
L’attribuzione alla vista di un ruolo privilegiato nell’ambito delle teorie della conoscenza dei filosofi antichi è dunque, prima di tutto, il portato della matrice culturale nella quale le riflessioni dei pensatori si trovano inseriti e a partire dalla quale essi forniscono rielaborazioni e concettualizzazioni anche molto diverse fra loro. Per restare a Platone e Aristotele, la funzione epistemica che essi assegnano alla vista è notoriamente differente. Per quanto riguarda Platone, in particolare, a cui sono dedicati alcuni dei saggi del volume, ci si deve interrogare su quanto vi sia di metaforico e quanto invece di paradigmatico nella relazione fra la vista e le facoltà conoscitive superiori (in particolare la noesis); e, anche a prescindere da ciò, si deve comprendere se nei confronti della sensazione in generale, ivi compresa la vista, vi sia da parte sua un atteggiamento sostanzialmente svalutativo o se sia invece riconosciuto a tutte o ad alcune sensazioni un qualche contributo costruttivo nel percorso conoscitivo.
Tali questioni sono in genere affrontate con i tradizionali strumenti dell’analisi filologica e dell’esegesi filosofica dei testi. La scommessa della collana ΔΗΛΩΜΑ – della quale Variazioni sul tema del vedere costituisce il secondo volume – è che una sorvegliata analisi lessicologica dell’impiego dei termini (nel nostro caso: dei verba videndi) da parte dei filosofi può offrire una prospettiva di lettura per lo più inusitata e, invece, assai feconda. Proprio alla luce di quell’imprescindibile nesso sussistente fra mentalità diffusa e riflessione filosofica, e quindi fra linguaggio ordinario e lessico tecnico, un’analisi sistematica del modo in cui i filosofi impiegano, nel nostro caso, i verba videndi consente di misurare l’entità del ricorso alle accezioni allora correnti di tali verbi rispetto a quelle più connotate filosoficamente e, al tempo stesso, di studiare attraverso quali dispositivi di risemantizzazione parole facenti parte del vocabolario quotidiano assurgano al rango di termini tecnici. Direi di più: per pensatori operanti in una fase in cui il lessico filosofico andava ancora costituendosi (come è il caso di Gorgia e Platone, oggetto degli studi presenti nel volume) l’indagine di carattere lessicologico consente di cogliere tale opera di risemantizzazione in fieri, per così dire.
Ciò consente di gettare uno sguardo più “innocente” sulle concezioni del vedere dei filosofi antichi, meno “viziato”, cioè, dalle stratificazioni semantiche che secoli di storia del pensiero accumulano sui termini in questione (e sulle loro traduzioni nelle lingue moderne) e, conseguentemente, più vicino alla lingua viva dell’epoca e al valore evocativo che l’appropriazione filosofica di elementi del lessico ordinario poteva avere per quei parlanti. E la ricaduta sul piano dell’interpretazione filosofica mi pare evidente.
Quali sono i verba videndi impiegati da Gorgia nei suoi scritti?
A Gorgia sono dedicati due contributi al volume, entrambi di Erminia Di Iulio, che prendono in esame gli scritti del filosofo di Lentini a noi pervenuti: il Trattato (vale a dire il Peri tou me ontos) e le orazioni (l’Apologia di Palamede e l’Encomio di Elena). Il primo elemento che le analisi lessicologiche aiutano a porre in evidenza (e che rimane invece generalmente nascosto e trascurato) è la diversità fra le scelte lessicali operate da Gorgia nelle sue opere: infatti, mentre nel Trattato egli ricorre al solo verbo horao (con l’unica eccezione di un’occorrenza di blepo nella versione di Sesto Empirico), nelle orazioni il ventaglio dei verba videndi utilizzati si amplia considerevolmente. Già questo dato fornisce rilevanti spunti per considerare se e in quale misura all’origine di tali scritti vi sia o meno una comunità di intenti e di visione ontologica ed epistemologica.
Per quanto concerne il Trattato il lavoro di Di Iulio porta alla luce un aspetto di grande rilievo concettuale. In entrambe le versioni tramandate – quella dell’Anonimo autore del De Melisso, Xenophane et Gorgia e quella incorporata in Adversus Mathematicos VII da Sesto – la varietà degli impieghi di horao è posta al servizio di una distinzione non particolarmente evidente ma concettualmente essenziale per comprendere la concezione del vedere depositata in quest’opera: si tratta della distinzione fra contenuto percettivo e oggetto della percezione. Lo studio delle occorrenze di questo verbo si rivela, pertanto, una preziosa via d’accesso alla comprensione dei risvolti filosofici di un testo che, per la sua stessa architettura, risulta di assai complicata interpretazione: di Gorgia emerge, proprio attraverso le sfumature dell’uso linguistico, una notevole consapevolezza della complessità dell’atto del vedere nella sua natura epistemica e del carattere problematico del convergere e divergere in esso di versante soggettivo e versante oggettivo, di mentale e fattuale.
Nelle orazioni, come dicevo, il ventaglio dei verba videndi impiegati da Gorgia si allarga al composto synoida e ai verbi skeptomai e theaomai. Anche in questo caso l’analisi lessicologica si rivela feconda di risultati concettualmente fondamentali ai fini dell’interpretazione dei testi. A proposito dell’Apologia di Palamede, ad esempio, emerge come le diverse forme verbali radicate nel verbo horao – il presente, l’aoristo e il perfetto di tale verbo, e le occorrenze di synoida – siano portatrici di diverse sfumature semantiche, corrispondenti a diversi aspetti epistemologicamente rilevanti dell’atto del vedere. Senza entrare nei dettagli di questa analisi, posso dire che essa è di estremo interesse per quel che concerne la riflessione gorgiana sul rapporto fra vedente e visto e sul valore attribuibile alla testimonianza oculare. Altrettanto interessanti sono, per quanto poco numerose, le occorrenze di skeptomai nell’Apologia, verbo che nel suo uso figurato riporta l’atteggiamento osservativo a quello riflessivo e analitico proprio di un “osservatore” – i giudici, nella finzione dell’orazione – che non è stato presente a fatti narrati da testimoni. Nell’Encomio di Elena ritroviamo i verbi horao e skeptomai, ai quali si aggiunge l’unica occorrenza di theaomai. L’analisi lessicologica in questo caso aiuta a ricostruire quella che l’Autrice definisce, con particolare riferimento ai §§ 15-17 dell’orazione, «una complessa ed estremamente specifica teorizzazione del processo percettivo/sensoriale visivo» (p. 49): lo studio delle occorrenze dei verba videndi nell’Elena aiuta infatti a scorgere quella che con ogni probabilità doveva apparire a Gorgia una buona ricostruzione dell’esperienza del vedere, scandita nelle sue diverse fasi.
Quale uso fa Platone dei verba videndi, in particolare di theaomai, blepo e horao?
Dell’impiego di theaomai da parte di Platone è offerto nel volume uno studio completo e sistematico ad opera di Lorenzo Giovannetti. Il verbo è usato da Platone in modo sostanzialmente omogeneo in tutto l’arco della sua produzione, a differenza di quanto accade per altri termini, il cui impiego si fa più marcato in certi testi piuttosto che in altri e in determinate fasi della riflessione del filosofo. Questo dato, unito alle risultanze dell’analisi lessicologica, mostra come nell’uso di theaomai Platone lasci ampio spazio alla valenza semantica del verbo nell’uso corrente e si astenga da una sua completa tecnicizzazione, anche se numerose sono le occorrenze che cadono in passi filosoficamente rilevanti. Al contrario di quanto potrebbe apparire, ciò fa dello studio di theaomai un campo di particolare interesse, proprio per rilevare come Platone abbia predisposto quei processi di risemantizzazione cui accennavo poc’anzi. Ne è conferma la complessa articolazione dell’area semantica del verbo, così come ricostruita dall’Autore, e in particolare il caso del termine philotheamon (di evidente derivazione dal nostro verbo), che indica “colui che ama guardare” con riferimento all’assistere agli spettacoli, specie quelli teatrali: a tale termine, impiegato in un luogo celebre e cruciale della Repubblica, è dedicato uno specifico excursus che mette in luce il modo in cui Platone lo ha piegato per differenziare atteggiamenti conoscitivi opposti – rivolti allo “spettacolo” del sensibile o a quello della verità e delle idee – prendendo plasticamente spunto dall’uso corrente del verbo.
Blepo è un altro verbum videndi il cui uso da parte di Platone riveste un interesse particolare, se non altro perché, insieme al composto apoblepo, è frequentemente impiegato per descrivere l’atto con cui si “volge lo sguardo” alle idee. Il contributo relativo all’uso di tale verbo, a firma di Federico Petrucci, combina l’analisi lessicologica estesa a tutte le occorrenze del verbo nei dialoghi platonici con l’intento di dirimere una delicata questione interpretativa relativa a un passo del Timeo. Interessante, innanzi tutto, è quanto emerge dal disegno complessivo dell’area semantica del verbo: lo spettro degli oggetti del vedere designato da Platone con blepo si estende dagli oggetti sensibili agli oggetti immateriali, passando per il rivolgere lo sguardo verso qualcuno e il prendere in esame un’argomentazione o il considerare qualcosa dal punto di vista logico. Questa analisi è messa a frutto, come dicevo, per interpretare la pagina 28a-29a del Timeo, ove il verbo è utilizzato per descrivere l’atto con cui il Demiurgo, nel plasmare il cosmo, volge lo sguardo a un modello. Anche in questo caso non entro nel dettaglio dell’argomentazione e rimando al contributo dell’Autore, che ne trae significativi esiti esegetici. Mi limito solo a osservare nuovamente come il caso di blepo dimostri quanto lo studio dell’uso platonico dei verba videndi da parte di Platone sia estremamente rilevante non solo per la complessiva comprensione del ruolo della vista nella generale teoria della conoscenza del filosofo, ma anche per la lettura di singoli passi, nei quali il valore specifico del verbo può essere a pieno compreso solo sulla base della nozione del suo più generalizzato impiego da parte di Platone.
Uno studio lessicologico esaustivo dell’uso di horao nel corpus Platonicum è un’impresa notevole che spero possa essere gradualmente portata a compimento in prossimi volumi della collana ΔΗΛΩΜΑ. Una prima tessera di questo mosaico è stata posta nel primo volume della collana, con lo studio delle occorrenze dell’aoristo passivo. In Variazioni sul tema del vedere un altro passo in questa direzione è compiuto dal contributo di Filippo Forcignanò, che tematizza l’uso che Platone fa del verbo in passaggi cruciali del Parmenide. L’Autore esamina le occorrenze di horao in tali passi con l’intento di differenziare gli usi letterali da quelli metaforici. Facendo leva anche su quanto Platone afferma nel libro VII della Repubblica (523c sgg.), egli riconduce queste due tipologie di impiego del verbo a due differenti processi cognitivi: quello della metaforica “visione intellettuale”, che ha per oggetto le idee e implica la mobilitazione di risorse e facoltà conoscitive distinte dalla percezione, e quello dell’identificazione degli oggetti di esperienza, che è attitudine ben diversa da ciò in cui per Platone consiste l’autentica conoscenza. Questa lettura dell’impiego di horao nel Parmenide si lega quindi, come si può notare, ad uno dei nodi interpretativi della filosofia di Platone, a cui ho fatto prima riferimento.
Francesco Aronadio insegna Storia della filosofia antica e Storia della filosofia all’Università di Roma “Tor Vergata”. Si occupa in particolare del pensiero dei Presocratici, di Platone e della ricezione della filosofia antica nel pensiero contemporaneo. Fra le sue monografie: L’aisthesis e le strategie argomentative di Platone nel Teeteto, Napoli 2016.