
Definisco quindi élite militare quella parte del corpo ufficiali dotata della possibilità di influire fattivamente sugli indirizzi di sviluppo e gestione dell’istituzione militare, nonché sulla definizione della sua formazione e della sua ideologia professionale. Rientrano in questa definizione un numero limitato (e non costante nel tempo) di ufficiali generali e superiori, in gran parte (ma non tutti) appartenenti al corpo di stato maggiore. Gli ufficiali in questione sono sia i responsabili del mantenimento dell’ordine all’interno dello stato (come comandanti dei corpi d’armata territoriali), sia della pianificazione della guerra e della gestione del corpo ufficiali (come capi o alti responsabili dello stato maggiore), sia dell’evoluzione tecnica della forza armata (come ispettori o membri dei comitati d’arma), sia infine della gestione dell’istituzione militare nel suo complesso e dei suoi rapporti col potere politico (come ministri, sottosegretari o funzionari ministeriali). A tutti costoro vanno aggiunti quegli ufficiali di stato maggiore i quali, pur gerarchicamente di grado inferiore, ricoprono ruoli (posizioni-chiave) che conferiscono loro responsabilità e libertà d’azione significative, come ad esempio gli addetti militari all’estero.
In ogni caso, per tornare al merito della domanda, il corpo ufficiali italiano di età liberale era un organismo socio-professionale estremamente complesso, frutto della fusione di numerose istituzioni ed entità preunitarie, e del tentativo fatto dopo il 1861 di definire un percorso di accesso omogeneo in un contesto che di omogeneo aveva poco e nulla. Per dare anche solo una vaga idea di ciò di cui stiamo parlando, ancora nel 1882 la quasi totalità dei membri dell’élite erano stati ufficiali superiori prima del 1860, e di conseguenza continuavano in buona parte a concepire sé stessi e l’istituzione della quale facevano parte con gli stessi parametri in base ai quali si erano mossi nei contesti più limitati di un Piemonte, di una Toscana, o di un’esercito a base volontaria. Soltanto a partire dalla metà degli anni 1890 iniziano ad approdare ai vertici dell’istituzione militare italiana ufficiali nominati dopo l’unità, e formati in un contesto nazionale e nazionalizzante. Oltre a quella su base esperienziale, vi sono poi altre linee di frattura, o per essere meno drammatici, altri fattori di diversità: la provenienza geografica (intesa sia come regionale, sia come urbana o rurale), il retroterra sociale ed economico, la stessa formazione che rimane estremamente eterogenea almeno fino al 1867…
Qual era il percorso educativo della élite militare?
Per quanto possa sembrare strano, all’interno di un corpo ufficiali generalmente non coltissimo, era un percorso incentrato sulla formazione accademica, e più precisamente sulla frequenza ai corsi della Scuola di Guerra di Torino. Scuola di Guerra che era una vera e propria università militare, strutturata e concepita come tale dai suoi fondatori e dal suo primo direttore, il generale Agostino Ricci. Proprio nelle istruzioni scritte da quest’ultimo per i corsi del decennio 1870-80 sono rintracciabili elementi di grande interesse, a partire dalla concezione dell’insegnamento (più seminariale e interattivo che puramente frontale) e dalla decisione di quali materie dovessero costituire il nucleo effettivo della formazione impartita. Vediamo allora come le materie scientifiche, in un’epoca dominata dal positivismo, vengano delegate alle accademie come Modena, mentre nella Scuola sono presenti prevalentemente all’interno di corsi pratici e facoltativi. E come d’altra parte vengano definite come centrali lo studio della storia, della geopolitica, dell’arte militare intesa non come sapere puramente tecnico ma come parte di un bagaglio essenzialmente umanistico. Non è un caso che all’interno degli esami finali venissero incluse tracce riguardanti eventi di strettissima attualità (come ad esempio la guerra franco-prussiana, e successivamente quelle coloniali e balcaniche) o coinvolgenti piani diversi da quello militare (come la previsione di un conflitto “totale” che avrebbe reso necessaria la mobilitazione di un “fronte interno”). Anche la conoscenza delle lingue straniere rivestiva un’importanza per nulla secondaria, considerato alcuni tra gli ufficiali-allievi, una volta diplomati, sarebbero stati mandati in missione all’estero proprio in virtù del rendimento in quelle materie. A partire dal 1867 il successo o il fallimento di una carriera iniziava nelle aule della Scuola di Guerra oltre che, inevitabilmente, nell’albero genealogico o nel portafogli della famiglia di provenienza. Si tratta di un’innovazione essenziale, per una istituzione come quella militare che fino agli anni 1840 era stata, specie in Piemonte, esclusivamente governata da favoriti del re e rampolli delle antiche famiglie nobiliari, a prescindere dalle loro effettive capacità. Certo, un buon voto di diploma non bastava: dopo la Scuola di Guerra l’aspirante membro dell’élite militare doveva ancora dimostrare tutto o quasi, in anni di servizio nel Corpo di Stato Maggiore a Roma o presso i comandi periferici dei corpi d’armata o delle divisioni territoriali – per non parlare dei periodi, stabiliti per legge, durante i quali doveva lasciare l’attività “intellettuale” per assumere il comando di un’unità di linea. Tuttavia l’aver frequentato la Scuola di Guerra dava diritto automaticamente all’inserimento nella graduatoria dell’annuario militare al di sopra di tutti i colleghi che non avevano avuto la stessa abilità o fortuna, o opportunità: un vantaggio di carriera sostanziale, che aveva anche lo scopo di far giungere ai vertici dell’istituzione persone sufficientemente giovani e preparate.
Come ci ricorda il titolo del Suo libro, prima che generali, i protagonisti delle vicende belliche erano uomini: quali erano le motivazioni ideali e pratiche degli ufficiali italiani?
Occorre tenere sempre ben presente che l’élite militare di età liberale, per non parlare dell’intero corpo ufficiali, non era una formazione monolitica caratterizzate da un’unica ideologia, da un unico modo di intendere il proprio ruolo e il proprio posto nel mondo. Ci sono grandi differenze, ad esempio, tra le diverse generazioni di ufficiali che si avvicendano al vertice dell’istituzione militare tra l’unità e la Grande Guerra. Generali sessantenni nel 1860, che hanno già ricoperto ruoli-élite nell’Armata Sarda o nell’esercito delle Due Sicilie, o ancora nell’esercito meridionale garibaldino hanno una storia e una testa totalmente diverse (oltre che fra di loro) da quelle di un ufficiale di stato maggiore nato nel 1850, la cui formazione è avvenuta all’interno del percorso omogeneo post-1867, e che la guerra l’ha vista ed esperita soltanto in un contesto particolare e “asimmetrico” come quello coloniale. Certamente ci sono dei minimi comuni denominatori, costituiti dall’adesione alle opzioni monarchica e liberal-conservatrice, ma entro questi paletti i posizionamenti sono molteplici e a volte problematici. Anche le motivazioni pratiche e concretamente materiali possono essere molto differenti se pensiamo che all’interno dell’élite militare incontriamo sia eredi di enormi patrimoni fondiari e immobiliari, che figli di negozianti, di piccoli e piccolissimi proprietari rurali, di impiegati, di ufficiali che non avevano mai raggiunto i gradi superiori. Ci sono coloro che abitano la professione militare come destino eterno (come i rampolli delle antiche famiglie della nobiltà di spada piemontese) e quelli che invece la colgono come occasione di ascesa sociale, o addirittura di rivalsa esistenziale. Le figure di Tullo Masi, figlio di un sindaco garibaldino mortificato dalle élites terriere romagnole che una volta cresciuto e diventato generale sposa l’erede di una delle più grandi famiglie di aristocratici latifondisti della regione; o di Cesare Magnani, self-made-man in salsa piemontese che quando si iscrive all’accademia militare si vergogna del proprio cognome (che in dialetto novarese vuol dire ferraio, fabbro) e vi premette il Ricotti che gli viene da uno zio canonico, ma che diventa il grande artefice dell’esercito unitario negli anni 1870, sono solo due esempi fra tanti. In generale però, un baricentro comune può essere individuato nel fatto che, specie prima della crisi di fine secolo, la professione militare esercita un’attrattiva che è assieme sociale e culturale: sociale, perché tra le carriere al servizio del neonato stato unitario è tra quelle che godono di maggiore esposizione pubblica, e di maggiore riconoscimento, oltre ad essere la più direttamente legata alla figura del sovrano; culturale perché gli ufficiali – o almeno i più sensibili fra essi – si considerano “maestri della nazione”, artefici dell’unità nazionale attraverso la guerra prima e la leva poi, e questo loro ruolo non viene messo in discussione per lunghi anni. Non credo sia un caso che il modello inizi a declinare seriamente con le disastrose spedizioni africane, e con l’ascesa dei partiti di massa che nel corpo ufficiali vedono principalmente una coorte di pretoriani monarchici.
Per molti appartenenti all’élite militare vi fu anche un’impegno pubblico e politico
Certamente: in quanto appartenenti ad una delle élites dirigenziali dello stato liberale, i membri dell’élite miltare hanno in buona parte anche esperienze politiche, elettorali, esecutive, amministrative. Non solo, molti di loro hanno una doppia identità: si percepiscono come professionisti militari, ma anche come notabili locali o nazionali – e non è facile stabilire quale delle due identità sia quella principale. Quando un ufficiale si candida alle elezioni legislative, per esempio, può comportarsi esclusivamente da militare (come il romagnolo Mirri, che delega completamente la campagna elettorale al comitato che l’ha candidato) o da politico fatto e finito: Luigi Majnoni d’Intignano percorre nel 1894 tutto il territorio del suo collegio elettorale tenendo discorsi a notabili cittadini, proprietari rurali, persino operai, adattando di volta in volta gli argomenti alla platea con la quale si trova ad interagire. Ci sono poi diversi gradi di coinvolgimento pubblico, e diverse forme di impegno politico-amministrativo. Luchino Dal Verme (1838-1911) è certamente un ufficiale dell’esercito italiano, esperto di questioni coloniali e ben inserito ai vertici dell’élite militare nazionale, ma è anche il patrono di una comunità locale (corrispondente ai feudi controllati per secoli dalla sua famiglia) che lo elegge più volte deputato in parlamento e si rivolge a lui per una miriade di questioni che esulano dalla sfera del militare. Luigi Pelloux, in quanto savoiardo optante per l’Italia dopo il 1859 è al contrario un esempio di ufficiale sradicato da qualsiasi legame con uno specifico territorio, ha una carriera giocata quasi completamente a Roma, negli uffici del ministero della guerra e nelle aule parlamentari, e che non a caso approda (caso unico tra il 1882 e il 1915) a palazzo Chigi. Moltissimi ufficiali diventano inoltre, al termine della propria carriera professionale, membri delle amministrazioni locali (a livello sia comunale che provinciale) e presidenti o membri di primo piano di associazioni notabilari, di organizzazioni benefiche, di enti privati che affiancano le amministrazioni pubbliche – ad esempio nella gestione di musei o della memoria dell’epopea risorgimentale.
Non vi è insomma un unico modello di comportamento per quanto riguarda la sfera del pubblico e del politico, anche perché un proprietario terriero ha interessi socio-economici diversi da quelli di una persona che vive in affitto, e un ufficiale che riesce a vivere più o meno stabilmente in una grande città ha un campo d’azione socio-culturale diverso da quello a disposizione di chi viaggia per anni tra diversi comandi periferici – e all’interno dell’élite militare vi sono sia gli uni che gli altri. Certamente, il dato che emerge è quello di una élite militare che, a prescindere dai modi nei quali si esplicita il suo eventuale coinvolgimento pubblico, nutre per il mondo nel quale vive e agisce un interesse che va molto al di là della pura sfera professionale.