
Da cosa origina il Male?
Religioni e filosofie e prima ancora miti e fiabe hanno da sempre cercato di rispondere a questa domanda: Unde Malum? Da cosa si origina il Male? Nel libro ho preso spunto non da filosofie o teologie ma da una semplice fiaba. Sono sempre stato convinto che le fiabe e i miti siano narrazioni che contengono profonde verità. Ritengo valida l’intuizione di Freud secondo cui la mitologia, in senso lato, sia una sorta di “psicologia proiettiva”: queste narrazioni cercherebbero cioè di dare forma a dinamiche universali e che riguarderebbero il nostro diventare umani e gli impedimenti che ostacolerebbero questo processo verso la pienezza della vita – verso la felicità – che ci accomuna tutti. Ebbene, in una semplice fiaba africana, Kirikù e la strega Karabà, ho trovato la risposta a questa domanda, raccontata con un linguaggio semplicissimo e comprensibilissimo da tutti. Il piccolo Kirikù, archetipo dell’eroe, appena nato pone alla mamma la fatidica domanda: “Mamma, perché Karabà è cattiva?”. Karabà è la strega all’origine di tutti i mali che colpiscono il villaggio. È la domanda che anche lei mi ha fatto: Da cosa origina il Male? La mamma, naturalmente, non sa rispondere ma rimanda il piccolo Kirikù al vecchio nonno, che vive dall’altra parte della montagna: lui sa. Kirikù intraprende così il suo viaggio e arrivato dall’antenato mitico pone la stessa domanda. La risposta del nonno è di una disarmante semplicità: “Karabà è cattiva perché le hanno fatto del male”. Una spina avvelenata le è stata infatti conficcata nella schiena (è inconscia – diremmo noi) e questa rende Karabà malvagia. Naturalmente il piccolo eroe riesce a liberare Karabà dalla spina e questo la trasforma immediatamente in una fanciulla buona e libera di amare. Lo stesso tema lo ritroviamo, ad esempio, nella drammatica confessione di Raskolnikov, il protagonista di Delitto e Castigo di Dostoevskij, alla piccola Sonja. Alla confessione dell’assassino Sonja reagisce gettandosi a terra, abbracciando l’assassino reo confesso alle ginocchia e dicendo, tra le lacrime, “Non ho mai visto nessuno più infelice di te!”. Vede cioè la sua ‘spina’ nella schiena. Quanto basta per motivare lo spietato assassino ad un processo di espiazione e di redenzione. Questa è anche la tesi del libro: come ho detto sopra, la distruttività umana è reattiva, non originaria o innata, ma la conseguenza di qualcosa che ci è stato fatto.
In che modo, nell’ultimo secolo, gli abissi del Male hanno sfiorato la catastrofe senza ritorno e per quali ragioni la soglia del baratro è tutt’altro che lontana?
Il libro ripercorre sinteticamente l’avventura umana su questo Pianeta, da Caino e Abele fino ad oggi. Ma si sofferma un poco di più – sebbene in modo altrettanto sintetico – sul cosiddetto “secolo breve”, con gli oltre 180 milioni di morti, se sommiamo alle due guerre europee anche altri conflitti come la guerra Americana nel Pacifico (con Hiroshima e Nagasaki) e gli “autogenocidi” dell’Unione Sovietica sotto Stalin, della Cina sotto Mao, della Cambogia sotto Pol Pot. Il Documento sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti (del 2001, come reazione all’attacco terroristico alle Torri gemelle) e la guerra nel cuore dell’Europa tra Russia e Ucraina, impensabile fino a qualche mese fa, testimoniano quanto la soglia del baratro sia tutt’altro che lontana. Non solo per il potenziale distruttivo dei nostri armamenti, ma soprattutto per la persistente facilità al contagio psichico che la paranoia (di pochi) può avere su masse enormi di umani. Nel libro ho provato anche a pormi la domanda su chi siano e quante siano le persone potenzialmente esposte al contagio paranoico. Gli esperimenti di Milgram negli anni ’60 del secolo scorso e poi ripetuti più volte in diverse Università del mondo, conferma un pregiudizio ottimistico molto diffuso e particolarmente pericoloso. L’uomo medio crede cioè di possedere un senso della giustizia che gli impedirà sostanzialmente di fare del male; è poi convinto che anche il suo simile medio abbia una coscienza morale e che questa ne guidi le azioni. Questo studio, più volte ripetuto, ha smentito clamorosamente questo pregiudizio: in primo luogo, noi cittadini ordinari siamo molto più disponibili di quanto crediamo a obbedire a ordini violenti, anche se li pensiamo ingiusti; in secondo luogo, crediamo che il comune sentimento di giustizia sia una prevenzione sufficiente per impedirci di obbedire a un’autorità violenta. Ma non è così. Questi studi ci forniscono anche una percentuale: sono circa l’80% gli individui vittime di questo pregiudizio. In sostanza, solo una minoranza, non superiore al 20% della popolazione, sembra possedere ‘anticorpi’ sufficienti per non essere contagiata da quel conformismo che ho definito paranoico. Ho chiamato questi individui – prendendo a prestito il titolo di un libro di Massimo Recalcati – “uomini senza inconscio” cioè individui deprivati (da ‘ambienti’ non sufficientemente buoni) della possibilità di avere un contatto vitale e critico con il proprio mondo emotivo interno. Un mondo che viene in questo modo scisso ed evacuato. È così che nascono la disponibilità acritica al contagio paranoico e la creazione di capri espiatori.
Quali risposte possiamo opporre al Male?
Le risposte che possiamo opporre al Male sono la diretta conseguenza di quelle che sono le sue radici. Anzitutto l’educazione cioè, in generale, un nuovo modo di accogliere e di educare i bambini e i giovani. Dobbiamo (ri)partire dai bambini; è questa la vera rivoluzione che ci attende. I nostri ‘cuccioli’ sono di una estrema fragilità e vulnerabilità. Hanno bisogno di adulti che siano in grado di sintonizzarsi empaticamente sui loro bisogni e di rispondervi con generosa e amorevole disponibilità. Questo fin dagli inizi, fin da quando un bambino inizia a formarsi nel grembo di una mamma. Ma è una “cura” che deve prolungarsi anche per tutto il periodo – sempre più lungo, perché sempre più complesso è il mondo in cui viviamo – della formazione, quindi almeno fino al termine della cosiddetta adolescenza. In secondo luogo, la terapia, che intendo come un aiuto a prenderci cura del bambino che anche noi adulti siamo. Il processo di maturazione psicologica, di umanizzazione o di individuazione per dirla con Jung, comporta il passaggio a quella che Melanie Klein aveva chiamato “posizione depressiva”. Ciò significa superare il funzionamento arcaico schizo-paranoide della nostra psiche e dunque compiere un lavoro di ritiro delle proiezioni, di superamento della logica del capro espiatorio, di riconoscimento in sé di ciò che si teme e si combatte fuori di sé. La vera Jihad – per prendere a prestito un concetto caro alla tradizione islamica – non è la “guerra santa” verso un qualche nemico esterno, ma lo “sforzo santo” per unificare e semplificare la nostra vita, per diventare finalmente pienamente umani. L’anello di congiunzione (il famoso missing link) tra la scimmia e l’uomo – diceva con una battuta Konrad Lorenz – siamo noi. Non siamo cioè ancora pienamente umani. E proprio le guerre e più in generale la distruttività che ancora agiamo verso noi stessi e nei confronti dello stesso ambiente che ci ospita e ci consente di vivere, ne è la prova più eloquente. Naturalmente, le due risposte si integrano e implicano a vicenda: possiamo partire dai bambini, con una educazione alla libertà, solo se ci sono adulti liberati dai propri fantasmi, riconciliati con la propria storia e con le proprie ferite… Non c’è l’uovo senza la gallina; ma la gallina nasce da un uovo. Saremo capaci di una tale rivoluzione? O è solo l’ennesima utopia? Il punto è che non abbiamo più un tempo infinito a disposizione, e ne va della nostra stessa sopravvivenza come specie.
Come è possibile medicare e trasfigurare l’eredità della nostra infanzia?
Per capire quanto sia importante medicare e trasfigurare l’eredità della nostra infanzia dobbiamo riflettere sulla cosiddetta neotenia, cioè sul fatto che i cuccioli della nostra specie nascano prematuri. Da quando il cervello dei nostri antenati (e la scatola cranica) si è sviluppato in modo considerevole, in conseguenza della liberazione delle mani dovuta al guadagno della postura eretta, il parto è diventato in un certo senso “prematuro”: il cucciolo ha la necessità vitale di un accudimento attento e rigoroso altrimenti non sopravvive. Ci vogliono almeno due anni ancora affinché una ‘nascita’ come individui autonomi rispetto alla simbiosi con la madre possa realizzarsi. In questo arco di tempo il bambino (che non esiste ancora come entità a sé, indipendentemente dalla ‘madre’ che di lui si prende cura) ha una assoluta necessità di un ‘ambiente’ in grado di sintonizzarsi sui suoi bisogni e rispondervi prontamente. Non dimentichiamo che la frustrazione del bisogno provoca solo angoscia, agonie primitive, come le ha chiamate Winnicott, assolutamente insostenibili per un Io ancora in formazione ed estremamente fragile. La frustrazione di un bisogno è in questo senso ben altra cosa rispetto alla frustrazione del desiderio che può invece essere di stimolo a crescere aiutando a fare i conti col principio di realtà e favorendo lo sviluppo di una capacità simbolica. Ma il desiderio presuppone, appunto, un Io già formato, un Io coeso che invece non c’è ancora quando ci troviamo di fronte al bisogno primario di accudimento. Se un tale bisogno non viene intercettato e corrisposto la mente primitiva funziona secondo una modalità schizo-paranoide, cioè attraverso scissioni ed evacuazioni/proiezioni; il bambino non possiede ancora apparati psichici per metabolizzare e ‘digerire’ emozioni e affetti eccessivi, che dunque non sono disponibili ad altro che ad una evacuazione.
Alla cura del cucciolo umano ha provveduto inizialmente l’istinto materno; la femmina dei mammiferi sa cosa fare, milioni di anni di evoluzione l’hanno predisposta a sintonizzarsi naturalmente sul bisogno del cucciolo. Ma con lo sviluppo del cervello nascono la coscienza e la cultura. Quest’ultima ha provato a supplire, inizialmente con successo, all’istinto, attraverso riti di iniziazione e pratiche collettive. Ma nel passaggio dalla Preistoria alla Storia le culture hanno progressivamente perduto la “sapienza” di istinto e tradizioni. Il mito della “Strage degli Innocenti” è diventato così un marchio del nostro tempo: qui si racconta di una strage, appunto, di bambini innocenti. Proprio dai due anni in giù. È quello che perlopiù succede: chi si ‘salva’ sono davvero pochi… un misero 20%? L’infanzia è una stagione della vita insuperabile. Nasciamo come il Poema scritto da altri, è il nostro destino, il nostro karma dover rispondere alle aspettative e ai desideri più o meno inconsci dei nostri genitori e della società. La sfida sta nel provare a diventare Poeti, autori del nostro destino. Ma sapendo che “volere non è potere”: la nostra libertà è limitata comunque nel riuscire a fare qualcosa di quel che altri hanno fatto di noi. E spesso questo diviene possibile solo dentro una relazione che ci faccia sentire riconosciuti, rispecchiati, amati.
Quale importanza riveste, a tal fine, un’educazione alla libertà?
Nel libro ho raccontato l’infanzia di Stalin, di Hitler e di altri gerarchi nazisti per evidenziare quanto l’educazione possa essere una risposta essenziale al Male. E, in positivo, ho presentato uno tra gli esperimenti educativi più innovativi e rivoluzionari che mai siano stati tentati: la scuola di Summerhill, in Inghilterra, fondata e animata da Alexander Neill, con l’aiuto della moglie e di tanti collaboratori. Neill fu un coraggioso “apripista” disposto a compiere uno di quelli che Gandhi definì “esperimenti con la verità”. Fu un innovatore come, prima di lui, lo furono Giovanni Bosco, Maria Montessori, Lorenzo Milani… solo per rimanere in ambito italiano. Nella Prefazione al testo in cui racconta il suo “esperimento” Erich Fromm definisce Summerhill un’esperienza educativa “che non ha bisogno di ricorrere alla paura”, perché nell’educazione “la libertà (e non l’autorità) funziona”. L’esperimento era partito ospitando ragazzi difficili, sebbene in realtà – come ripeteva spesso Neill – “non ci sono ragazzi difficili, ma solo adulti difficili”; genitori o maestri che pretendono di modellarli a modo loro, con le mille ipocrisie su cui è costruita la nostra vita personale e sociale. Neill non insegnava, non interferiva, era sempre dalla parte dei suoi piccoli o più grandicelli ospiti, li rispettava sempre. L’educazione per Neill era un processo di progressiva liberazione, ma, sottolineava: “Freedom, not license”: libertà non significa fare e lasciar fare quello che si vuole. Mi piace concludere questa intervista proprio con le parole che Alexander Neill scrisse nella Prefazione al suo testo: “Ho cercato invano di capire perché la specie umana produca tanto male. Eppure sono convinto che il male non è innato […] Sono certo che un bambino difficile è quasi sempre reso tale da un’errata educazione familiare […]. Il bambino difficile è un bambino infelice; è in guerra con se stesso e, di conseguenza, con il mondo”. Se i bambini crescono in un ambiente felice, se vengono educati alla libertà, nella libertà, non covano dentro di loro alcun motivo per agire odio e violenza, non sono costretti a divenire distruttivi verso se stessi, verso gli altri o verso entrambi. L’esperienza di Summerhill mi sembra abbia mostrato eloquentemente la profonda verità di queste semplici ma rivoluzionarie intuizioni.
Massimo Diana è laureato in Filosofia, Teologia e Scienze dell’educazione. Insegna nella Scuola Secondaria Superiore e lavora privatamente come analista biografico a orientamento filosofico. È docente a Mitobiografica (Philo-Milano) ed è autore di diversi saggi sull’importanza di un incontro fecondo tra religioni, spiritualità, psicologie del profondo e filosofie. Tra le sue ultime pubblicazioni: Breviario Universale (quattro Volumi), Viator, Milano 2019; Se non diventerete come i bambini… Meditazioni analitiche e spirituali, Armando, Roma 2020; Le competenze relazionali nell’educazione, Elledici, Torino 2021.