sola nella Penisola, per lei fatale come le aveva ricordato l’ambasciatore inglese quando l’Austria era la principale imputata, avrebbe avuto senz’altro senso. Mossa audace, ma non pare, che le cose fossero in questi termini. Per giungere alla ripresa delle relazioni le era bastato l’impegno di Parigi a rispettare il diritto internazionale e, in particolare, la neutralità della Serenissima. A quanto pare, la realtà della politica e le prove sin lì accumulate sulle tendenze, per così dire, del governo rivoluzionario non avevano avuto peso. Nessuna sorpresa di trovarsi di fronte all’irritazione dei coalizzati anti-francesi. D’altronde, al contrario di quanto tanti ormai si aspettavano, l’accordo non evolve in alleanza. Insomma, al governo patrizio era riuscito di accrescere l’inimicizia dei monarchi d’Europa senza conquistare la simpatia dei repubblicani in riva alla Senna. Ciò non toglie che per tutta la prima fase della Campagna d’Italia, Napoleone guardi a Venezia con un misto di speranza e preoccupazione. Delusa la prima, la seconda continuerà a crescere fino a diventare ossessione. La ragione è che teme per la sicurezza dell’Armée d’Italie: il famoso attacco veneto alle spalle o sul fianco, infatti, potrebbe benissimo riguardare i francesi e non gli austriaci. Si tratta di un pensiero costante nella riflessione e nell’agire di Napoleone. Lo dice e lo scrive. Specie quando, dopo la conquista di Mantova, decide di penetrare in Austria. D’altronde, quando si trova in Carinzia e si rende conto che l’insurrezione tirolese da un lato e la possibile analoga di carinziani e stiriani dall’altro rischiano d’invischiarlo in una situazione che pare anticipazione di quanto poi avverrà in Spagna, è lui stesso a cercare l’Arciduca Carlo per concludere l’armistizio: Leoben è un’iniziativa di Napoleone non degli austriaci. Bonaparte ha una fretta maledetta di chiudere la partita, per raccogliere i frutti politici personali della vittoria, non c’è dubbio ma anche perché si sente in una posizione precaria: Napoleone teme Venezia. Non ha molti pregiudizi di carattere ideologico, però. Il valore della Serenissima per lui è geopolitico. In quale modo è utile ai disegni suoi e della Francia? Qualche amputazione territoriale è da mettere in conto, questa potrebbe limitarsi alla Lombardia veneta, comunque, ormai nell’orbita della Repubblica Cisalpina. Il resto è in discussione e una parte potrebbe sopravvivere per servire ancora come cuscinetto anti-austriaco. A Napoleone e a Parigi interessano davvero le Isole Ionie, Corfù e le altre, per una ragione che sarà presto resa evidente dalla Campagna in Egitto: si trovano sulla longitudine di Alessandria e del Delta del Nilo, sono necessarie per portare a termine, come avverrà, la manovra diversiva necessaria a disorientare gli inglesi in agguato nel Mediterraneo centrale. Questo ragionamento sottende ai preliminari di Leoben e alla nascita della Municipalità democratica in Laguna. Un cambio di regime, con la “democratizzazione” imposta dalle baionette, necessario agli occhi di Napoleone perché non si fidava dei patrizi veneti sul piano personale e politico. Utile poi a procedere nel saccheggio anche di Venezia. Dopo aver già portato a termine operazioni simili ovunque in Italia: non è un trattamento riservato in modo specifico a Venezia.
La dichiarazione di guerra alla Serenissima, dunque, ha questi scopi. Il discorso cambia quando gli austriaci pongono l’acquisizione della ex repubblica Serenissima come condizione per la pace generale. Per ottenerla, la Francia deve concedere qualcosa. In fondo, buona parte dei risultati strategici sono stati raggiunti. Così l’Austria manterrà un piede in Italia, si vedrà tra un paio d’anni con quali conseguenze, però si conclude bene una guerra di cui tutti sono stanchi. Per Venezia è la fine. A ucciderla non è la Francia e neppure personalmente Napoleone, dunque, bensì l’Austria degli Asburgo che allarga in modo decisivo il proprio accesso all’Adriatico: quanto Massimiliano I si riprometteva già al tempo della Guerra della Lega di Cambrai viene ottenuto non con la vittoria, ma con la sconfitta militare.
Quali furono gli antefatti dell’invasione francese?
La Penisola italiana occupa una posizione geografica chiave lungo parte della Rimland, nello specifico quella mediterranea, cioè la fascia marittima e costiera che circonda l’Heartland, il cuore del Pianeta, rappresentato dal blocco dell’Eurasia: averne il controllo, quindi, rappresenta un pre-condizione fondamentale per chiunque, Impero di Terra o di Mare, aspiri all’egemonia mondiale. Scopo ultimo di qualunque grande potenza dall’alba dell’uomo. L’attuale confronto sino-americano e le tensioni lungo l’asse Washington-Roma-Pechino lo provano a sufficienza, anche se per una trattazione più approfondita rimando al precedente volume di questa stessa serie e cioè “Venezia alla conquista di un Impero, Costantinopoli 1202-04”.
Il confronto franco-asburgico che dal Cinquecento interessa l’intero scacchiere europeo s’inserisce in tale quadro. Rappresenta la lotta tra potenze di terra per il dominio del Vecchio Continente. Premessa di quello mondiale. Si deve aggiungere che l’attrazione francese per la Penisola è ancora antecedente e risale almeno agli angioini, e quindi alla metà del Duecento, tanto per non scomodare i Normanni e la nascita del Regno di Sicilia, poi di Napoli. Quella asburgica è preceduta dalla spinta verso meridione degli imperatori tedeschi precedenti, in particolare gli Hohenstauffen. La ragione è sempre geografica: la Penisola è necessaria per aspirare al controllo del Mediterraneo.
Si tratta, dunque, dello scontro tra due diverse e collidenti “costanti geopolitiche di lungo periodo”, cui si aggiunge un dato geostrategico: per penetrare in Germania, al fine di sterilizzarla ed egemonizzarla, la Francia utilizza due porte preferenziali e cioè i Paesi Bassi e l’Italia. In maniera indipendente oppure, come accadrà nel 1797, simultanea. L’idea consiste nell’attivare le due ganasce di una colossale tenaglia strategica. Certo, con il rischio che l’avversario, invece, manovrando per linee interne e rimanendo più compatto, colpisca al centro. Spettatrice apparente, perché in realtà parte in causa sempre attenta a quanto succeda sul Continente, l’Inghilterra. La quale sfrutta la posizione decentrata delle Isole Britanniche, che la mette al riparo da attacchi diretti, e soprattutto la supremazia marittima garantita dalla Royal Navy per cercare d’imporre sull’intera Rimland la propria di egemonia. Di fatto, sarà lei a uscire vincitrice dallo scontro di terra e a creare l’Impero di Mare che, succeduto a quelli portoghese e spagnolo, cederà il posto solo a un altro Impero di Mare, l’americano.
Fortuna e sfortuna di Venezia, trovarsi nell’angolo di mondo dove gli assi terrestri nord-sud ed est-ovest incrociano le rotte marittime che uniscono i due estremi opposti del Continente Euro-Asiatico, disegnando il circuito commerciale più antico e importante del Pianeta. Da sempre. E il commercio è il motore del Mondo. La Penisola, quindi, è condannata: a recitare un ruolo da protagonista o a trasformarsi in campo di battaglia. Nel momento in cui la Guerra della Prima Coalizione rinnova il vecchio conflitto franco-austriaco, i fronti diventano i soliti due: Reno e Alpi.
Per entrambi, il principale resta quello sul Reno, con le Alpi relegate a un ruolo secondario. Le armate qui impegnate svolgono un puro ruolo di copertura e quale massima ambizione coltivano quella di attirarsi addosso quante più forze avversarie per ridurne la disponibilità sul fronte renano. Poi, al comando dell’Armée d’Italie arriva Napoleone, che ha tutt’altre idee. All’inizio, segue gli ordini del Direttorio: dividere austriaci e piemontesi, battere i secondi ed eliminarli dal conflitto, quindi, se possibile, penetrare in Lombardia per costringere Vienna a farvi affluire rinforzi, distratti dal Reno.
La visione strategica di Napoleone è tale, però, da fargli subito intuire le possibilità aperte dalle prime vittorie: immagina con largo anticipo di attraversare l’intera Pianura Padana e di puntare su Vienna passando da Trieste, Lubiana e la Carinzia. Tutto ciò presuppone la violazione della neutralità veneta. Del resto, questa è ignorata inizialmente proprio dagli austriaci, che infrangono di continuo quanto previsto dai trattati per l’utilizzo del cosiddetto “corridoio di Campara”, la via di transito concessa da Venezia a Vienna per uomini e rifornimenti diretti in Italia.
Una volta liquidato il Regno di Sardegna, Napoleone conquista la Lombardia, ma sembra restio a inseguire oltre Adda gli austriaci in ritirata. Si preoccupa di occupare Milano, di assicurarsi il controllo di Pavia, perde tempo in un certo senso, mentre l’austriaco Beaulieu dopo la battaglia del ponte di Lodi, 10 maggio 1796, non esita un attimo a entrare nella veneziana Crema e a proseguire assicurandosi l’altrettanto veneziana Peschiera. In seguito toccherà a Verona e all’intero territorio limitrofo. Insomma, sono gli austriaci a “invadere” la Terraferma veneta, i francesi arrivano al loro traino, “costretti” a farlo dalla necessità d’inseguire il nemico, di garantire l’assedio di Mantova, di evitare la liberazione della stessa da parte di forze in arrivo dalla Val d’Adige o dalla Val Brenta. Tutto avviene nella più completa inerzia veneziana.
Come si svolse l’occupazione della terraferma da parte delle truppe francesi?
Esaurita la prima fase della campagna con la conquista della Lombardia, Il 14 maggio Bonaparte riceve una lettera del Direttorio datata Parigi 7 maggio in cui si tratteggia il proseguimento delle operazioni in Italia. L’idea è quella di dividere i circa 40.000 uomini dell’Armée d’Italie: una metà rimasta agli ordini dello stesso Napoleone dovrà puntare sull’Italia centrale per esportavi la Rivoluzione, mentre l’altra, passata al comando del generale Kellermann, al momento ancora al comando dell’Armée des Alpes, deve occuparsi di Mantova e della linea dell’Adige. Al momento di scrivere, a Parigi ancora nulla sanno degli ulteriori progressi della campagna e la grande preoccupazione è quella di eliminare la pericolosa presenza della flotta inglese nel porto toscano di Livorno.
Si tratta di una riflessione condivisa dallo stesso Bonaparte in una lettera al Direttorio, casualmente redatta lo stesso giorno e cioè sempre il 7 maggio, ma non nei termini esposti da Parigi. Bealieu, intanto, continua la sua marcia verso il Mincio. Il 14 maggio passa l’Oglio. A Bonaparte in questo momento preme soltanto l’occupazione di Milano. La capitale lombarda, con le sue attività finanziarie e industriali, sta assumendo ai suoi occhi una valenza strategica che supera di gran lunga l’importanza militare. Milano può diventare il trampolino di lancio per un’avventura politica sino a poco prima quasi impensabile. Non c’è armata austriaca che possa pareggiare ai suoi occhi l’importanza di questo fatto.
Certo, le due settimane che Napoleone così concede alla piazzaforte di Mantova per rinforzarsi, accumulando uomini-viveri-munizioni, pesano e non poco sull’andamento delle operazioni. Dal punto di vista francese si tratta di un errore. L’Armée dovrebbe inseguire Beaulieu e cercare di distruggerlo, conquistando eventualmente Mantova sullo slancio. Invece occupa Pavia e Milano e lascia briglia sciolta ai giacobini locali. Sta per nascere una serie di repubbliche democratiche destinate a stravolgere la geografia politica d’Italia. Non sono le istruzioni del Direttorio.
Bonaparte, però, ha una sua idea personale in testa e ora uno strumento tra le mani: la nuova Armée d’Italie da lui forgiata, perfezionata e portata al successo. Cioè l’unica delle quattro armate messe in campo dalla Francia per l’offensiva finale ad avere ottenuto dei risultati. E questo pesa a Parigi. Molto. Dopo, le cose cambiano. La sosta a Milano delle forze francesi dura otto giorni. È la prima dall’inizio della campagna e serve a Napoleone per gettare le basi del suo futuro politico. Tocca, infatti, al duca di Modena dopo quanto successo a quello di Parma assaggiare cosa intenda Bonaparte per “accordo”. A Milano, Bonaparte si abbandona a una dichiarazione impegnativa: “Sarete liberi, e ancora più sicuri di esserlo degli stessi francesi (…) Se mai l’Austria tornasse alla carica, non vi abbandoneremo mai.” Nel ricevere in arcivescovado alcune delegazioni di milanesi influenti, Napoleone traccia un solco: la campagna d’Italia perde il suo carattere di guerra su un fronte secondario, accessorio rispetto a quello di Germania, e, trascinata dalle vittorie, ne acquista uno nuovo: diventa l’opportunità personale del cittadino-generale Bonaparte. A Milano, Napoleone riceve da Lazare Carnot le nuove disposizioni del Direttorio: niente inseguimento in Tirolo dell’armata austriaca, invasione invece dell’Italia centrale. Le forze francesi in Lombardia passeranno agli ordini del generale Kellerman. In particolare, Bonaparte deve evitare di favorire e appoggiare il minimo sviluppo rivoluzionario della situazione politica. È la replica dello “schema Piemonte”, volendo semplificare.
Riguardo al primo punto, la stasi del fronte renano spinge Napoleone ad adeguarsi. Considera avventuroso penetrare in territorio nemico senza contare sul supporto delle armate in Germania. Specie tenendo conto che gli austriaci potrebbero far affluire rinforzi manovrando per linee interne. Sul resto il disaccordo è totale. Per il generale còrso è impensabile passare di mano lo strumento indispensabile delle sue ambizioni. Dissente anche sul bloccare le aspirazioni dei democratici della penisola: per lui si tratta innanzitutto di una questione militare, sa bene che gli servono.
Agli occhi di Napoleone tutto ruota innanzitutto attorno al problema della sicurezza dell’esercito. Al di là del fatto che questo è considerato un mezzo per ottenere risultati politici, garantirne l’incolumità, cioè la forza in potenza, è il pre-requisito di qualunque decisione.
Il fatto, quindi, che Napoleone ignori le disposizioni di Parigi e lasci agire gli elementi radicali in Lombardia, a differenza di quanto successo in Piemonte, si deve a una diversa percezione della minaccia, prima di ogni altra considerazione Si rivelerà una buona scelta. Certo, dimostra la sua totale indifferenza verso gli ordini ricevuti.
Con assoluta fedeltà, invece, segue le disposizioni di procedere al saccheggio della Penisola. Ogni oggetto è ritenuto degno di confisca. Beni personali, bestie, cibo, vestiario. In base ad alcune valutazioni, la predazione dell’Italia ha fruttato qualcosa come 46 milioni di lire dell’epoca, in puro denaro, e altri 12 in natura. Si tratta di cifre colossali.
Questa, poi, è solo la parte contabilizzata alla quale aggiungere la quota personale del generale, quella degli ufficiali e infine le ruberie spicciole dei soldati. L’acquisizione della preda bellica comincia subito: in Piemonte dopo l’armistizio di Cherasco e in Lombardia con il decreto 19 maggio. Il 20 maggio viene presa un’altra decisione chiave dell’avventura italiana. Napoleone ordina di pagare metà del soldo in buona moneta metallica e non più in svalutati assegnati cartacei. “Investe”, per così dire, parte del bottino sui suoi uomini. L’evento, unico su tutti i fronti della repubblica francese, ne manda alle stelle la popolarità.
Il 23 maggio Napoleone inizia la radunata dell’Armée sull’Adda e il 24 a Lodi viene informato dei primi disordini antifrancesi in Lombardia. La svolta nelle relazioni con la popolazione locale costituisce un pericoloso segnale d’avvertimento perché se la causa prossima è da ricercare nella durezza del regime d’occupazione francese, la conseguenza ultima potrebbe essere la fine delle ambizioni personali del generale comandante. La repressione scatta subito e solo dopo, Napoleone riprende l’avanzata che, però, si bloccherà davanti al problema di Mantova. La piazzaforte virgiliana rappresenta il perno della conquista o difesa dell’Italia. In grado di ospitare una guarnigione formidabile, difficilissima da espugnare, all’incrocio degli assi viari est-ovest e nord-sud lungo le valli del Po e dell’Adige è indispensabile tanto ai francesi quanto agli austriaci. L’intera Campagna d’Italia si gioca attorno a Mantova. Solo quando la fortezza cadrà, Napoleone si sentirà libero di procedere. Verona è vista sotto la prospettiva di Mantova: utile ma non necessaria da entrambi i contendenti. Si combatterà sempre per Mantova: a Castelnuovo, Arcole, Rivoli, Salò, ovunque.
Quale importanza storica rivestono le pasque Veronesi?
Sono un episodio tra i tanti che dimostrano quanta volontà di resistenza ci fosse da parte delle popolazioni locali, specie tra gli strati popolari delle città e i contadini di campagne e montagne. Le cosiddette “insorgenze” hanno un valore morale: il popolo avrebbe voluto combattere gli invasori. Ancora di più in quanto temeva che con l’arrivo dei francesi, ma anche degli austriaci, le nobiltà locali e le borghesie cittadine, tenute a freno dal rilassato governo veneto, avrebbero finito per imporre con nuova forza i propri interessi. Fatto che, in seguito, accadrà. Lo stesso si verificherà, del resto, nella stessa città di Venezia.
Da un punto di vista storico l’intero fenomeno delle “insorgenze” in Italia rileva perché dimostra che a disposizione dei governi, decisi a un qualsiasi tipo di resistenza, sarebbero state importanti e ben motivate risorse umane: nel caso di Venezia non vennero sfruttate. In definitiva, bisognerebbe ricordarsi che le perdite maggiori dell’intera Campagna d’Italia i francesi le subirono in Tirolo meridionale, quando tra Val d’Adige e Val Pusteria la divisione Joubert perse qualcosa come 6-8.000 uomini e sfuggì all’annientamento solo perché raggiunse malconcia Lienz e Villach dove già si trovavano le avanguardie di Napoleone. Eppure agli ordini degli austriaci Laudon e Kerpen non c’erano soldati regolari, ma solo milizie locali.
Quali vicende segnarono la caduta della Repubblica?
Come già ricordato in precedenza, a produrre la fine della Serenissima è la plurisecolare volontà asburgica di occuparne lo spazio geopolitico: in questo senso vanno interpretate le scelte di Vienna a partire almeno dall’adesione alla Lega di Cambrai nel 1508 in poi. In tempi più recenti, l’”invenzione” della Nuova Trieste settecentesca, preceduta dalla creazione dei porti franchi sempre di Trieste e di Fiume, scali privilegiati rispettivamente dell’area germanico-slava e ungherese. Vienna “vuole” la Terraferma e la costa adriatica perché porte dell’Italia e cerniera tra Mediterraneo e Centro Europa. Non per caso oggi si sostiene che il limes, la frontiera, geopolitico meridionale germanico corra grosso modo da Senigallia, nelle Marche, a Massa Carrara, in Toscana. La Germania odierna ha ereditato la Grande Strategia degli Asburgo. Napoleone e la Francia non volevano la fine della Serenissima, pensavano anzi di conservarla in vita, una volta trasformata in “repubblica sorella” sul modello della Cisalpina e ridotta a una striscia costiera adriatica. Dovettero cedere alle pretese austriache perché sul piatto c’erano i Paesi Bassi, il resto dell’Italia e la pace.
Quali furono gli ultimi atti del doge Ludovico Manin?
Si tratta di una pagina assai malinconica. L’uomo Manin si è trovato a fronteggiare una tempesta di dimensioni epocali, tuttavia sarebbe stato personalmente inadeguato ad assumere qualunque decisione. Infatti, in buona sostanza non ne prese nessuna. Certo, era anziano e malandato: il confronto tra il debole settantenne Manin e il vigoroso trentenne Napoleone ha una consistenza plastica. Vero è che il doge venne lasciato completamente solo: dei circa ottocento patrizi del Maggior Consiglio pochissimi, e nessuno tra quelli di primo piano, rimase al suo posto e appena un pugno entrò nella Consulta provvisoria da lui creata per avere un qualche tipo di supporto. La morte della Serenissima avviene nella completa indifferenza del suo Corpo Sovrano, quel patriziato che pure traeva la stessa ragion d’essere dall’esistenza dello stato veneziano. Si potrebbe quasi azzardare un paragone con quanto avvenne l’8 settembre 1943: soldati e amministratori lasciati soli, senza ordini né direttive, a cavarsela in qualche modo. Ed esattamente come nel periodo dell’8 settembre, abbiamo episodi di resistenza e d’insurrezione, accompagnati dal parallelo disfacimento di ogni struttura militare e politica. La scelta più diffusa, comunque, fu la non-opposizione. Manin si limitò ad accondiscendere a ogni e qualunque disposizione gli arrivasse dal comando francese. Il 1°maggio 1797, data della dichiarazione di guerra francese, il Maggior Consiglio autorizza il doge a trattare con Napoleone di qualunque aspetto della politica veneziana, a cominciare dalla costituzione. Contemporaneamente si negozia un armistizio che ferma le operazioni militari. Su pressione francese, l’8 maggio il doge presenta la propria abdicazione e indica alla Consulta i nomi di chi dovrà assicurare il trapasso di poteri alla nuova Municipalità Democratica. Eppure resta in sostanza al suo posto. Presiede infatti la famosa seduta del 12 maggio 1797 che approva la “parte” avanzata dalla Consulta, organo illegale, su pressione di Napoleone in cui il Maggior Consiglio decreta il proprio autoscioglimento e il passaggio delle relative prerogative a un indefinito organo provvisorio… fatta salva l’approvazione dello stesso Bonaparte. È questo l’atto al quale l’Austria si attaccherà al Congresso di Vienna per negare a Venezia il diritto a essere reintegrata nel numero degli stati Ancien Règime. Lo stesso accadrà con le Repubbliche di Genova e Lucca. Pretesto giuridico, è chiaro, tuttavia inoppugnabile.
Cosa stabilì il trattato di Campoformio?
Il trattato del 17 ottobre 1797 segna la fine delle complesse trattative in sostanza iniziate con la stesura dei Preliminari dell’armistizio sottoscritto a Leoben il 18 aprile e nei cui articoli segreti si parlava della nascita della Cisalpina in Lombardia, a fronte della cui perdita l’Austria avrebbe ottenuto l’intera Terraferma veneta dal fiume Oglio al limite delle lagune oltre a Istria e Dalmazia. Bergamo, Brescia e Crema già veneziane sarebbero entrate nella nuova Cisalpina, mentre le Isole Ionie erano destinate direttamente alla Francia. Venezia, dunque, doveva continuare a esistere, ridotta in buona sostanza all’Antico Dogado privato della sua estensione friulana, dal Tagliamento a Grado, e con compensazioni a danno del Papa. In particolare la Francia avrebbe “girato” alla nuova Venezia democratica Ferrara, Ravenna, Bologna e tutta la Romagna. Evidente l’intenzione di Bonaparte di mantenere un pericoloso cuneo alle spalle degli austriaci e nell’Adriatico. Lo schema, però, salta perché Vienna comprende bene la trappola strategica e pretende Venezia senza le compensazioni emiliano-romagnole. Il Direttorio accetta pur di avere la pace e Napoleone con esso.
Poco noto è il saccheggio a cui venne sottoposta Venezia da parte dei francesi.
La politica costa. Moltissimo. È sempre costata. Quindi anche alla fine del Settecento per aspirare a un futuro in materia bisognava disporre di mezzi finanziari adeguati. In Italia tutto comincia quando Bonaparte decide di pagare parte del soldo alla truppa in buona moneta metallica anziché in svalutatissimi assegnati cartacei della Rivoluzione. Come ha fatto? Con il denaro preso agli italiani.
Ci si è molto soffermati sui trafugamenti di opere d’arte compiuti dai francesi durante e dopo la Campagna d’Italia. Si tratta di un dato clamoroso, che colpisce per entità e natura del furto: è più complicato, ma sarebbe di sicuro decisivo comprendere quanta ricchezza mobile venne portata via. Perché questa alimentò in presa diretta i fronti di guerra e si trasformò, subito, in potere finanziario per i nuovi padroni della Penisola. I quali erano in prima battuta i Bonaparte e quanti ruotavano attorno a loro. Un clan trasformatosi alla svelta in attrattivo partito politico.
Una considerazione quella economica che ci riporta a Venezia: l’intera Italia a cominciare dal ducato di Parma, certo, ha fornito a Bonaparte il propellente di cui aveva bisogno, ma per quanto decaduta e non più centro finanziario di grande livello, tuttavia la ricchezza accumulata per secoli dai veneziani è stata un boccone quanto mai gradito per il formidabile appetito del generale vittorioso. I quattro cavalli di San Marco portati a Parigi sono stati un segno spettacolare, ma il denaro prosciugato dalla città e dai suoi domini caduti senza colpo ferire hanno giocato un ruolo maggiore. Si può dire che abbiano contribuito a cambiare il corso della storia.
Molte distruzioni, però, furono gratuite e la ragione si può rintracciare in quanto scrisse a suo tempo Samuele Romanin: “Stabilito poi di cedere Venezia all’Austria, volevano i Francesi cederle nulla più che un cadavere”. La vecchia repubblica faceva ancora paura.
Quale utile lezione per i nostri giorni ci offre la vicenda della caduta della Repubblica di Venezia?
L’Italia occupa lo stesso “spazio” della Repubblica di Venezia, pertanto è erede delle medesime costanti geopolitiche di lungo periodo in azione lungo la fascia marittima e costiera mediterranea dell’Eurasia: Ponte tra Mondi e Porta sul Mondo per via delle vie liquide che qui portano da ogni angolo del Pianeta e a cui, a loro, volta, conducono. La storia veneziana rappresenta un campionario formidabile di “casi di studio” a disposizione dei decisori politici di oggi. Senza eguali perché sfarinati lungo quattordici secoli di vicende, secondo la leggenda, e almeno una decina in base alla realtà documentale. Nessuno stato sul Pianeta è durato tanto a lungo quanto la Repubblica di Venezia. Quelle conclusive del biennio 1796-97, poi, ci offrono un perfetto esempio di tutto quanto non si deve mai fare. Non c’è dubbio, sarebbe stato un confronto spietato per chiunque misurarsi con Napoleone Bonaparte tra le primavere del 1796 e del 1797. Il generale còrso non aveva dalla sua soltanto la forza di idee radicate nelle attese di tanti nutriti dall’Illuminismo, l’energia di chi non aveva niente da perdere, il potere che scaturiva dal disporre di mezzi militari ed economici cresciuti vittoria dopo vittoria: il suo vero asso nella manica, però, consisteva nell’aver compreso come agivano le costanti geopolitiche che, da sempre, portavano la Francia in Italia e da qui verso il cuore della Germania da un lato, in direzione dell’Oriente dall’altro. In Italia, dunque, si decideva il destino della Francia e con essa dell’Europa e del Mondo. La mancata resistenza di Venezia è stata proprio per questo di una valenza particolare. Una Venezia combattente avrebbe vanificato ogni possibilità di utilizzo della “porta” italiana da parte della Francia, limitando se non impedendo la predazione della Penisola. Con il doppio risultato di evitare il crollo della Germania asburgica e di mantenere la ricchezza in Italia. La Serenissima avrebbe quindi potuto aspirare a un ruolo di primo piano nella definizione degli assetti politici, tornando a essere la protagonista che era sempre stata in passato. Specie se la prospettiva di un’alleanza con la Russia, come sperato dai Geniali di Moscovia, si fosse concretizzata. In ogni caso, non sarebbe scomparsa inghiottita dal grande nemico in agguato da decenni sulle cime alpine, l’Austria.
Non era facile, si è detto all’inizio, confrontarsi con Napoleone. Meno ancora districarsi nel groviglio d’interessi coincidenti che, casualmente, portavano i due avversari storici, Parigi e Vienna, a trovare un punto d’incontro nella spartizione della Serenissima. Provvisorio, è vero, ma fatale per l’indipendenza della ex Dominante dell’Adriatico. Le carte, però, erano sul tavolo e nessuna intenzione, del tipo delle clausole segrete dell’armistizio di Leoben, era davvero nascosta.
Niente di troppo originale, in fondo la strada era stata indicata proprio dai Geniali recuperando pezzi fondamentali della storia veneziana: oggi scomodiamo i concetti di Rimland e Mediterraneo allargato, nel Settecento ci si limitava a evocare il passato delle Vie delle Seta e l’epopea di Enrico Dandolo e della fondazione dello Stato da Màr. Parole diverse per l’identica realtà. Certo non poteva essere Lodovico Manin l’uomo in grado di comprendere quanto andava fatto. Assieme a lui, però, venne meno un’intera classe dirigente incapace di misurarsi con le sfide del proprio tempo. Il valore decisivo della qualità di chi prende le decisioni politiche, quindi, è l’ultima delle lezioni utili per noi oggi.
Federico Moro è nato a Padova il 12 febbraio 1959, ma vive e lavora a Venezia. Di formazione classica e storica, alterna ricerca e scrittura. Ha pubblicato venticinque tra saggi, romanzi, guide, raccolte di racconti e più di cento articoli. Collabora con le riviste Gnosis, Quaderni Sism, Quaderni Romagnoli, Luminosi Giorni. È conferenziere presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, membro dell’Associazione Italiana Cultura Classica, della Società Italiana di Storia Militare e dell’Ateneo Veneto. Il suo sito internet è federicomoro.it