“Uscire dall’Unione europea. Brexit e il diritto di recedere dai Trattati” di Federico Savastano

Uscire dall'Unione europea. Brexit e il diritto di recedere dai Trattati, Federico SavastanoFederico Savastano, Lei è autore del libro Uscire dall’Unione europea. Brexit e il diritto di recedere dai Trattati edito da Giappichelli: quali problemi di ordine giuridico solleva la Brexit?
Se pensiamo che in Italia oltre il 70% della produzione normativa è di derivazione europea ben ci rendiamo conto delle dimensioni e del livello di interdipendenza che esiste tra l’Unione e i suoi Stati membri.
Uscire dall’Unione europea non significa solamente recedere da un Trattato, non significa abbandonare un contesto politico né tirarsi semplicemente fuori da un mercato o da un’area di libero scambio.
L’ordinamento europeo è infatti tale per dimensioni e peculiarità da essere capace di penetrare negli ordinamenti nazionali non solo caratterizzandoli significativamente, ma cambiandone la natura stessa.

L’Unione ha dei valori che ha ricevuto dagli Stati membri, li ha fatti propri, li ha modificati e rafforzati per poi ritrasferirli agli Stati con ancora più vigore; coadiuva gli Stati nella garanzia di diritti che, grazie alla presenza dell’Unione europea, ottengono livelli maggiori di tutela. Essere stati parte dell’Unione significa aver ispirato il proprio ordinamento a qualcosa di diverso, comune ad una famiglia di Stati. Non se ne riesce ad uscire con una semplice lettera.
E non parliamo solo di principi e diritti: far parte dell’Unione europea significa conformare le proprie leggi alle previsioni dell’acquis communautaire: trasporti, energia, scienza, ricerca, pesca, servizi finanziari, appalti, proprietà intellettuale, concorrenza sono solo alcuni dei capitoli dell’acquis cui corrispondono interi settori in cui le normative degli Stati membri sono sostanzialmente omogenee.

Abbandonare questo sistema può comportare non solo e non tanto vuoti normativi (il Regno Unito ha provato ad ovviare a questo rischio attraverso la “patriation” di tutte le norme europee, che sono state trasformate in norme interne) ma un vero e proprio caos. Il Regno Unito ha provato ad organizzarsi attraverso lo European Union Withdrawal Bill, i cui contenuti lasciano non poche perplessità: una nuova categoria di fonti del diritto, un ruolo non chiaro delle Corti nell’interpretazione delle norme, solo per dirne alcune.

Per chiarire e sintetizzare, abbandonare l’Unione crea allo Stato recedente un grosso problema di certezza del diritto, di funzionamento delle norme, di compatibilità di tali norme con i mercati. Problema che non può essere risolto con un semplice “copia&incolla” con cui si cambia il titolo ad un testo trasformandolo da “direttiva europea” a “legge del parlamento inglese”.

Come si configura il diritto di recedere dall’Unione europea?
Come la possibilità – legittima – data ad uno Stato membro di lasciare nel modo più ordinato possibile l’Unione. L’ormai famoso “articolo 50” costituisce una sorta di “punto di arrivo” nella storia del diritto alla secessione negli ordinamenti federali. La procedura in esso descritta si basa fondamentalmente su una storica pronuncia con cui la Corte Suprema canadese riconobbe agli stati federati il diritto a manifestare la propria volontà di secedere e di intavolare trattative con lo Stato centrale per organizzare tale secessione. Ai sensi dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea uno Stato può dichiarare la propria volontà di uscire dall’Unione e avere il diritto di aprire una fase di trattative in cui negoziare i termini della fuoriuscita.

L’elemento in più portato dal Trattato riguarda la previsione che, comunque vadano i negoziati, dopo due anni dalla dichiarazione lo Stato perde la sua membership anche laddove non si fosse trovato un accordo. In buona sostanza lo spettro del “no deal” di cui tanto si è parlato nell’ultimo periodo.

Un tema su cui si è concentrata l’attenzione della dottrina negli ultimi anni è stato quello della revocabilità della dichiarazione. Gli studiosi si erano divisi tra coloro che ritenevano la dichiarazione irrevocabile e quelli che invece consideravano possibile un “dietrofront” unilaterale da parte dello Stato recedente. Personalmente ero d’accordo con i primi, ma la Corte di giustizia – interprete suprema dei Trattati – è intervenuta a fine 2018 chiarendo come l’art. 50 faccia riferimento alla dichiarazione di “intenzione” di lasciare l’Unione e una “intenzione” è per definizione soggetta a modificarsi. Ovviamente non posso che prendere atto della decisione della Corte e delle importanti argomentazioni da essa addotte, ma certo una considerazione politica – non giuridica – si può fare: rendere l’art. 50 revocabile significa in qualche modo consegnare agli Stati una bomba ad orologeria: ipoteticamente, qualche Stato in mano a qualche governo irresponsabile potrebbe pensare di usare l’articolo 50 come arma di scontro con l’Unione, ben sapendo di poter dichiarare la volontà di uscire e revocarla strategicamente entro due anni. Ma questa al momento è fantapolitica, e bisognerà prima capire come finirà davvero Brexit per valutare simili rischi.

I rapporti tra Regno Unito e Unione europea sono sempre stati difficili: come nasce l’idea di una “Brexit”?
Da subito per certi versi. Dal discorso di Zurigo in cui Churchill auspicava la nascita di un’Europa unita di cui il Regno Unito fosse partner, e non parte; dal primo referendum sulla permanenza del Regno Unito celebratosi già due anni dopo l’adesione alla CEE; dai suoi opt-out in materie fondamentali; dalla sua auto-esclusione permanente dall’Euro.

Ma Brexit nasce anche da altri fattori che sono diventati sempre più preponderanti nella scena politica non solo inglese: da una parte una classe dirigente inadatta alla gestione di fenomeni complessi, dall’altra l’incapacità di rispondere alle campagne populiste e sovraniste che usano i nuovi media per diffondersi tra l’opinione pubblica.

Nel Regno Unito, in particolare, tutto nasce dai consensi acquisiti dall’UKIP, il partito per l’indipendenza del Regno Unito e dalla crisi dei partiti tradizionali. I conservatori si sono spaventati del calo di consensi e hanno pensato di strizzare l’occhio ai populisti dando ai cittadini la possibilità di esprimersi sull’appartenenza all’Unione europea, convinti che il risultato sarebbe stato scontato a favore del “remain”. La retorica dell’euroscetticismo ha invece prevalso nell’opinione pubblica, spingendo cittadini poco e male informati a manifestare la propria rabbia scaricandola contro l’Unione europea. I laburisti in crisi e i conservatori divisi non hanno saputo gestire il fenomeno e ne sono rimasti schiacciati.

Va detto comunque che nel malcontento dei cittadini britannici, così come per le radici dell’euroscetticismo in genere, l’Unione europea non è scevra da responsabilità: in prima battuta non è stata capace di comunicare se stessa e tutti i vantaggi che ha portato nella vita dei cittadini degli Stati membri. Va poi comunque evidenziato come non si sia mostrata capace di organizzare una risposta comune a problemi comuni percepiti in maniera molto sensibile dalla popolazione di ciascun Stato membro. Un esempio su tutti è l’atteggiamento tenuto nei confronti del problema delle migrazioni, non a caso uno dei quattro punti – insieme a governance economica, sovranità e competitività del mercato interno – contenuti nel cahier de doleance inviato da Cameron al Consiglio europeo a fine 2015 che, per certi versi, rappresenta l’inizio di tutta la vicenda.

Quali vicende hanno accompagnato il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea?
La cosa davvero difficile a credersi è che tutto nasce per calcoli interni di partito e di consenso, peraltro rivelatisi palesemente sbagliati. Cameron aveva promesso un referendum in caso di vittoria elettorale, usando dunque un tema tanto importante come mero strumento propagandistico. Una volta ottenuto il consenso che voleva si è trovato a dover indire la consultazione diretta, “concedendola” di fatto ai suoi oppositori, dato che lui si sarebbe schierato per il “remain”.

Giustamente dimessosi in ragione dell’esito del referendum, ha ceduto il testimone a Theresa May.

Gli osservatori più attenti conoscevano la May come un non proprio brillantissimo ministro, ma l’entusiasmo generale portò qualcuno a parlare di una nuova Thatcher che avrebbe guidato il Regno verso una fase diversa.

La prima mossa della May è stata quella di indire delle elezioni per rafforzare il suo mandato. Risultato: prima aveva la maggioranza, dopo le elezioni ha avuto bisogno dell’appoggio degli unionisti nordirlandesi del DUP per restare al governo. Si è indebolita con le sue mani.

È divertente notare come nel novembre del 2015 Cameron fosse saldamente al comando di un governo conservatore abbastanza stabile mentre sette mesi dopo lui era politicamente morto e i conservatori governavano solo in coalizione. Il tutto senza alcun fattore esterno: tutto confezionato da soli, con le proprie mani.

Come si sono svolti i negoziati tra Regno Unito e Unione europea?
Il Governo inglese ha creato un ministero apposito – il Department for Exiting the EU – con il mandato di gestire i negoziati. Da parte sua l’Unione ha individuato nella Commissione il negoziatore europeo. La Commissione, da parte sua, ha istituito la Taskforce guidata da Michel Barnier.

Le due squadre negoziali si sono incontrate mensilmente in dei “round” di trattative in cui si è cercato un accordo su tre temi fondamentali: le questioni inerenti i diritti dei cittadini britannici residenti in Europa e dei cittadini europei residenti nel Regno Unito; le questioni economiche riguardanti le pendenze e le pretese finanziarie delle parti, compresa la partecipazione del Regno Unito a diversi programmi europei ancora lungi dal concludersi; il problema del confine irlandese.

Il primo punto raccoglie in sé molteplici temi spinosi riguardanti anche le future relazioni tra Regno Unito e Unione. A proposito di future relazioni, questo tema, ossia come saranno i rapporti tra Regno Unito e Unione dopo Brexit, secondo l’Accordo firmato dalle parti avrebbe dovuto essere affrontato nel corso del periodo di transizione che dovrebbe terminare il 31 dicembre del 2020.

Una considerazione sull’andamento pratico dei negoziati è d’obbligo: sui vari temi l’Accordo di recesso recepisce sostanzialmente la posizione dell’Unione europea. La squadra di Michel Barnier è sempre stata puntuale nel presentarsi al tavolo delle trattative con proposte concrete di soluzione dei problemi. Dall’altra parte la squadra londinese (che tra l’altro è cambiata più volte nel corso di questi due anni) è sembrata clamorosamente impreparata e ha dato l’impressione di non aver mai delle controproposte o delle linee politiche da seguire – convergenti o alternative che fossero rispetto alle proposte europee.

Quali implicazioni ha la Brexit per Scozia e Irlanda del Nord?
Su Scozia e Irlanda del Nord è necessario fare considerazioni diverse, partendo dal punto di partenza comune che Brexit è un evento che avrà un peso nei rapporti tra le amministrazioni devolute e il Regno Unito.

Per quanto riguarda la Scozia, va tenuto presente che due anni prima del referendum Brexit si è celebrato un referendum per la permanenza della Scozia nel Regno Unito. Consultazione popolare che ha avuto come esito il “remain”. Le tensioni indipendentiste in Scozia sono sempre state presenti, sebbene mai abbastanza forti da coinvolgere – come evidente dal referendum – la maggioranza della popolazione. L’elemento importante ai fini del nostro discorso è però il radicato europeismo dell’elettorato e della politica scozzesi. Gli scozzesi tengono molto all’appartenenza all’Unione e alla loro identità europea e non a caso si sono espressi contro al recesso del Regno Unito. Di sicuro Brexit non avrà ripercussioni immediate sulla questione scozzese, né bisogna lasciare il passo a scenari fatti da apocalittiche concatenazioni di eventi per cui da Brexit si arriverà presto alla rottura di tutto e alla fine del mondo.

Certo è che al momento del referendum scozzese l’abbandono dell’Unione europea non era un’ipotesi sul campo, e sarebbe stato curioso vederlo celebrarsi alla luce dell’ipotesi Brexit. Allo stesso modo l’esito negativo del tentativo indipendentista non da adito ad ipotesi di immediata ripetizione della consultazione. Ma di sicuro la Scozia continuerà a guardare all’Unione europea e le sue ambizioni di una relationship sempre più stretta potranno costituire un problema per Londra.

Per l’Irlanda del Nord la questione è ancor più intricata: i rapporti con la Repubblica d’Irlanda sono stati bagnati di sangue per decenni ed è stato possibile risolverli solo grazie all’esistenza dell’Unione europea, che ha permesso, in virtù della libera circolazione tra gli Stati membri, il raggiungimento dell’Accordo del Venerdì Santo, alla luce del quale le tensioni si sono attenuate e l’IRA (l’esercito rivoluzionario irlandese) ha interrotto la propria attività terroristica. La backstop solution, ossia un compromesso minimo sull’Irlanda contenuto nell’accordo tra Regno Unito e Unione europea, ha creato malcontento tra i nordirlandesi ed è stata una delle cause del mancato accordo. Ma va sottolineata una cosa: qualunque accordo si trovi, qualora se ne trovasse uno, comporterà un peggioramento della situazione in Irlanda del Nord. Magari non si tornerà al terrorismo, ma di sicuro si faranno passi indietro.

Quali le conseguenze per la prosecuzione del federalizing process europeo della Brexit?
Quando si è iniziato a parlare di Brexit, molti osservatori si sono subito concentrati sul possibile “effetto domino”: se il Regno Unito esce e mostra indicatori economici positivi molti altri Stati saranno tentati dall’abbandono dell’Unione. Secondo alcuni studiosi un “rimbalzo” verso l’alto nei primi anni fuori dall’Unione è anche possibile, ma sarebbero gli effetti di lungo termine ad essere negativi per lo Stato che va via. Ora, dato che in molti Stati d’Europa stanno avendo successo forze politiche che mostrano maggiore attenzione all’immediato rispetto al lungo termine, l’effetto domino poteva essere un rischio concreto.

Si può comunque dire che il caos nel quale si sta dipanando Brexit stia scongiurando il rischio che qualche altro stato voglia seguire l’esempio di Londra. Di più: i mille problemi di tipo politico, economico e giuridico che le trattative hanno fatto emergere, non possono far altro che scoraggiare ipotetiche emulazioni. Anche le classi politiche non hanno molto da guadagnare dall’imbarcarsi in una simile impresa: i conservatori britannici ne stanno uscendo con le ossa rotte; David Cameron e Theresa May hanno probabilmente terminato la loro esperienza politica, entrambi travolti da Brexit. Quindi l’effetto domino non solo è stato scongiurato, ma è probabile che ogni velleità in altre parti d’Europa sia stata scoraggiata.

Per usare una formula del Prof. Caravita, che, oltre ad essere ordinario di diritto pubblico alla Sapienza, è direttore di federalismi – una Rivista scientifica che ha seguito il tema sin dagli albori, attraverso seminari, articoli autorevoli e un osservatorio dedicato – Brexit per l’Unione rappresenta un’operazione “win-win”, perché se riesce siamo di fronte al trionfo del diritto europeo, capace di reggere anche un momento traumatico come la secessione di un suo territorio, se invece non riesce siamo di fronte alla dimostrazione che l’Unione europea è necessaria e imprescindibile per i suoi Stati membri.

Federico Savastano è assegnista di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico presso il Dipartimento di Scienze politiche della Sapienza – Università di Roma, dove ha conseguito il dottorato in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate. È componente della Redazione della Rivista federalismi, di cui coordina la segreteria di redazione.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link