
I musei storici sono parte integrante di questa interpretazione del passato e della sua circolazione nel corpo sociale. Sin dal XIX secolo i musei hanno reso possibile la formazione di archivi e biblioteche specializzate. Il loro compito principale è stato però (e rimane tuttora, con l’ausilio delle nuove strumentazioni multimediali) quello di raccontare il passato attraverso una specifica organizzazione degli spazi e la collocazione di documenti, oggetti, cimeli. Essi sono perciò riconoscibili come tassello di una politica della memoria che, a partire dalle novità innescate dalla Rivoluzione francese, ha permeato in varie forme l’arredo urbano, rivestendolo di forti valenze simboliche. I linguaggi specifici attraverso cui i musei parlano del passato sono anch’essi figli del loro tempo, cambiano in ragione del contesto generale nel quale sono inseriti, delle urgenze indicate dall’agenda del presente, dei temi posti al centro della discussione storiografica così come delle priorità scandite dal discorso pubblico.
Come si sono evoluti i musei storici dall’Unità d’Italia ai giorni nostri e in che modo hanno rappresentato gli snodi cruciali della storia dell’Italia contemporanea?
La tripartizione Italia liberale, Italia fascista, Italia repubblicana resta una chiave di lettura convincente anche per cogliere la natura e l’evoluzione dei musei storici nella lunga contemporaneità, il loro adattamento alle diverse sollecitazioni e pressioni. Ad ognuna di quelle fasi – che, va da sé, possono essere ulteriormente scomposte al loro interno – è associato un mito di fondazione o di rifondazione del sentimento nazionale: il Risorgimento per lo Stato liberale, la Grande guerra per il regime fascista, la Resistenza per la democrazia repubblicana. Quei grandi e controversi eventi sono stati “messi in scena” nelle sale dei musei e catapultati al centro di una contesa vibrante che è stata insieme storiografica, politica, simbolica. La visita al museo è stata a lungo una pratica consolidata per studenti, reparti militari, cittadini di varia estrazione sociale. Con un ruolo integrativo rispetto all’educazione scolastica, i musei hanno contribuito a sedimentare una certa immagine della storia e consentito a generazioni di italiani di entrare in contatto con i nomi di protagonisti, battaglie, luoghi, date celebri da mandare a memoria.
Per questo insieme di motivi, il filtro del racconto museale restituisce alcuni tratti qualificanti dell’Italia unita: il confronto/scontro sulla rappresentazione della storia, il rapporto centro-periferia nelle dinamiche tra identità nazionale e identità locali, le contiguità e gli scarti rispetto alle molteplici altre forme di elaborazione e trasmissione del passato. Ne discende che per cogliere appieno la funzione assolta dai musei storici nella vita politica e culturale del paese occorre analizzare molteplici elementi: i soggetti protagonisti dell’operazione, le intenzioni e gli obiettivi che li muovono, i dibattiti che si accendono a fronte delle tante poste politiche, culturali e simboliche che ruotano intorno ai musei, i linguaggi peculiari degli allestimenti, l’impatto e le ricadute sociali nelle aree territoriali di riferimento. La vicenda dei musei storici, se studiata nell’intreccio di questi fattori, diventa una sorta di storia d’Italia sui generis, aiuta a cogliere alcuni nodi che nel corso del tempo hanno scandito il delicato rapporto degli italiani con il loro passato.
Il libro dedica particolare attenzione ai musei intitolati al Risorgimento: cosa hanno rappresentato tali istituzioni per l’evoluzione del sentimento nazionale?
Tra i musei storici italiani, quelli intitolati al Risorgimento sono stati i primi ad essere fondati, sulla scia del successo della mostra organizzata all’Esposizione nazionale di Torino nel 1884. L’esigenza di raccogliere e conservare documenti e oggetti, legata alla temperie positivistica dell’epoca, si sposava con il più assillante obiettivo di concorrere alla costruzione del sentimento patriottico, che si ritrova in gran parte degli stati europei. Di fatto, i musei del Risorgimento furono concepiti soprattutto come sacrari della religione della patria, luoghi di venerazione di un passato che era esaltato quale catena ininterrotta di sacrifici, esilii, eroismi, martiri. Vedere per credere, appunto: il titolo del libro vuole segnalare il nesso stringente tra il contatto diretto con i reperti gloriosi del passato prossimo e il sentimento riconoscente con cui gli italiani dovevano “guardare” agli esempi della redenzione nazionale.
In effetti, i musei del Risorgimento hanno confezionato un modello che ha influenzato profondamente – per motivazioni, contenuti, allestimenti – tutti i successivi passaggi di rappresentazione della storia.
Per molti decenni e salvo qualche importante eccezione, il colonialismo, la Grande guerra, le origini del fascismo e le sue guerre, la Resistenza hanno trovato posto principalmente all’interno dei musei risorgimentali. La difficoltà che ha accompagnato la costituzione di specifici musei della Grande guerra o della Resistenza – la cui proliferazione è tutto sommato un fenomeno che risale agli ultimi decenni – sta a dimostrare la centralità del Risorgimento nelle varie stagioni postunitarie. Ogni nuovo regime ha dovuto legittimare se stesso stabilendo un legame con la tradizione patriottica: lo stesso è accaduto per partiti e movimenti politici, di governo e di opposizione, che hanno attinto al Risorgimento risorse ideali e linfa simbolica per affrontare le sfide del presente. Nessun dubbio sul fatto che il Risorgimento sia stato un deposito inesauribile, specialmente in coincidenza degli snodi cruciali della vicenda nazionale (l’intervento nel primo conflitto mondiale, la guerra civile del 1943-45, le elezioni politiche del 1948, solo per citare alcuni esempi famosi): ma proprio una presenza così assorbente lo ha reso talora un peso, che ha condizionato o ritardato il superamento del modello ottocentesco sia in ambito storiografico sia sul piano della discussione pubblica. Si pensi alla Grande guerra, a lungo concepita esclusivamente come ultima guerra dell’indipendenza e come tale inserita nella narrazione museale. O all’immagine della Resistenza come “secondo Risorgimento”, che i musei hanno contribuito a rilanciare, in alcuni casi modificando il loro stesso nome al fine di esplicitare il legame tra le due fasi del riscatto nazionale.
In che modo negli anni Sessanta l’impianto “patriottico” dei musei storici si è incrinato?
I cambiamenti profondi che la società italiana ha conosciuto negli anni della “grande trasformazione” non hanno risparmiato il profilo identitario della nazione. Rigettata la declinazione imperiale e bellicista impressa dal fascismo, i miti tradizionali della patria hanno conservato un’ampia diffusione per buona parte degli anni Cinquanta, trainati dalla centralità della questione di Trieste – intimamente correlata alle immagini del Risorgimento e della Grande guerra – e da un bagaglio di letture e circuiti di formazione per buona parte ancorati all’Ottocento. Con l’esplosione della società dei consumi, la relazione degli italiani con quei lontani miti si affievolisce: essi non sembrano più offrire un aggancio efficace alla comprensione dei problemi del presente e alle aspettative del futuro. Non a caso, dopo la grande celebrazione del centenario dell’unità – Italia 61 – e l’avvio dei governi di centro-sinistra, è la Resistenza a entrare da protagonista nello spazio pubblico: le piazze cittadine si popolano di monumenti, le celebrazioni degli anniversari riacquistano il carattere unitario perduto dopo il 1947 e negli anni più bui della guerra fredda, i giovani manifestano il desiderio di conoscere le vicende più recenti della storia italiana, che anche i media (il cinema anzitutto, dopo la iniziale stagione del neorealismo) esplorano ora con più continuità e impegno civile.
Partendo da queste premesse, la fase che coincide con il ciclo dei movimenti e delle contestazioni del Sessantotto determina, per un complesso di ragioni, una rottura irreversibile nella presenza della storia nazionale nel discorso pubblico. I paradigmi tradizionali del patriottismo sopravvivono grazie a grandi appuntamenti celebrativi, come il centenario dell’unità e il cinquantesimo della vittoria nella Grande guerra: mostrano tuttavia una crescente ed evidente inadeguatezza a fronte degli epocali cambiamenti in atto, dentro scenari che sollecitano approcci e modelli di rappresentazione più aderenti alle nuove domande sociali di storia. I musei respirano questa crisi: non smettono di funzionare ma la loro visibilità si attenua, e ciò anche alla luce di una evidente difficoltà a rinnovarsi, a dialogare con le nuove interpretazioni storiografiche, a investire su tecnologie e narrazioni più in linea con l’evoluzione della società.
Quali elementi hanno caratterizzato gli allestimenti museali storici?
Qui si tocca un altro elemento duraturo nell’ambito della museologia storica. Nel 1908 Lodovico Corio, il direttore del Museo del Risorgimento di Milano, lo descriveva come «tempio dell’amor di patria, scuola del sacrificio, fonte per la storia del riscatto nazionale». Con parole altrettanto inequivocabili, confermava la priorità del fattore patriottico ed emotivo, la natura “religiosa” della rappresentazione museale della storia: «Le gallerie del museo sono i corridori, gli androni, le camerate che per nove lustri echeggiarono delle bestemmie de’ soldati stranieri. Qui vi hanno sede trionfale i cimeli e le reliquie de’ nostri martiri, de’ nostri eroi. La grande galleria, che prima s’affaccia al visitatore, pare voglia a tutte rivelare ad un tratto le stazioni della nostra dolorosa e gloriosa “Via Crucis».
Corio portava alle estreme conseguenze le indicazioni che i più lucidi esponenti del liberalismo avevano dato sin dagli anni Ottanta. Uomini come Francesco Crispi e Cesare Correnti avevano compreso che la gestione dei rituali e delle celebrazioni era un banco di prova decisivo per lo Stato liberale, chiamato a confrontarsi anche su questo terreno con la Chiesa cattolica «Ricordatevi che i prelati queste cose le sapevano fare bene», aveva scritto Correnti a Crispi nel gennaio 1878, nella fase di preparazione dei funerali di Vittorio Emanuele II. E aveva aggiunto: «Queste solennità se non parlano ai sensi e insieme alla immaginazione sono una facchinata e una fanfullata». La pedagogia patriottica veicolata attraverso esposizioni, mostre, musei di storia patria batteva dunque sulla corda del sentimento e dell’emozione come chiave della sua diffusione sociale: la stessa, non a caso, che si ritrova nel Cuore di De Amicis, vero e proprio catechismo laico dell’Italia umbertina.
Ciò che contava era colpire i sensi, suscitare nei visitatori un sentimento di commossa identificazione con le conquiste della raggiunta unità. Mutatis mutandis, questo obiettivo sarebbe stato cercato anche tramite la rappresentazione di altre fasi della storia postunitaria: l’irredentismo (con il martirologio di Oberdan, Battisti, Sauro), i caduti della Grande guerra, i “martiri” del fascismo e poi quelli della Resistenza. Non che i musei siamo rimasti immobili, passivamente ancorati alla loro struttura originaria: già all’inizio del secolo (il congresso di Milano del 1906) e poi durante il ventennio fascista non mancarono gli sforzi tesi a un rinnovamento che fosse insieme di contenuti e di linguaggi (una figura centrale in questo senso è quella di Antonio Monti). Ma nell’insieme queste istituzioni hanno scontato a lungo il loro marchio d’origine, che peraltro in taluni frangenti si è rivelato un argine ai più invadenti tentativi di torsione del passato in chiave ultra nazionalista.
I dati sulle visite restituiscono i contorni di un fenomeno non certo trascurabile. Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secondo dopoguerra l’affluenza ai musei – nelle grandi città così come nei più piccoli ma vivaci centri di provincia – si è mantenuto su livelli ragguardevoli. Le fonti consentono di ricostruire obiettivi, attese, dibattiti sull’importanza della posta in gioco insita nel racconto museale, l’investimento politico e simbolico riconoscibile nelle diverse stagioni dell’Italia unita, l’evoluzione dello stesso dispositivo museale nel più ampio contesto della comunicazione della storia. Più difficile è stabilire i livelli di penetrazione e radicamento della immagine del passato che i musei cercavano di trasmettere, misurare le reazioni intime dei visitatori durante e dopo la visita, capire fino a che punto il messaggio fosse assorbito ed entrasse a far parte del mondo privato.
Quali scenari e sfide caratterizzano l’epoca attuale?
Le pagine finali del libro aprono una finestra sui percorsi museali nell’Italia e nell’Europa del tempo presente, al fine di tratteggiare problemi e questioni che meriteranno ulteriori e più specifiche analisi. La crisi delle grandi narrazioni storiografiche e ideologiche, i mutamenti geopolitici seguiti alla conclusione della guerra fredda, i processi di globalizzazione, i rimescolamenti indotti dai fenomeni migratori, la rivoluzione informatica: tutto ciò ha inciso in profondità nel rimodulare i meccanismi che regolano il rapporto storia-memoria. Il dibattito che ne è derivato ha investito alla radice il senso della storia come disciplina e la sua funzione sociale: ma effetti non meno rilevanti si sono scaricati su tutti i luoghi di produzione di senso storico che, come i musei, operano nel campo della comunicazione del passato e misurano le ricadute della loro azione sul terreno scivoloso del discorso pubblico.
L’Europa sta attraversando una fase molto vivace sia in fatto di riallestimento di musei esistenti sia in termini di progettazione di nuovi spazi: nella valorizzazione dei nuovi linguaggi multimediali, questa nuova stagione sembra dialogare soprattutto con le tendenze della Public History. Si tratta di un percorso tutt’altro che rettilineo. Il passato è più che mai investito, spesso manipolato e deformato, dalle richieste identitarie di regimi, partiti o gruppi specifici: le istanze nazionaliste sono particolarmente evidenti nei paesi usciti dalla lunga dominazione dei regimi comunisti, dove l’esplosione di memorie a lungo conculcate ha alimentato al tempo stesso interpretazioni e percorsi di rappresentazione rovesciate di senso, poco sensibili alle complessità della storia. Il processo non riguarda soltanto i paesi che hanno dovuto accettare per decenni una narrazione cristallizzata del proprio passato, imposta dall’alto e scandita dalle priorità del partito unico. Nel contesto dell’Europa occidentale il discorso sui musei ha risentito di polemiche e tensioni non meno evidenti, riflesso del rapporto non sempre virtuoso che si è stabilito tra storia e memoria. Pagine del passato, che sono cruciali per la comprensione delle storie nazionali, non sono state ancora criticamente assorbite nel discorso pubblico (il fascismo italiano, i regimi collaborazionisti in Europa durante la seconda guerra mondiale, le eredità delle guerre di aggressione e del colonialismo). La Casa della storia europea a Bruxelles è un esempio dell’intreccio di buone intenzioni e dei nodi ancora difficili da sciogliere nella relazione con le richieste e le attese che vengono dai singoli paesi membri.
Non si può dunque dire che manchino i motivi per riconoscere nei musei storici un terreno di studio particolarmente fecondo per esplorare le modalità con cui le società attuali si rapportano al loro passato e ne definiscono i criteri di rappresentazione nello spazio pubblico del presente. Non solo. Il museo storico si pone come un luogo concreto in cui la conoscenza storica si incontra con la sperimentazione di nuovi linguaggi e tecniche di comunicazione: la componente ludica e l’interazione multimediale sembrano per molti versi aggiornare al XXI secolo la centralità del coinvolgimento “emotivo” che ha segnato per lungo tempo la storia dei musei. Va da sé che il museo nazional-patriottico – che pure, come si è detto, sta conoscendo una “seconda giovinezza” in molti paesi – non ha più ragione d’essere in una società democratica che voglia fondare sul rapporto critico con la storia non solo la conoscenza del passato ma anche le basi di una cittadinanza attiva e consapevole. Qui sta però la sfida, tutt’altro che scontata e dai confini incerti: una sfida nella quale coloro che hanno a cuore il ruolo della storia nella società contemporanea dovrebbero sentirsi – ciascuno con le proprie competenze – impegnati.
Massimo Baioni insegna Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano. È stato visiting professor all’Université Paris 8 e all’École Pratique des Hautes Études. È membro del comitato direttivo della rivista “Memoria e Ricerca” (Il Mulino). Dirige la collana Le ragioni di Clio (con F. Conti, Pacini editore). Tra i suoi libri: Risorgimento in camicia nera (2006); Risorgimento conteso (2009); Le patrie degli italiani (2017).