“Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf” di Girolamo Imbruglia

Prof. Girolamo Imbruglia, Lei è autore del libro Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf edito da Carocci: quale importanza ha avuto l’utopia per il pensiero politico moderno?
Utopia. Una storia politica da Savonarola a Babeuf, Girolamo ImbrugliaDue sono le ragioni dell’importanza dell’utopia per il pensiero politico: perché ha rappresentato la confutazione del discorso mitico che ne costituiva la struttura, e perché ha mostrato la necessità per la politica di avere un progetto razionale, capace di rispondere al bisogno umano di felicità e libertà.

In un testo sempre suggestivo, Il disagio nella società, Freud mise in luce la lacerante ambiguità della vita sociale, che ha l’obiettivo di assicurare la sicurezza dei rapporti interindividuali, ma che produce conflitti che mettono a rischio la vita stessa delle donne e degli uomini. Probabilmente in tutte le culture umane una risposta a questa ansia è stata il mito, che ha mirato a scoprire un’armonia illusoria volgendosi o verso un passato irrevocabile o verso un futuro inesplorabile. L’Atlantide di Platone, le Metamorfosi di Ovidio, il messianismo cristiano ne sono un esempio. Il mito contesta in modo illusorio l’ordine esistente, ma o lo accetta o propone un atteggiamento “ostile alla vita”. L’utopia moderna, nata nel Rinascimento, al contrario ha dato risposto a questa angoscia in modo realistico e non illusorio, e con l’amore per la vita, non con il suo rifiuto.

Il discorso utopistico, a partire dall’Utopia di Tommaso Moro (1516) si costruisce infatti su due prospettive, critica e idealizzante. La prospettiva critica descrive i mali della società e ne cerca le cause; la prospettiva progettuale discende da questa analisi e offre la soluzione alternativa. La società utopista è una società senza il male sociale, ma non è un discorso illusionistico, perché i mali che intende cancellare non sono colpe religiose, ma hanno cause storiche e politiche concrete. L’utopia non cancella il mondo terreno per pensare l’al di là, ma vuole costruire una società che corrisponda al desiderio di pienezza di vita. Questa società ha il duplice obiettivo di permettere a ogni individuo di salvaguardare la propria autonomia e di sentirsi parte, quasi fusionale, della comunità sociale. Il discorso utopista ha posto al pensiero politico i problemi della propria realizzazione, che sono la comunità dei beni, i modi della felicità individuale e della libertà civile e politica, la tolleranza, la dedizione allo stato e la religione civile.

Perché si può affermare che Machiavelli e Moro reagirono all’esperienza di Savonarola?
Frate domenicano, Savonarola per circa quattro anni trasformò Firenze in una repubblica cristiana. Si ispirò all’umanesimo del ‘400 che aveva ammirato Roma repubblicana, ma fu consapevole che i valori repubblicani dovevano essere ripensati attraverso il cristianesimo, che aveva segnato una cesura irreversibile. Il suo progetto fu quello di riprendere i principi della vita politica classica (il Salus populi suprema lex esto) e di incanalarli nella realtà attraverso la religione cristiana. Questo progetto fu accolto da molta parte dell’élite fiorentina, che ne condivise l’ammirazione per Roma e il timore religioso per il Dio biblico. Firenze divenne una repubblica teocratica e il discorso dell’umanesimo civile fu inglobato dal discorso religioso della profezia. La sconfitta religiosa e politica di Savonarola, culminata nel suo rogo il 23 maggio 1498, mostrò che il rapporto tra religione e politica che aveva costruito era assai debole. Machiavelli, nella pagina forse più famosa del Principe, osservò che Savonarola aveva voluto essere un “profeta disarmato”, e la sua rinuncia al controllo della forza politica lo aveva condannato alla rovina. Per Machiavelli, Savonarola aveva voluto guidare la politica con un mito religioso che contraddiceva la realtà. Savonarola era stato una figura nuova di politico, diverso da quanti nell’antichità (Licurgo, Numa, Mosè) avevano utilizzato la religione a scopi politici: il frate aveva invece utilizzato la politica per far trionfare la religione cristiana. Machiavelli trasse dalla sconfitta di Savonarola la lezione del realismo politico; Moro quella del bisogno di una diversa idealità. La società aveva bisogno di religione, che per Moro non fu né quella di Roma classica, né quella del cristianesimo papale, ma fu quella del cristianesimo umanistico di Erasmo: libera da vuote cerimonie e superstizioni, tollerante, razionale. Fare i conti con Savonarola significò scoprire che per la politica c’era bisogno non di profezia ma di una religione civile: quella romana per Machiavelli, quella umanistica per Moro.

Come si sviluppò l’intreccio tra progetti ideali e volontà politica di trasformare la realtà?
L’intreccio di Moro con Machiavelli, di realismo politico e progetto ideale, a prima vista un paradosso, sta al fondo di tutta la riflessione utopista: lo troviamo in Campanella, Harrington, Spinoza, Rousseau, lì dove l’utopista ha seriamente pensato di trasformare la realtà. Per rispondere a questa domanda, occorre considerare come la politica abbia a sua volta influenzato l’utopismo. La fine dell’assetto politico del Medio Evo dominato dal rapporto tra papato e impero, la nascita dei nuovi stati nazionali (e regionali, in Italia), la scoperta dei nuovi mondi extra-europei, l’espansione coloniale determinarono il sorgere di paure e speranze nuove. Il millenarismo nel corso del ‘500 si indebolì e i conflitti religiosi e politici tra i vari stati europei spinsero a trovare soluzioni non universali ma nelle strutture nazionali. Fu in questo contesto che si pensò a come poter garantire felicità e sicurezza ai cittadini. Poi nel ‘600, con le rivoluzioni inglesi e con la cupa fine del regno di Luigi XIV cominciò a emergere, in particolare con Spinoza e Locke, una nuova riflessione sulla libertà e sulle sue forme. Fu dunque non nel fantastico pensiero di un intellettuale isolato, ma nel contatto diretto e drammatico con la politica che si è sviluppato l’utopismo: e del resto basta pensare alle vite tragiche di Savonarola e Campanella, di Moro e Babeuf per avere la percezione di questo nesso.

Quali caratteri assunse, nell’umanesimo, l’utopia?
Possiamo ben dire che il pensiero utopista sia nato con l’Umanesimo, perché Moro fu amico di Erasmo e di altri esponenti dell’umanesimo del Nord. La sua Utopia esprime con vigore i caratteri della rivoluzione rinascimentale. La società utopista è il capovolgimento del mondo attuale, così come Erasmo nell’Elogio della follia aveva capovolto il cristianesimo dominante per farne risaltare l’autentica verità. L’Utopia esprime i valori morali dell’umanesimo e li mette in azione nella vita sociale: le leggi e la comunità dei beni tengono a freno l’aggressività umana e trasformano gli individui in cittadini buoni e felici, laboriosi, e dediti al bene comune; i magistrati sono onesti; il Senato amministra con equità e dirige le funzioni governative ispirato soltanto dal principio del bene pubblico. Il cemento della vita sociale sta nella religione civile che anima la vita pubblica; ciascun cittadino ha il culto suo proprio, che può essere monoteista o politeista. La società era tollerante ma la maggior parte degli utopiani condivideva il monoteismo della religione naturale, molto vicino al cristianesimo. Tuttavia Raffaele Itlodeo, il protagonista della narrazione di Utopia, che avrebbe potuto evangelizzare gli utopiani, portava con sé molti libri di storici e filosofi greci ma, cosa singolare!, non aveva la Bibbia.

La società ideale del primo rinascimento è dunque una comunità che si basa su norme razionali pensate da un uomo e rispettose della natura, tramandate senza alterazione da tempo immemoriale. Accanto a questo modello nella cultura cinquecentesca comparve anche un’altra immagine di utopia la cui perfetta descrizione si legge nei Saggi di Montaigne: è la società di natura, la società selvaggia che viaggiatori e missionari avevano visto nell’America del sud. Una società ideale, perché gli uomini vi erano buoni e felici per natura e non per le leggi. Entrambe queste società rappresentavano l’impensabile: entrambe non trovavano spazio nella Politica di Aristotele e chiedevano di essere pensate con nuove categorie. Il pensiero utopista rinascimentale riuscì in tal modo sia a difendere l’identità profonda della cultura europea, che stava nella razionalità, sia a sottolineare l’alterità che il progetto dell’utopia aveva nei confronti dell’ordine esistente.

Come si evolve nel Seicento l’utopismo?
Due furono le trasformazioni più rilevanti del discorso utopista nel ‘600. La prima consiste nella rinuncia alla localizzazione geografica fantastica dell’utopia, e nel suo radicamento nel tempo storico. Questo passaggio è testimoniato dalla Città del Sole, che Campanella colloca in un’isola dell’oceano indiano, ma che è al tempo stesso espressione del suo millenarismo e della sua credenza nell’astrologia. Ma se in Campanella, lettore di Moro e di Machiavelli, l’utopia ha ancora il tono della profezia, nel XVII secolo questo aspetto si perde. Il tempo in cui si pensa l’utopia non è il futuro, ma il presente della Ginevra di Calvino, dell’Inghilterra di Cromwell, dell’America dei puritani o delle missioni gesuitiche, tutti luoghi nei quali l’utopia è stata costruita ed è in atto. L’altra trasformazione consiste nel fatto che l’utopia ha una più precisa cornice istituzionale. Tutte quelle realtà ancora si reggono sulla religione, che ne costituisce il fondamento ideologico e la struttura politica, ma il problema della sovranità affiora: sono variazioni della teocrazia biblica. Ritenuto l’esempio di Roma impossibile nel mondo cristiano, il modello teocratico nella sua forma repubblicana divenne il sistema politico ideale che parve assicurare la stabilità sociale secondo le regole della tradizione apostolica. Ma la sua forza durò il tempo della vampata dell’entusiasmo della sua formazione; poi nella seconda metà del ‘600 ci si chiese se la fondazione religiosa della politica invece di creare libertà non producesse fanatismo e violenza. Sia Spinoza sia Locke criticarono questo modello. Attraverso queste due trasformazioni l’utopia cominciò a interrogarsi sul problema della sovranità politica sul quale aveva taciuto.

In che modo nel Settecento l’Illuminismo secolarizzò e proiettò nel futuro l’utopia?
La teocrazia sembrò nel ‘700 uno stato superstizioso e violento, intollerante: l’immagine dell’anti-utopia. Il capovolgimento illuminista del discorso utopista mise in primo piano, accanto al rifiuto della religione, il problema della libertà. L’utopia di Moro, Campanella, Harrington era stata il pensiero di una società pacifica, ordinata, che poggiava sul rispetto di una tradizione religiosa. Ma era mancata la domanda sulla struttura politica, su quale sovranità fosse in vigore nell’utopia. Fu Montesquieu a ripensare la tradizione dell’utopismo e a elaborare la teoria politica dell’utopia. Montesquieu riprese tutti gli aspetti dell’utopismo (la comunità dei beni, l’assenza di lusso, la religione civile, la centralizzazione dei commerci, l’eguaglianza) e ne fece gli elementi di un sistema coerente che fu quello della repubblica. Con lo Spirito delle leggi la società utopista divenne una repubblica, alla cui base c’era non la religione ma la virtù politica repubblicana. L’utopia si era secolarizzata.

Montesquieu aveva indicato le condizioni alle quali si sarebbe potuta realizzare la società ideale. Ma quando e come? L’utopia divenne la speranza del futuro. Nell’età dell’illuminismo l’opinione pubblica giudicò dispotico e corrotto il governo assolutista e le due vie per uscire dalla crisi furono le riforme e l’utopia. In questa nuova articolazione della vita politica l’utopia era l’enjeu della rivoluzione. Rousseau, Helvétius, Morelly pensarono il progetto utopistico in vari modi, ma gli illuministi, con l’eccezione di Diderot, non credettero possibile realizzarlo. L’illuminismo pensò l’utopia, non la rivoluzione.

In che modo la condanna a morte di Babeuf segna la fine della parabola dell’utopia politica moderna?
La rivoluzione francese produsse ‘l’effetto utopia’ e ne creò le condizioni. Nel 1789 la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino ebbe la forza del discorso utopistico che conquista la realtà e vi impone le proprie leggi. Nel biennio 1792-94 la lotta politica si infiammò sulla scelta di Robespierre di rinunciare all’utopia della comunità dei beni e di privilegiare la logica del Terrore su quella dei diritti. Ghigliottinato Robespierre nel luglio 1794, i termidoriani smantellarono ogni eredità del giacobinismo. In questa situazione Babeuf e Buonarroti nel 1796-7 diedero vita alla Congiura degli Eguali, che intendevano realizzare l’utopia della comunità dei beni e, ammaestrati dalla rivoluzione stessa, rifletterono anche su come arrivarvi. Il loro progetto fu davvero la sintesi di tutta la riflessione utopista moderna, da Moro a Rousseau e a Diderot; con la loro sconfitta l’utopismo divenne oggetto dell’opposta ma convergente critica del liberalismo e del marxismo.

Adesso, dopo la seconda guerra mondiale e la crisi di entrambe queste ideologie, pensare di nuovo l’utopia fa tornare attuale la storia di quell’esperienza.

Girolamo Imbruglia insegna Storia moderna all’Università di Napoli “L’Orientale”. Tra i suoi libri: Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana. In appendice il carteggio Cantimori-Venturi (Bibliopolis, 2003) e The Jesuit Missions of Paraguay and a Cultural History of Utopia (1568-1789) (Brill, 2017).

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