
La sempre maggiore diffusione del food delivery si inserisce all’interno di fenomeni sociali più ampi, come la “gamification” delle modalità di consumo e le dinamiche descritte dalle teorie del “capitale umano” e della “società della prestazione”: come sta cambiando – e come è destinato a cambiare – il mondo del lavoro?
La domanda è difficile, ma ad ogni rivoluzione industriale e quella digitale non fa eccezione viene agitato lo spettro della fine del lavoro, ma come ben spiegato da Antonio Casilli nel suo Schiavi del click. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo?, la fine del lavoro non è di là da venire ma minacciarne la sua imminente scomparsa “è il bastone che disciplina la forza-lavoro; ed eventualmente la carota che attira gli investitori”. Il lavoro, soprattutto nel capitalismo di piattaforma, ha cambiato sembianze e, nel caso specifico del lavoro digitale, è spesso invisibilizzato, anche grazie alla cosiddetta “gamification”, che come tento di spiegare nel libro, non riguarda solo le modalità di consumo, ma anche quelle lavorative, che nel caso del lavoro dei rider, oltre all’utilizzo dell’app in cui il lavoratore percepisce se stesso come un avatar che si muove su una mappa come se la consegna di un pasto equivalesse a portare a termine una missione in un videogioco, la ludicizzazione delle pratiche lavorative passa anche per l’ottenimento di bonus e premi (spesso la sostituzione del kit di lavoro, dunque la sicurezza come premio) al raggiungimento di un certo ammontare di consegne, o l’utilizzo di alcuni vocaboli come le “ore diamante”, nel caso di Glovo, che indicano le ore maggiormente produttive e remunerative. Il tutto va poi inserito all’interno della più ampia cornice fornita dalle teorie del “capitale umano” e della “società della prestazione”, di cui le aziende di food delivery si nutrono e delle quali si può trovare traccia semplicemente consultando le loro pagine di reclutamento, dall’enfasi posta sul lavoratore come imprenditore di se stesso fino alla presunta libertà di lavorare quando si vuole, seguita dall’accalorato suggerimento di approfittare delle ore di punta del weekend o delle festività, invitando i propri lavoratori ad ottenere il massimo dalle proprie prestazioni lavorative.
In quali forme è organizzato il lavoro mediato da piattaforma?
Il lavoro mediato da piattaforma è un lavoro che comprende svariate forme e mansioni soprattutto perché esistono diverse tipologie di piattaforma che forniscono servizi molto diversi tra loro, ma sia per la definizione che per le tipologie di piattaforma rimando ancora una volta a Casilli e a Nick Srincek con il suo Capitalismo digitale. Google, Facebook, Amazon e la nuova economia del web. Tuttavia, occorre sapere che esistono tre grandi famiglie di lavoro digitale: il lavoro digitale on demand, di cui fanno parte il lavoro dei rider, il microlavoro, che è quello di cui si occupa più diffusamente Casilli nel suo libro e che comprende tutte quelle micromansioni come il riconoscimento, ad esempio, di un semaforo all’interno di una serie di immagini (mansioni che compiamo anche noi con i famosi RECAPTCHA) e che servono ad allenare l’intelligenza artificiale, e infine il lavoro sociale in rete, che è quello che facciamo, spesso inconsapevolmente, come utenti degli svariati servizi online, soprattutto dei social network, e con la cessione di molti dei nostri dati. Io mi sono occupata chiaramente di quello on demand, che a differenza del microlavoro e del lavoro sociale in rete, risulta essere meno invisibilizzato, in quanto oltre alla produzione di dati richiede anche un certo sforzo fisico, che nel caso dei rider si traduce nel trasporto di oggetti, ma si può trattare anche di guidare, come nel caso di servizi come Uber, o nell’accogliere, per piattaforme come Airbnb.
In che modo sui rider si sommano dinamiche che riguardano nuove modalità di lavoro e già consolidate pratiche di precarizzazione?
Il rider non è nient’altro che il caro vecchio “fattorino”, che forse prima ci portava soprattutto la pizza, ora un po’ di tutto, prima lavorava solo per un locale e aveva un datore di lavoro ben riconoscibile, ora lavora tramite app e le maggiori aziende considerano i propri lavoratori autonomi, il mezzo che utilizza il fattorino classico è solitamente fornito dal datore di lavoro, mentre adesso il proprietario del mezzo è il lavoratore stesso. Pertanto, se non siamo troppo ingenui da pensare che le condizioni del fattorino, per così dire, tradizionale siano idilliache, sappiamo infatti che si tratta spesso di lavoratori in nero senza alcun tipo di contratto, le già consolidate pratiche di precarizzazione risultano spiegate. Per quanto riguarda le nuove modalità, invece, possiamo citare innanzitutto l’inquadramento di questi lavoratori come autonomi e la modalità di accesso al lavoro, che pubblicizzata al grido di “lavora quando e come vuoi”, è collegata all’andare online del rider, spesso equivalente a una reperibilità continua.
Come funziona il lavoro del rider?
Il lavoro del rider è regolato dalla rider app che deve essere scaricata sul proprio smartphone, una volta accettata dalla azienda la domanda di reclutamento, che è una procedura piuttosto semplice e veloce. Nella rider app i lavoratori possono prenotare i propri turni, vedere se si liberano consegne da effettuare, vedere i propri pagamenti e chiaramente è il mezzo che li guida all’interno della città in quanto si basa sui percorsi forniti da Google Maps. I rider, inoltre, possono lavorare per più di un’azienda contemporaneamente, senza contraddizione. Nel periodo in cui si è svolta la mia ricerca ho potuto assistere a un cambiamento importante per quanto riguarda Deliveroo, ossia l’eliminazione delle tanto invise “statistiche”. Esse si basavano su due criteri e determinavano l’apertura del calendario settimanale di prenotazione dei turni per ciascun rider. I due criteri erano l’”affidabilità”, che indicava la percentuale di sessioni in cui il rider aveva lavorato, e la “partecipazione durante le sessioni con maggiore richiesta di lavoro”. Sulla base dei punteggi ottenuti venivano stilate dall’algoritmo (il famoso capo nascosto) delle classifiche o statistiche, appunto, che premiavano i lavoratori più produttivi con l’apertura del calendario settimanale in anticipo sugli altri, cosa che permetteva loro di accaparrarsi i turni più remunerativi. In ciò consisteva il ranking dei lavoratori, che venivano ad essere giudicati e conseguentemente premiati o puniti in base alle loro performance. Questo metodo è stato poi sostituito dal free login, accesso libero, abolendo così statistiche e calendari, rimpiazzati da una heatmap, che comunica al lavoratore quali sono le zone con maggiore richiesta di lavoro e a quali orari. Questo nuovo metodo solleva alcune perplessità tra i lavoratori rispetto al ranking, in quanto la raccolta di dati sulle performance avveniva e non ci sono prove che non possano ancora influire sull’attribuzione delle consegne, inoltre questo metodo potrebbe portare alcuni lavoratori che utilizzano questo lavoro come fonte di sostegno, magari di una famiglia, a essere online anche per dieci ore al giorno.
La Sua ricerca verte principalmente su materiale “netnografico” messo a disposizione dalle piattaforme stesse: cosa ne emerge?
Il materiale cosiddetto “netnografico” è stato in realtà utilizzato in prevalenza per la parte riguardante i consumatori, in quanto le interviste sono state riservate ai lavoratori. Tale materiale, che consta anche dei profili social utilizzati dalle aziende per fare pubblicità al proprio servizio, permette di leggere tra le righe le parole chiave della “gamification”(ad esempio Deliveroo aveva allestito a Milano un escape room a tema cibo)oppure nel caso specifico delle pagine di reclutamento dei lavoratori le parole d’ordine del perfetto capitalista umano, o, come è stato detto da Aloisi e Di Stefano nel loro Il tuo capo è un algoritmo, di rintracciare la “lingua disonesta” della gig economy, la cosiddetta economia dei lavoretti, che attraverso artifici linguistici mira a occultare il rapporto di lavoro, quindi non si lavora “per” la piattaforma, ma “con” la piattaforma, non si viene assunti, ma si “sale a bordo”, non si inizia un turno, ma si “va online”, e così via.
Quali sono le problematiche specifiche del lavoro del rider e quali tentativi di organizzazione sindacale stanno emergendo in seno ai lavoratori?
I primi tentativi di organizzazione risalgono al 2016 e i primi scioperi hanno avuto luogo a Torino contro Foodora, una delle prime aziende ad approdare in Italia e anche tra le prime ad andarsene. Le altre città simbolo della nascita di veri e propri collettivi metropolitani (i cosiddetti union) sono poi Milano, in cui forte come a Torino si avvertono le rivendicazioni della parte migrante di questa flotta di lavoratori, e Bologna, in cui vi è stato il tentativo di collaborare con le istituzioni comunali con la stesura di una carta dei diritti dei lavoratori della gig economy, che tra mille difficoltà tenta di garantire dei diritti minimi, spesso però sottoscritti solo dalle aziende locali, che si trovano così a dover competere ad armi impari con le multinazionali del settore. Per quanto riguarda il periodo in cui io ho svolto la mia ricerca (avvenuta in una città del centro Italia), ho potuto assistere alle reazioni e alla partecipazione di alcuni membri del campione che ho intervistato allo sciopero nazionale avvenuto il 30 ottobre 2020, in seguito alla firma di un contratto collettivo con Ugl, ritenuto illegittimo dai rider autorganizzati in quanto firmato con un sindacato poco rappresentativo e poichè il testo del contratto continuava a non riconoscere la natura subordinata del lavoro prestato dai rider, principale causa del mancato riconoscimento della maggior parte dei diritti dei lavoratori, tra cui una paga oraria garantita (al posto del pagamento a consegna o a cottimo) e la sicurezza sul lavoro. Ho, inoltre, potuto assistere alla gestione dell’emergenza Covid, che, in perfetta soluzione di continuità con il mancato riconoscimento dei diritti più basilari, è stata carente e più volte denunciata a gran voce dai maggiori collettivi metropolitani, che richiedevano almeno il reperimento dei dispositivi di sicurezza per poter lavorare, dato che il servizio di food delivery era stato definito dal governo stesso un “servizio essenziale” e i rider incensati a mezzo stampa come “eroi”.
Valentina De Nevi, laureata in Metodologie filosofiche presso l’Università degli Studi di Genova, si è occupata di diritti dei lavoratori all’interno del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”