“Unione Europea e sistema neo-ordoliberale” di Luciano Fanti

Prof. Luciano Fanti, Lei è autore del libro Unione Europea e sistema neo-ordoliberale edito da Pisa University Press: quale bilancio si può trarre del processo di costruzione dell’Unione Europea?
Unione Europea e sistema neo-ordoliberale, Luciano FantiPer trarre un bilancio riferito alla UE non si può generalizzare, ma bisogna riferirsi ad uno degli ambiti in cui la UE ha avuto influenza diretta o indiretta, per cui, per esempio, il bilancio nell’ambito geo-politico o in quello culturale può essere del tutto diverso da quello nell’ambito economico. Mi limito qui a quest’ultimo, e in particolare all’aspetto cosiddetto “redistributivo”. L’azione della élite tecnocratica che governa la UE risponde alle esigenze strategiche delle élites capitalistiche, ben rappresentate oggi dal sistema neo-ordoliberale. Dobbiamo partire dal dato che la modalità di gestione tecnocratica del potere secondo la governance aziendale (di cui la UE è un esempio), unita al linguaggio tecnico ed esperto, è la modalità con cui il sistema neo-ordoliberale tende a sostituire il tradizionale goverment liberal-democratico per governare imponendo l’agenda neo-ordoliberale. La governance costituisce l’insieme di pratiche giuridiche, regolative, relazionali che sostanziano quella «dittatura commissaria di mercato» (per parafrasare la nota definizione data da Schmitt) che è, a ben vedere, l’assetto istituzionale della Unione Europea.

In conclusione, mantenendo un’ottica di analisi economica, si può ritenere che il processo di costruzione dell’UE, soprattutto dopo l’affermazione del pensiero neo-ordoliberale e l’eliminazione del liberalismo sia classico che keynesiano, abbia avvantaggiato, attraverso una miriade di fattori e canali, il capitale a dispetto del lavoro e accresciuto le disuguaglianze sociali in senso lato.

A quale visione si ispirano le scelte politiche, giuridiche ed economiche dell’Unione?
Nel libro si cerca di mostrare in modo convincente come la fonte di ispirazione sia della scelta di costruire l’Unione che delle modalità della sua costruzione si trovi nel pensiero neo-ordoliberale. Anzi, potremmo dire che, nonostante tale pensiero sia oggi pervasivamente dominante in tutto il mondo occidentale, nell’Unione abbia trovato forse il suo più ingegnoso modello paradigmatico di governo. Ber dirla in breve, il pensiero neo-ordoliberale unisce insieme due filoni teorici apparentemente indipendenti, quali l’ordoliberalismo tedesco – in cui sono riscontrabili matrici religiose protestanti ma anche cattoliche e una visione di “ordine” naturale con le sue gerarchie a cui anche la società deve conformarsi – e il neoliberalismo personificato dalla Scuola di Chicago, che fa dell’individualismo metodologico e del calcolo economico (l’homo economicus) il solo metodo che deve improntare ogni ambito, anche il più privato, della vita dell’uomo. L’unione di questi due filoni (che in alcuni aspetti teorici sembrerebbero anche dissonanti) avviene piuttosto armoniosamente soprattutto nella comune agenda politica e nelle prassi di governo che ispira, in cui l’elemento ossessivamente prevalente è il depotenziamento della politica (che deve essere imbrigliata da regole costituzionali improntate alla logica economica) e l’eliminazione dei germi del conflitto di classe. Non a caso il neo-ordoliberalismo inizia con un congresso che, nel fatidico 1938, riunisce teorici di entrambe le sponde col proposito esplicito di trovare una via per salvare il capitalismo in crisi e si organizza nel dopoguerra con un intento di influenza persino più “politica” che teorica. Dove il neo-ordoliberalismo arriva per la prima volta ad improntare un governo politico con la sua agenda teorica è nella Germania della ricostruzione, con la cosiddetta “economia sociale di mercato”; successivamente, permea coi suoi principi il governo dell’Unione Europea.

Quali influenze ha esercitato il neo-ordoliberalismo nella costruzione dell’attuale Unione Europea?
Per meglio comprendere il senso di una istituzione esistente è utile uno scavo genealogico. In fondo, quali siano origini e finalità dell’Unione appaiono già in due lavori di Keynes nel fatidico 1933 e di Hayek (uno dei padri del neo-ordoliberalismo) – quindi proprio i due pensatori che sono considerati i massimi rappresentanti di due contrapposte visioni del liberalismo economico – nell’altrettanto fatidico 1939, che sono analizzati in un capitolo del libro perché li ritengo davvero paradigmatici. Il primo critica la “internazionalizzazione” dell’economia per una serie di motivi che apparirebbero ad un odierno “europeista” quasi sconvolgenti: i) perché sarebbe più tendente allo scoppio delle guerre, ii) perché riduce il potenziale benessere economico dello Stato nazionale, in quanto lasciare cir­colare liberamente capitali e merci impedisce di ridurre “inter­namente” il tasso di interesse (e di profitto), ovvero di ridurre il guadagno di capitalisti e finanzieri, nella misura che sarebbe necessaria per ottenere un benessere sociale maggiore; iii) perché il perseguimento pregiudiziale e fanatico del profitto e della concorrenza conduce a spargimenti di sangue e a distruzioni delle tradizioni, come accadde – ricorda Keynes (un riferimento potrebbe essere già alla campagna intra­presa dalla scienza economica liberista dei fisiocratici e di Turgot prima della Rivoluzione francese) – quando è stato «concepito il dovere amorale di rovinare gli aratri della terra e distruggere le secolari tradizioni umane legate all’al­levamento per ottenere una pagnotta di pane a un qualche decimo di centesimo (penny) in meno»; iv) perché il vero internazionalismo non significa affatto la libera circolazione dei capitali e delle mas­se di diseredati che offrono forza-lavoro a buon mercato, bensì dovrebbe significare la diffusione di «idee, conoscenza, arte, ospitalità, viaggi: queste sono le cose che dovrebbero essere per loro natura internazionali»; v) perché ridurre il principio politico al principio economico del profitto, diventa un pericolo – sia per il benessere del paese sia per il suo livello di civiltà – come accadrebbe se «il ministro del Tesoro si comportasse come il presidente di una so­cietà per azioni» (immaginiamoci quel pericolo oggi che il ministro del Tesoro nemmeno esiste più ed è sostituito dalla élite dei banchieri della BCE!). Hayek invece illustra chiaramente come si dovrebbero eliminare gli Stati nazionali sovrani e sostituirli con una federazione inter-statale in cui vi siano la moneta unica e la banca centrale unica, che assicurerebbero il controllo monetario, creditizio e dei prezzi, la stabilità dei prezzi come obiettivo primario, e la libera circolazione di tutto ciò che è mercificabile ed una conseguente limitazione per i singoli Stati di fare politiche economiche, come, per esempio, fare una qualsiasi politica industriale. Insomma, in Hayek appare già nel 1939 una prefigurazione della UE. E Hayek illustra anche il perché si dovrebbe fare la federazione ed eliminare gli Stati nazionali con esempi estremamente illuminanti: «an­che una legislazione come la restrizione del lavoro minorile o dell’orario di lavoro diventa difficile da attuare per il singolo Stato» oppure si eviterebbe «ogni tipo di tassazione perché spingerebbe il capitale…altrove» oppure ancora si avrebbe l’eliminazione degli ideali della giustizia “distributiva” perché, dice Hayek, «chi potrebbe immaginarsi che esista qualche comune ideale di giustizia distributiva tale da indurre il pescatore norvegese a rinun­ciare alla prospettiva di un miglioramento economico per aiutare il suo compagno portoghese?». Insomma, i motivi di salvezza del capitalismo che spingono a fare una struttura come la UE risultano, nelle parole di Hayek, estremamente chiari. E altrettanto chiari risultano le ragioni di Keynes per essere contrari a una tale struttura. In conclusione, se Hayek ha vinto, tuttavia si può ritenere che il controllo dei movimenti dei capitali, il controllo della mobi­lità di masse di forza-lavoro, un nuovo sistema di cambi nazionali e un recupero della sovranità monetaria nazionale siano un mini­mo comun denominatore del pensiero keynesiano da tenersi ben in conto anche in futuro per chiunque auspichi il recupero della democrazia insieme alla rinascita della politica.

Un altro aspetto, che vorrei sottolineare, del modo in cui il neo-ordoliberalismo influenza le scelte della UE – e che si è manifestato particolarmente dopo la crisi del 2008 – è anche la intrinseca flessibilità della gestione delle economia da parte della UE e delle agenzie sovranazionali, che coniuga magistralmente la rigidità delle regole che debbono vincolare la politica per sottrarla alla discrezionalità tipica della democrazia – cioè il centro del pensiero ordoliberale tedesco – con lo stravolgimento delle regole in nome della “eccezionalità” del momento. Ne è un tipico esempio la gestione della crisi dell’Eurozona, in cui da un lato il “mercato” crea la crisi facendo quello che è nella sua natura di fare (cioè la speculazione, il contagio, l’estrema variabilità dei prezzi), da un altro si interviene apparentemente contro il mercato (il famoso “whatever it takes” di Draghi); ma questo intervento per ottenere la salvezza dalla crisi del capitalismo finanziario viene attivato purché implichi scelte politiche obbligate agli Stati nazionali che vi debbono sottostare (Fiscal compact, MES, eccetera, e vedi i casi emblematici di Italia e, soprattutto, Grecia). Va osservato come la deliberata decisione politica – quindi niente affatto “automatica” bensì altamente discrezionale – da parte della leadership della BCE di fronte alla crisi del capitalismo finanziario mondiale del 2008 sia stata il dominus della successiva storia politica ed economica dei popoli Europei. Sono state mostrate convincenti evidenze empiriche che hanno indicato come i leader della BCE non solo hanno minacciato di far scatenare il panico nel mercato obbligazionario se le loro politiche preferite non fossero state adottate, ma hanno anche messo in atto questa minaccia. Tutti ricordano che nell’estate del 2011, la Spagna e l’Italia avevano iniziato a registrare picchi nei tassi di interesse, e il 5 agosto Trichet e Draghi hanno inviato lettere ai governi italiano e spagnolo descrivendo ciò che era necessario per “ripristinare la fiducia degli investitori”. Era implicito che l’obbedienza pronta e totale ai “consigli” contenuti nelle lettere sarebbe stata condizione preliminare per l’intervento sul mercato obbligazionario da parte della BCE. Dall’analisi empirica dei modelli dei suoi acquisti di obbligazioni pare supportata l’ipotesi che l’intervento sia stato modulato proprio in chiave “politica” fino, per esempio, alla sostituzione del governo Berlusconi. E quali sono state queste scelte politiche obbligatoriamente “consigliate” dalla UE (e altre agenzie sovranazionali)? Per esempio quelle lettere – del tutto “anomale” rispetto alla tradizione liberal-democratica – richiedevano sostanzialmente maggiore austerità – come minori spese pubbliche nei settori sociali (quali le pensioni dei lavoratori) e costituzionalizzazione del pareggio di bilancio – e riforme del mercato del lavoro che limitassero i diritti collettivi e individuali del lavoro. Detto in altro modo, la UE ha approfittato di circostanze emergenziali e della sua capacità (tramite la BCE) di arginare il panico finanziario per promuovere un’agenda neo-ordoliberale.

Quali sono i fondamenti teorici del dibattito fra europeismo ed euroscetticismo?
Il significato da attribuire alla politica e alla sovranità è centrale (anche se non è il solo) nel dibattito fra europeismo ed euroscetticismo. Innanzitutto rileviamo come politica e sovranità non sono affatto morte, se non per un certo tipo di propaganda. Le soggettività politiche, aldilà delle propagande sulla fine della sovranità e la vittoria dei diritti, sono attualmente presenti in forma di Stati, di Imperi e anche di organizzazioni capitalistico-finanziarie mondiali in accordo o in tensione con Stati e Imperi, ma sicuramente non esistono in forma di aggregazioni che si basano sui diritti umani universali e sulla negazione della politica, come appare essere l’Unione Europea, che, quindi, come tale, non conta nella dinamica storica mondiale. Questi soggetti politici internazionali sono irriducibili fra loro e il concetto di umanità non ha alcun significato politico ed è quindi irrealistico pensarlo come base di governo (come del tutto irrealistico sarebbe uno Stato mondiale): o è Stato e allora deve essere ‘politico’ oppure nega la politica in nome della universalità umanista e allora non sarebbe Stato. Quanto allo Stato nazionale possiamo solo dire con buona certezza che, come sostengono molti commentatori, esista senza dubbio un nesso fra democrazia e Stato-nazione e che la democrazia, almeno così come ce lo hanno consegnata gli ultimi secoli (e che a parole è sostenuta da tutti gli europeisti), non può che avere come “contesto privilegiato e a tutt’oggi insostituito” lo Stato nazionale. Voglio essere magari iperbolico, ma ritengo che chiunque si metta a studiare l’architettura istituzionale europea non può che essere stupito del fervore ideologico e del deficit democratico persistente che la permeano; tali elementi appaiono, in molti ambiti, in una misura non minore che in stati che gli occidentali demonizzano come autocratici, ideologici e antidemocratici. Ma quello che dello Stato-nazione dovrebbe sicuramente essere ripreso, da chiunque perori il proseguimento del progetto di costruzione europea, è la dimensione politica ovvero il possesso della decisionalità politica. Ma tale decisionalità, per generare fiducia e obbedienza, deve essere ritenuta legittima, e per essere legittima deve essere “costituita” dalla volontà popolare; la “costituzione” europea non può avere la forma di politiche obbligate dall’alto ma di sistema di regole in cui democraticamente decidere in autonomia le politiche. E l’eventuale cittadinanza “europea” non può che mimare quella dello Stato-nazione, cioè essere “politica (l’appartenenza ad una polis e non ad una generica specie umana). Quindi, il ritorno della sovranità deve essere inteso non tanto come una pedissequa (e probabilmente inattuabile) restaurazione degli Stati nazionali a discapito del ruolo e dei poteri dell’attuale Unione Europea ma come segnale sia del fallimento (o della indesiderabilità) del progetto attuale frutto del neo-ordoliberalismo che dell’esigenza di una dimensione politica ovvero di nuova politica. Come dice efficacemente Galli, la sovranità non è solo potere costituito, cioè ordine razionale e legittimo, ma è anche per definizione potere costituente, che può agire contro la sovranità esistente per generarne – la rivoluzione – una nuova. Quindi sovranità e conflitto sono intimamente legati e costituiscono la dinamica della storia politica moderna. Va probabilmente cercata qui la principale ragione dell’avversità persino furente dei neo-ordoliberali nei confronti della sovranità: l’eliminazione della sovranità ridurrebbe nei loro obiettivi anche il conflitto (specialmente di classe). Inoltre la sovranità contiene un imprescindibile elemento territoriale, un confine che include gli appartenenti alla comunità sovrana (per esempio i cittadini di uno Stato) ed esclude quelli che non vi appartengono (coi quali ovviamente possono essere mantenuti rapporti del tutto amichevoli). Questo confine, questa limitatezza è “insopportabile” per il capitale che invece, secondo Marx, presenta i caratteri della “illimitata infinità”. Nasce così anche una lettura, per certi versi eccentrica, delle tendenze guida della Storia moderna (e non solo), che, a partire da pensatori quali Bodin, Hobbes, Hegel e più recentemente Schmitt, vengono individuate nella dicotomia conflittuale fra potenze della terra e del mare, le seconde opposte alle prime per il loro intrinseco sovvertimento di qualsiasi ordine e per il prevalere in esse della predazione piratesca; dicotomia conflittuale che nell’era moderna (in quella antica sono luogo comune quelle fra Atene e Sparta o fra Roma e Cartagine, per non dire della interpretazione biblica e cabalistica del conflitto storico fra mare e terra rappresentato da quello fra i mitici mostri Leviathan e Beehemoth) si declina in altre compenetrate dicotomie quali cattolicesimo/protestanesimo oppure Francia statale basata sul primato politica-burocrazia-centralismo/Inghilterra basata sul primato economico-tecnologico-universal-imperialista. In effetti, appare quasi “profetica” l’individuazione da parte di Hegel – oltre duecento anni orsono – della futura dinamica storica nel conflitto fra Balena anglo-americana e Orso russo. Tutto questo per dire che, se da un lato abbiamo individuato nel pensiero neo-ordoliberale il progetto di una riuscita costruzione sovranazionale europea alfine di neutralizzare i pericoli per l’esistenza del capitalismo che proprio negli Stati democratici europei si erano manifestati (e nei pericoli è compreso, secondo i neo-ordoliberali, persino, e forse principalmente, il liberalismo keynesiano) e nel sostenimento organizzato, più o meno esplicitato, di questo progetto da parte di élites capitalistiche internazionali, nondimeno va anche notato che questo progetto ideologico ed elitario è influenzato anche da forze storiche profonde – un po’ semplicisticamente potremmo chiamarle geo-politiche – che possono sfuggire alla presa dei progetti razionali neo-ordoliberali (un esempio quasi paradossale della possibilità sempre esistente di sfuggire a questa presa sta, come notato da alcuni commentatori, nell’elezione dell’outsider Trump alla Casa Bianca, nel cui team di politica estera iniziale non partecipavano membri né del Bilderberg, né della Commissione Trilaterale, né del Consiglio Atlantico, né di reti comparabili, che erano invece centrali nelle precedenti amministrazioni, sia Repubblicane che Democratiche), e che possono persino ridicolizzare le pretese di pacificazione vantate come motivanti del progetto europeo. In questa chiave di lettura, sicuramente eccentrica ma anche stimolante, verrebbe persino da domandarsi dove, tra i poli dicotomici, possa collocarsi la vocazione dell’Europa continentale, anche volendo intenderla (e ritenendola possibile in futuro) come una possibile forza sovranazionale “politica”, quindi autonoma ed omogenea, ricordando per esempio il fallimento della Spagna cinquecentesca o della Germania novecentesca – entrambe intrinsecamente terranee – a proporsi come potenze del mare.

Infine, fra i vari argomenti teorici su cui si fondano le critiche cosiddette euroscettiche, penso che uno sia più interessante di altri. Non si tratta tanto dell’argomento secondo il quale si costruiva l’Europa nell’assenza di un “demos” europeo o di una comune identità europea. E nemmeno dell’argomento che si è costruito l’Europa solo guidati dalle logiche economiche capitalistiche e dalle imposizioni “legalistiche” che le diffondevano. Peraltro, entrambi validi argomenti di cui si discute ampiamente nel libro. Piuttosto, vorrei qui segnalare l’argomento che riconosce come il processo di costruzione dell’Europa fin dalle sue origini – a dispetto dell’aspirazione ideale a diventare una unità politica – sia caratterizzato dall’assenza di una fondazione politica. E il motivo è che la fondazione politica richiede una entità costituente, ovvero il popolo, il quale invece, a causa delle sue imprevedibili scelte sovrane, è proprio il soggetto di una primigenia avversione da parte delle élites costruttrici dell’Europa. Basti pensare come l’imposizione del potere “sovranazionale” dell’istituzione europea sugli Stati nazionali sia stata derivata non da una decisione costituente e nemmeno da una qualche forma, ancorché minore, di processo deliberativo democratico, ma da un surrettizio diktat giudiziario, quando la Corte europea di giustizia, con due sentenze del 1963 e del 1964, ha, trasformando i trattati fondatori dell’Europa in “carta costituzionale”, stabilito il primato del diritto comunitario rispetto ai diritti nazionali. È inoltre illuminante come i facitori dell’Europa abbiano giocato sul termine “costituzione” politica dell’Europa. Una Costituzione implica un potere costituente, una “auctoritas”, che in termini moderni è il popolo o i suoi rappresentanti. Una Costituzione è legittima solo se si fonda sulla sovranità popolare. Un’assemblea costituente dovrebbe, quindi, essere espressione della sovranità popolare, il cui simulacro in sede europea sarebbe Il Parlamento europeo, che, invece, come sappiamo, non solo non è stato l’istanza da cui partire per parlare di Costituzione, ma che è pateticamente privato sia del potere normativo, sia del potere di controllo. Quando i facitori d’Europa hanno proposto una ventina di anni fa un trattato dal nome Costituzione non solo lo hanno scritto loro – una élite di potenti non legittimata – anzichè una auctoritas legittima come i popoli europei – ma abbiamo assistito al paradosso che quando tale parto è stato presentato al giudizio referendario del popolo in Francia nel 2005 è stato pure sonoramente bocciato dal medesimo (peraltro tale progetto sostanzialmente immutato è stato poi reso operativo nel Trattato di Lisbona del 2007 con il quale l’UE ha effettivamente promulgato la “Costituzione” europea, senza sottoporla nemmeno ai referendum). Inoltre, come è stato osservato da molti, quel progetto sembrava essere intrinsecamente l’opposto di una costituzione espressa da una autorità legittima, in quanto anziché definire i principi, le norme, le regole generali con cui si deve svolgere e garantire il processo politico col quale il popolo sovrano deciderà le politiche di ogni genere (come può scegliere di cambiare quelle decise in precedenza), determinava invece in maniera coercitiva e inalterabile precise scelte politiche. Solo per citarne alcune, il trattato costituzionale imposto dalle élites costruttrici dell’Europa determinava come valore supremo dell’Unione il mercato e la concorrenza, che deve prevalere sui “servizi pubblici di interesse economico generale”, la proibizione di ogni restrizione ai movimenti di capitali e di ogni aiuto pubblico alla cultura (a meno che non sia accertato che tale aiuto non “alteri le condizioni degli scambi e della concorrenza”), la sostituzione del diritto al lavoro con la “libertà di cercare un impiego e di lavorare”, la conferma della indipendenza della BCE. Ancora, in tale progetto si “costituzionalizzava” la cosiddetta Carta dei diritti fondamentali (promulgata a Nizza nel 2000) in cui si permetteva il ricorso da parte di soggetti civili (per esempio imprese) contro le leggi emesse dagli Stati sovrani espressione della volontà popolare, erigendo, a diritto fondamentale di valore “legale” superiore alle leggi statali, per esempio, “la libera circolazione dei servizi, delle merci e dei capitali” (e, come sottolinea un commentatore, nessuno non solo si indigna ma nemmeno si stupisce nel vedere la libera circolazione dei capitali presentata come un “diritto fondamentale”!). E nell’ultimo decennio, come si racconta in uno specifico capitolo del libro, si rende “carta costituzionale” anche la proibizione del deficit di bilancio. Insomma, sembra che questa idea di Costituzione europea anziché mirare – come ogni Costituzione – a garantire che sia il popolo a decidere, piuttosto miri a imporre irreversibili scelte alla volontà popolare. La proibizione “costituzionale” delle scelte politiche autonome in tema di politica fiscale, valutaria, monetaria, commerciale, industriale, culturale, migratoria, lavorativa etc., mira a rendere eterni e senza alternativa i principi del capitalismo nella versione neo-ordoliberale. Ma va notato pure (data anche l’attualità del tema) che tale progetto di trattato “costituzionale” ha determinato in modo irreversibile non solo le scelte politiche sopra delineate, ma persino gli orientamenti “militari” sottraendoli, in contrasto proprio con quello che una costituzione dovrebbe garantire, al giudizio dei cittadini. Infatti, il trattato ha previsto che in tema di politiche di difesa “gli Stati membri partecipanti lavoreranno in stretta cooperazione con la NATO… che resta per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa collettiva e l’istanza della sua messa in opera”, il che, secondo alcuni commentatori, implicava la “costituzionalizzazione” di un ruolo dipendente dell’Europa nei confronti di una NATO largamente dominata da altri attori non-europei.

Per concludere rispetto ai fondamenti del dibattito fra europeisti ed euroscettici, vogliamo sottolineare qui un paradosso: in un mondo in cui la democrazia è – almeno nella propaganda degli europeisti – il valore politico supremo, le élites tecnocratiche che governano l’Europa sono del tutto autosufficienti e autoselezionate (in realtà, volendo approfondire, sono anche in stretta connessione con altre istanze elitarie che disegnano le strategie del capitalismo contemporaneo). Ma questo paradossale quanto eclatante squilibrio tra élite nazionali indebolite – ma democraticamente responsabili – ed élite europee rafforzate – ma democraticamente irresponsabili – non può che porre seri dubbi in chiunque creda nei valori liberali e democratici.

Quali prospettive, a Suo avviso, per l’Unione Europea, nell’attuale contesto geopolitico mondiale?
Se il libro ha condotto una indagine sulle radici neo-ordoliberali della costruzione europea sin dalle sue fondazioni e ha cercato di motivarla come una riuscita blindatura dell’attuale forma di “finanz-capitalismo” (e potrei aggiungere anche “cyber-capitalismo”, come la nota indagine della Zuboff sul “capitalismo della sorveglianza” ha mostrato) almeno nelle forme di de-sovranizzazione, de-politicizzazione e tecnocratizzazione dell’assetto politico europeo, nondimeno è oggi difficile pensare per il futuro il proseguimento dello “statu quo” e di questo assetto. I colpi delle crisi pandemiche e geo-politiche internazionali ne hanno messo in evidenza i limiti e le contraddizioni. Come è nella natura di ogni sistema neo-ordoliberale, le emergenze sono necessarie all’affermazione del suo modo di governo tecnocratico (in cui sia l’insindacabile potere esperto a risolvere i problemi, mentre la politica democratica nella sua autonomia è accusata di crearli invece che risolverli). Non è quindi facile immaginare le risposte dell’establishment della UE a queste emergenze che, secondo molti commentatori, “ridisegneranno” il mondo (e per ora è visibile solo l’ inanità della UE in questo ridisegno). Un esempio di queste modifiche a breve dell’attuale assetto della UE potrebbe riguardare il ruolo che può assumere una politica europea (finora esclusa dai progetti di costruzione della UE) di sicurezza e di difesa comune (con un corrispondente incremento delle spese militari e del ruolo del capitalismo industrial-militare e una riduzione della propagandata identità pacifista e umanitarista dell’Europa), in bilico oggi più che mai fra una autonomizzazione dalla NATO o, al contrario, una sua definitiva dipendenza da essa.

Luciano Fanti è Professore Ordinario di Economia politica presso l’Univer­sità di Pisa. Tra i suoi principali interessi di ricerca la dinamica economica, l’economia della popolazione, la teoria della crescita, la teoria dei giochi e la filosofia economica. Oltre a centinaia di articoli scientifici su riviste internazionali e la cura di volumi su temi economici, ha recentemente pubblicato Sovranità, credito e mercato (con Giuseppe Conti), Pisa University Press, 2020, e Dal Pastorato al Management. La via del ‘governo economico’ degli uomini, Pisa University Press, 2021.

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