“Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” di Edoardo Vigna e Marcello Bortolato

Edoardo Vigna, lei è autore con Marcello Bortolato del libro Vendetta pubblica. Il carcere in Italia edito da Laterza: quali luoghi comuni allignano nella nostra società riguardo alla carcerazione?
Vendetta pubblica. Il carcere in Italia, Edoardo Vigna, Marcello BortolatoMolti, troppi. Il carcere è fra le realtà della nostra società che ne è più imbottita: una delle principali ragioni sta nel fatto che le persone preferiscono non vederlo, espellerlo dalla quotidianità, rimuovere chi si è messo contro la legge e minaccia – nell’opinione generale – la sicurezza dei cittadini. È nella paura e nella cecità che nascono e si consolidano le opinioni sbagliate. Invece smantellare i pregiudizi è compito di chi è nelle condizioni di farlo. Bortolato, che ha grande esperienza di carcere come magistrato di sorveglianza, ed io abbiamo deciso di provare ad affrontarli uno per uno e svuotarli. “Facciamoli marcire in carcere”, per esempio: nasce con l’idea che la pena scontata con sofferenza sia un deterrente al crimine, quando invece chi conosce il pensiero dei rapinatori detenuti sa che nessuno di loro ha pensato al rischio di essere preso e condannato al carcere mentre commetteva il reato. Prendiamo un altro luogo comune assai diffuso: “In prigione non ci finisce nessuno”. Ebbene i dati statistici europei dicono che le pene comminate in Italia sono più lunghe di quelle stabilite, per fare due casi, in Germania e in Francia. Che il nostro numero di detenuti è assai superiore a quello di tedeschi e francesi. E che da qui nasce il dato di sovraffollamento endemico delle prigioni italiane. Un dato che naturalmente contraddice l’opinione di chi pensa che dietro le sbarre si vive bene. Per questo motivo nel libro raccontiamo, senza infingimenti né “buonismi” inutili, come funzionano le carceri. Si mangia in mensa o dentro la cella? Quante ore d’aria possono avere i detenuti? Quanti permessi premio si possono avere e quando? Si parla spesso senza avere le risposte a queste semplici domande. E se non si conosce la realtà si parla a vanvera e si prendono decisioni basati su percezioni erronee, quindi per lo più sbagliate.

Quale funzione assegna il nostro ordinamento alla pena carceraria?
La riflessione su questo argomento occupa una parte importante del libro, e c’è un motivo preciso: siamo nel 2020, la funzione della pena nel nostro ordinamento è stata decisa nella Costituzione del 1948, ben settantadue anni fa e si è ispirata anche al pensiero di Cesare Beccaria, fine Settecento. La pena deve servire – dice l’articolo 27 della Carta al terzo comma – alla rieducazione del detenuto. Certo, le altre funzioni riconosciute della pena – retributiva, special-preventiva, general-preventiva, quindi di volta in volta diretta a punire, a scoraggiare il reo o la popolazione tutta dal commettere reati – possono avere un loro senso ancora oggi, noi non interveniamo su questo aspetto. Ma nessuna di queste funzioni deve far venire meno la funzione rieducativa, che con il tempo, e i pronunciamenti della Corte Costituzionale, è stata meglio definita come di “reinserimento sociale”. E qui sta il punto, che molti ignorano: se nell’interesse della sicurezza dei cittadini c’è il fatto che i detenuti, scontata la pena, non tornino a delinquere, allora è necessario lavorare sui detenuti, fare in modo che negli anni dietro le sbarre i criminali abbiano la possibilità di capire la natura di ciò che hanno commesso, che possano elaborare la possibilità di restare lontano al crimine e soprattutto che vengano dati loro gli strumenti per realizzarlo. Quindi che possano, per esempio, studiare, imparare un mestiere, che, una volta scontata la pena, permetta loro di avere di che vivere. Eh già, perché a proposito di luoghi comuni, chi ripete e usa, spesso a proprio vantaggio di propaganda politica, lo slogan “buttiamo via la chiave” fa finta di non sapere che gli ergastolani in Italia sono tanti, un migliaio, , anche qui, più che altrove, ma su una popolazione carceraria di 55-60mila persone. Gli altri detenuti, dopo un certo numero di anni di prigione – cinque-sei-otto o dieci o più che siano –, scontata la pena, escono. E qui cosa accade? Ma per preoccuparsi del dopo non bisogna aspettare che le porte delle carceri si spalanchino lasciando l’ex reo di fronte al bivio fra male e bene. Bisogna intervenire prima. Agire durante gli anni in cui la pena viene scontata. Preparare l’uscita del detenuto. Anche se si riuscisse a intervenire su una percentuale parziale, il vantaggio per la sicurezza di tutti sarebbe fondamentale, ben superiore a quello del “farli marcire”. Chi si esprime così non pensa alle future, eventuali vittime.

Cos’è oggi, invece, il carcere in Italia?
Purtroppo è solo in minima parte quello che dovrebbe essere e fa solo per una quota limitata ciò che la Costituzione stabilisce. La situazione, in realtà, è a macchia di leopardo. Ci sono alcune carceri dove ci sono le condizioni necessarie ad aiutare i detenuti che vogliono imparare un lavoro o studiare, moltissime altre invece in cui le opportunità sono assenti o quasi. È su questo che una politica giusta e al tempo stesso preoccupata della sicurezza dovrebbe operare: e invece il dato secco dice che solo diciottomila detenuti hanno la possibilità di lavorare, un terzo della totalità, mentre agli altri due terzi questa opportunità è preclusa.

Cosa dimostrano i dati statistici relativi alla recidiva degli ex detenuti?
Dimostrano una cosa che sorprende solo chi non conosce gli esseri umani: che se durante la detenzione il condannato non viene trattato in modo che abbia la possibilità di cambiare, i numeri dicono che la recidiva degli ex carcerati, il fatto cioè che tornino a delinquere una volta usciti dalla prigione, è a livelli record, sette su dieci, mentre non solo sono soltanto due fra quelli che hanno espiato la parte finale della pena in misura alternativa, in un percorso guidato verso il reinserimento della società, ma addirittura la percentuale crolla all’uno per cento fra chi, negli anni passati in cella o in misure alternative alla pena, ha potuto lavorare. E allora vorrei chiedere a chi crede agli slogan del populismo penale: cosa è meglio, cercare di ridurre i reati e salvare vittime future da potenziali recidivi o invece togliersi la soddisfazione di “far marcire in cella” i criminali? Non tutti i delinquenti smetteranno di delinquere, questo lo dobbiamo ricordare, ed è una certezza. Ma ciò non vuol dire che non ci si debba provare e che con una parte ci si riuscirà.

Quali alternative al regime di ‘vendetta pubblica’ che vige nel nostro Paese sono possibili?
C’è già chi vuole cominciare a parlare di soluzioni di prospettiva lunga, come quella della giustizia riparativa, in cui la giustizia non può essere perseguita unicamente mediante la punizione del colpevole ma va ottenuta attraverso la riparazione dell’offesa arrecata alla vittima individuale e allargata e alla comunità che ha vissuto direttamente o di riflesso la vicenda criminale. Ma questo significa voler gettare il cuore oltre l’ostacolo del tentativo necessario per questa società di applicare il dettato costituzionale dell’articolo 27 terzo comma. In concreto, paradossalmente, bisogna cominciare a considerare i detenuti come titolari di diritti fondamentali che lo Stato non può disattendere qualunque sia stato il reato commesso. Fra questi c’è il diritto al rispetto dell’individuo in quanto essere umano, che non può mai venire meno. E fra i diritti di un essere umano c’è quello all’affettività in senso largo, che comprende anche quello a una sessualità – ne parliamo in un capitolo ad hoc – ma è prima di tutto quello all’affettività. Potete immaginare gli effetti, nello spirito di un uomo, del vivere per anni senza poter semplicemente abbracciare i propri affetti? Cosa può venire fuori da un trattamento così? Fra gli strumenti del cosiddetto trattamento rieducativo ce n’è uno che ci aiuta a riflettere su questo punto: il teatro. Recitare permette di immedesimarsi negli altri, e comprendere gli effetti delle proprie azioni. Non è la soluzione a tutti i problemi, ma certo è uno strumento utile, come raccontano tutti coloro che partecipano agli esperimenti penitenziari in questo senso. Purtroppo è attivo solo in alcune carceri, come Volterra e Roma. La legislazione penitenziaria italiana è fra le migliori del mondo, contiene già molte risposte: poi però questa legge va ben applicata, e in Italia questo è ancora troppo difficile.

Edoardo Vigna, giornalista del Corriere della Sera, è caporedattore del magazine 7. È autore di Europa. La meglio gioventù (Neri Pozza, 2019)

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link