
Sta di fatto che il fenomeno delle migrazioni d’arte dalle valli attorno ai laghi lombardi è opportunamente considerato dagli studiosi un fenomeno storico grandioso che per secoli ha segnato la vita quotidiana di queste pievi e interessato la produzione artistica di tutta l’Europa. È la cosiddetta “aristocrazia dell’emigrazione” che ha regole diverse da quelle praticate nelle valli superiori del cantone, dove prevale la ciclicità periodica stagionale. Entrambe hanno però un obiettivo condiviso: la ricerca di una miglior vita e del successo professionale.
Quali effetti ha prodotto l’emigrazione nel tessuto sociale ed economico della terra natia?
L’emigrazione a sua volta ha determinato immigrazione comportando un rinnovarsi dei nuclei familiari. Le partenze definitive riguardano di solito le eccellenze, ovvero le personalità che hanno conseguito fama e ricchezza, e che si sono integrate nella patria d’accoglienza, mentre i non ritorni riguardano i perdenti, coloro caduti in miseria non tornano a casa per nascondere il fallimento. Comunque questi destini tendenzialmente si limitano a un membro o una parte della famiglia perché il bilocalismo o il plurilocalismo sono pratica costante delle strategie migratorie. Questa è una delle regole costanti delle logiche migratorie tanto delle famiglie dell’emigrazione “alta” quanto di quelle che praticano umili mestieri. Obiettivo? La conservazione dell’appartenenza alla vicinia che consente l’accesso agli usi civici del territorio comunale, fondamentale se occorreva abbandonare i luoghi del lavoro. E per uomini che partono altri ne arrivano per assumersi le mansioni quotidiane più faticose. Sono i pastori, i carbonai, i servi, dalle ben più povere valli alpine, da cui derivano nuovi casati che nell’arco di due tre generazioni diventano nuova forza lavoro pronta a partire, alimentando così i circuiti socioeconomici. Altre nuove presenze giungono dalla vicina Lombardia e contribuiscono alla crescita del paese portando competenze e capitali soprattutto nei settori commerciali e protoindustriali della società dei baliaggi, nuove risorse che vanno ad aggiungersi a quelle date dalle rimesse che sono monetarie ma anche sociali e culturali. Non c’è paesino, alle nostre latitudini, che non conservi il ricordo di questo grandioso fenomeno: quadri d’autore acquistati all’estero per l’altare o per cappelle gentilizie, reliquie di santi giunte da lontano, statuette di madonne, decorazioni in marmo e in stucco eseguite dalle abili mani di chi ha frequentato prestigiosi cantieri.
Quali strategie socioeconomiche e familiari erano messe in atto dagli “uomini che partono”, determinando anche i destini delle donne a loro legati?
La lettura tradizionale delle strategie dell’assenza vuole la donna a casa, produttrice di rendite, e l’uomo lontano, fornitore di indotti pecuniari. Di fatto questa dicotomia ha le sue “smagliature” perché le donne non sono solo bestie a due gambe, e il mondo femminile richiederà ancora molti studi, molti approfondimenti. Intanto va detta una cosa fondamentale a prescindere da qualsiasi storia, famiglia o ambito: ci sono fattori che possiamo considerare dominanti, trasversali, che fanno coincidere i destini di molti casati, ma è pur vero che gli aspetti circostanziali sono altrettanto significativi, perciò ogni storia di migrazione ha tratti che rientrano in schemi riconducibili ai citati modelli generali e nel contempo ha comunque sempre delle peculiarità che dipendono dalla solidità della famiglia, dall’intensità dei legami affettivi, dal proprio vissuto, dal grado culturale e soprattutto, per le donne, dalla capacità di ritagliarsi spazi personali, di agire con una certa autonomia ed è in quest’ambito che i fattori circostanziali si fanno più incidenti. È indubbio che giuridicamente le donne hanno pochissimo margine d’azione: sono inevitabilmente figlie, mogli, vedove, madri, sorelle di qualcuno; tuttavia il carattere, la personalità hanno valenze determinanti. Sulle donne c’è ancora molto da dire perché le loro tracce sono sottili, e solo con molta pazienza e con molta ricerca si potrà verosimilmente capire il loro ruolo svolto nella società di antico regime. Abbiamo testimonianze che riguardano presunte streghe punite per la conoscenza di erbe e rimedi ai malanni, o donne “irregolari” perché fuori degli schemi sociali costituiti, che fanno scelte singolari, oltre il consentito. E donne partecipi dei destini dei mariti, che li seguono nelle città d’Europa, consapevoli che la nuova realtà va oltre la quotidianità conosciuta e certa; e altre che preferiscono il rifugio di una vita “protetta”, a casa nel villaggio natio, circondate da certezze rassicuranti. Ma chi fra loro sperimenta la vita nelle capitali della cultura finisce per restarne avvolta, perché il piccolo villaggio non può competere con Roma, Venezia, Vienna o San Pietroburgo. Nel contempo abbiamo donne venute da lontano che accettano la nuova patria nelle terre della Svizzera italiana, adeguandosi a luoghi così diversi dalle loro radici cittadine.
Quali sono state le principali destinazioni dell’emigrazione ticinese?
Le assenze sono un elemento di realtà quotidiana che attraversa vallate e regioni prealpine, che riguarda molte comunità, molti mestieri e altrettante mete, in età moderna distribuite in tutta Europa, mentre nel corso dell’Ottocento si moltiplicano varcando i mari. Già Bonstetten nel 1797 osservava che «ogni valle ha qualche artigianato, esercitato poi in esclusiva nelle città italiane. Nella valle di Blenio tutti gli abitanti sono ciocholattieri, poiché un servitore lo era diventato anni prima, e si era tirato dietro uno dopo l’altro i suoi giovani convallerani. In valle Maggia ci sono molti fumisti che impediscono al fumo di stagnare nelle canne fumarie di tutta Europa; nelle Centovalli sono tutti faquini o vetturini a Roma. In Valtellina e nel Bergamasco ci sono intere regioni di rosticcieri; nelle valli di Lugano, di stuccatori, muratori, costruttori edili; ….». Anche i settecenteschi ruoli militari riferiti al baliaggio di Blenio, contano molti assenti, uomini di fatica che esercitano perlopiù umili mestieri. Oltre ai ciocholattieri, partono regolarmente facchini, marronai, pulitori di latrine, brentatori, mentre dal Sottoceneri sono le maestranze dedite alle attività edilizie a dominare la società dell’assenza. I villaggi, dove alla fine del Settecento i vuoti sono più incisivi, conoscono una radicata strategia migratoria che risale al tardo Medioevo. In alcuni comuni le assenze degli uomini con diritto di voto superano i 2/3, come a Carona, villaggio della Collina d’Oro, patria di rinomate botteghe di scultori quali i Solari, gli Aprile, i Casella, un tempo attivi in Lombardia e in Liguria, che sul finire del Settecento, invece, lavorano in Ungheria, a Vicenza, a Venezia, nella Bergamasca, in Piemonte e in Romagna, perché le destinazioni cambiano in relazione al mercato del lavoro soggetto agli avvicendamenti politico-istituzionali e al variare dei fermenti culturali. Analogamente Arogno piccola località della Val Mara, terra di costruttori di cattedrali, e Rovio, paesino altrettanto modesto prossimo ad Arogno, hanno dato i natali ai Carloni, ai Bagutti, ai Mazzetti, ai Colomba, agli Artari e ai Cometta, tutte famiglie abili col marmo quanto con lo stucco e con i colori, come documentano i segni della memoria lasciati in patria, quando i loro passi erano guidati dai transalpini cantieri della Controriforma. Ora queste famiglie vanno «sul veneziano», in Piemonte o in Francia, riconvertendo non di rado le professioni, come noto per i mastri e stuccatori della Valle di Muggio, attivi soprattutto a Genova, i cui discendenti nell’Ottocento, a Parigi o a Lione, sono commercianti di cornici, vetri o reliquie.
Come si sono organizzate le comunità ticinesi all’estero?
Nell’interpretazione dei fenomeni migratori, un dato rilevante è la capacità dei migranti di ritagliarsi, in un tessuto urbano, un proprio spazio fisico, professionale e culturale. I luoghi degli stranieri sono i “nodi” delle reti migratorie costruite da compagnie di mestiere, che condividono pure confraternite e corporazioni. Nel contempo casa e quartiere sono la riproduzione di un’enclave però capace di aprirsi al paese ospitante, da cui si traggono nuove abitudini che diventano poi elementi di identificazione per chi rimpatria, aspetti maggiormente individuabili nelle categorie che hanno raggiunto il successo professionale. Quartiere e corporazione sono due realtà complementari della presenza nelle città, perché non sono speculari: il quartiere è il luogo dove ci si ritrova fra compatrioti, a volte provenienti dallo stesso comune, mentre l’iscrizione all’arte riguarda la professione esercitata e quindi “l’appartenenza” è più allargata. Tuttavia, grazie alla forza socioeconomica raggiunta all’interno dell’economia urbana, l’identità viene affermata. Esistono professioni in cui i ticinesi si sono distinti, imposti, e sono riusciti a creare una leadership, una sorta di monopolio. Ad esempio i già menzionati facchini e brentatori delle ticinesi valli ambrosiane, la cui presenza, nella Milano del Settecento, è così importante o meglio ingombrante che induce i facchini lombardi a lamentarsi presso le autorità austriache affinché gli Svizzeri vengano allontanati perché rubano il lavoro ai locali. Un’accusa che oggi è rivolta all’altrui che ha bisogno di lavorare, una necessità che ha condizionato i destini delle valli superiori ancora per tutto il corso dell’Ottocento quando si prospettava il sogno americano. Ma l’America si può fare ovunque, come scrive un padre ad un figlio sfortunato per incoraggiarlo. È vero. Per ogni mestiere c’è ci ha fatto fortuna dai marronai, come i Ciani diventati potenti banchieri, ai grandi impresari dell’edilizia, un mercato spesso controllato dalle maestranze che assumono anche ruoli istituzionali: capitani a Torino, proto a Venezia, architetti camerali a Genova, dove per altro, hanno una specifica iscrizione all’arte. Infatti i mastri provenienti dalla regione dei laghi sono distinti in Svizzeri e Spagnoli, così come a Torino, nella Compagnia di Sant’Anna, in Luganesi e Milanesi, affermazioni identitarie che si traducono nell’organizzazione del lavoro e nella trasmissione delle competenze.
Stefania Bianchi, nata a Mendrisio dove risiede, è docente di storia. Responsabile dell’archivio storico della città dal 1988 al 2018 e ricercatrice presso il LabisAlp (USI) dal 2000 al 2015. I suoi studi considerano gli uomini e il loro agire in un contesto prealpino che ne determina il rapporto con spazio e tempo, nonché i legami socioeconomici e culturali che gli stessi costruiscono nei luoghi natii così come nei luoghi del lavoro. Le terre dei Turconi, Locarno 1999; I cantieri dei Cantoni, Genova 2013; Leontica, Milano, Lugano: alla ricerca di ricchezza e potere, in I Ciani. Mito e realtà, Lugano 2017.