
Come la storiografia, ha ormai acquisito da tempo, le reti dei cattolici privilegiavano la «Resistenza passiva» e ovviamente le tante forme assunte dall’assistenza, in collaborazione con le istituzioni ecclesiastiche. Non mancarono espressioni di Resistenza non armata che oggi siamo soliti classificare all’interno della categoria della «Resistenza civile», su cui hanno insistito Jacques Sémelin e Anna Bravo. La questione del ruolo delle donne, e delle cattoliche in particolare, è stata oggetto negli ultimi anni di studi di avanguardia nel campo delle indagini sul rapporto tra genere, religione e violenza. Infine, a proposito dei preti sono state ormai abbandonate le contrapposizioni tra clero alto e basso investigando, con l’ausilio delle fonti parrocchiali, l’ampia gamma di comportamenti, che spaziarono dal clerico-fascismo e dall’ostilità alla Resistenza alla scelta di diventare “cappellani partigiani”.
Tutte queste dimensioni non sono assenti nel mio libro, in cui ho scelto però di concentrami sulla questione della legittimazione della lotta condotta con le armi: un aspetto decisamente poco investigato dagli studi sul cattolicesimo politico, ancora oggi in difficoltà ad affrontare il tema della violenza agita. Ma che non ha goduto di buona storiografia neppure negli ambienti che si sono mossi sulla scia di Claudio Pavone, non sempre però con la stessa apertura mentale e profondità analitica.
Quali erano motivazioni, profilo e organizzazione della “Resistenza cattolica”?
Ho scelto il Veneto come caso di studio, e più precisamente le diocesi di Padova e Vicenza, allo scopo di circoscrivere il campo d’indagine e andare in profondità nell’analisi, potendo contare non soltanto sull’ampio deposito di fonti conservato presso gli Istituti storici della Resistenza, ma anche su una corposa storiografia locale. Nello stesso tempo, ho cercato di lavorare di scala, allargando continuamente il focus anche su altri contesti geografici e politici: la Lombardia delle Fiamme Verdi; l’Emilia di Ermanno Gorrieri; la Liguria, etc. Meno fruttuoso, devo ammettere, è stato invece il lavoro sulle fonti diocesane, che sono riuscito a studiare solo parzialmente a causa degli ostacoli che mi sono stati posti nell’accesso agli archivi. Spero comunque di essere riuscito ad esporre in maniera sufficientemente documentata le ripercussioni, ma anche la distanza tra le retoriche e le pratiche oggetto del mio studio.
Per quanto riguarda il capitolo delle motivazioni, ho cercato di mostrare come, all’interno di un immaginario per molti aspetti condiviso, i dirigenti del mondo cattolico portarono nella Resistenza parole d’ordine e una visione della lotta specifica: intesa principalmente come guerra di liberazione, quindi patriottica e difensiva, e non come conflitto politico; come espressione di una «rivolta morale» verso il nazifascismo, e solo secondariamente come antifascismo armato. Più precisamente, mi sono interrogato, da una parte, sui retaggi della tradizione del nazionalismo cattolico e dall’altra sul concetto di «antifascismo religioso», cercando di comprenderne la natura, ma anche gli evidenti limiti politici. Vale la pena aggiungere che è difficile anche inquadrare politicamente la galassia dei partigiani cattolici, al cui interno si trovavano filo-azionisti e “badogliani”; sostenitori di una nuova democrazia sociale di stampo cristiano e feroci anticomunisti, nonché difensori dello status quo nel rapporto tra le classi.
Da ultimo, relativamente ai nodi del profilo e dell’organizzazione, è bene tenere presente che militanti cattolici combatterono in tutte le bande partigiane, ma solo una parte decise di strutturare formazioni autonome (non dal Cln, ma dai partiti). Era palese la volontà di distinguersi dai garibaldini, non solo politicamente, ma anche nella rappresentazione e, in maniera più problematica e contraddittoria, nei modi di condurre la lotta.
Quali dispositivi retorici di giustificazione della violenza elaborarono i cattolici?
Il titolo del libro riprende quasi letteralmente le parole di Pavone. A lui dobbiamo la riflessione più lucida sulla militarizzazione bande – un fenomeno che interessò tutte formazioni dopo l’estate del 1944 – come garanzia per le brigate autonome, e per i cattolici in primis, di un «uso non colpevole della armi» in assenza di una legittimazione da parte dello Stato. La questione si lega a dottrina della «guerra giusta», per la quale era necessario che il conflitto fosse combattuto tra eserciti regolari, esclusivamente per motivi difensivi, o comunque per giustificato motivo.
Relativamente all’uso della violenza bellica, la Chiesa raccomandava che fosse sempre moderato e rispettoso di un giusto rapporto tra i mezzi e i fini che si intendeva ottenere. Come è ovvio, questo schema non era replicabile nel contesto della guerra civile. La risposta fu cercata da un lato nell’esercizio di una guerra di liberazione che si diceva rispettosa del criterio di proporzionalità. Dall’altro nella rappresentazione del partigiano cattolico. Questi si sarebbe distinto dal nemico perché mosso dall’amore e secondariamente per la sua capacità di agire “con amore”, cioè contenendo al minimo la violenza. Il tedesco fu descritto in tutta la sua disumanità, opponendo alla sua «violenza» un «forza» sana e virtuosa. Come emerge dal confronto con la stampa garibaldina, furono effettivamente divulgate due visioni quasi antitetiche dell’“odio”, che riflettevano evidentemente concezioni altrettanto opposte della violenza politica. Due visioni, sia chiaro, entrambe violente. Mentre però i comunisti consideravano la violenza come la «levatrice» della storia, i cattolici si sforzarono in ogni modo per sostenere la loro estraneità, quantomeno morale, alla guerra civile.
Un secondo livello di distinzione passava dal confronto con gli altri partigiani, imputati – mutuando qui le categorie di Tzvetan Todorov – di anteporre la loro etica della convinzione (politica) a quella della responsabilità nei confronti delle popolazioni inermi. Nella sostanza l’accusa era falsa e denigratoria. Tuttavia, l’impianto discorsivo non può essere spiegato esclusivamente in chiave anti-comunista. La mia esigenza iniziale è stata dunque decostruire questa rappresentazione sottraendola così all’apologetica e alla polemica politica, dove aveva prosperato nel dopoguerra. L’ipotesi da cui si è sviluppata la ricerca è che già durante la guerra iniziò a prendere forma un immaginario che non può essere derubricato esclusivamente come uno strumento di propaganda, ma che va ritenuto piuttosto il risultato di una stratificazione culturale di lungo periodo; uno strumento performativo e un modo di legittimare, almeno formalmente, la guerra civile occultandone la vera natura.
L’idealtipo del partigiano, secondo i cattolici, non vuole uccidere (fascisti e tedeschi), se non quando necessario; combatte la guerra civile come se non fosse tale, in maniera “incolpevole” nei metodi prima ancora che nelle motivazioni. Nella sua versione più nobile ha mai sparato un colpo; non perché ha optato per la nonviolenza, ma per la sua abilità nell’usarla solo quando necessario, di non farlo quando lo desidera o di farlo quando deve e magari non vuole. Naturalmente, di queste retoriche esistevano tradizioni laiche e secolarizzate che ho potuto riscontrare facilmente nella comparazione tra la stampa degli autonomi e quella militare, in particolare degli Alpini.
Nel dopoguerra le mentalità si trasformarono in narrazioni, i ricordi funebri in martirologi, andando nel loro complesso a costituire una determinata memoria apologetica e sempre più marcatamente anti-comunista. Ma anche a costituire due canoni diversi di eroismo che ho cercato di ricostruire nelle loro profonde diversità di matrice culturale.
Quali falle e incongruenze si manifestarono tuttavia alla prova della guerriglia?
Innanzitutto teniamo presente che la guerra di occupazione fu davvero «totale», civile e contro i civili, secondo quella linea strategica propria del nazifascismo che imponeva una violenza permanente (anche) allo scopo di togliere alla guerriglia il terreno sotto i piedi. Si comprende quindi che era il contesto a dettare le regole in un meccanismo in cui era impossibile calcolare il rapporto tra costi e benefici, soprattutto dal momento che il nesso tra azione e reazione non rispondeva in maniera logica al succedersi delle sanguinose rappresaglie. Inoltre, a imporre le regole del combattere era la geografia, che rendeva impossibile, per esempio, combattere in pianura come si faceva in montagna e quindi spingeva i resistenti a scegliere la guerriglia per sabotaggi e/o quella gappista.
Da tutto ciò si evince facilmente che la tesi per la quale le formazioni cattoliche era le uniche a desiderare una rispettabilità è del tutto campata in aria. Così come, al contrario, non può essere accolta la teoria, altrettanto denigratoria, che i cattolici non intendessero davvero combattere. A suggerire alcune differenze sono invece altri aspetti: le modalità di occupazione del territorio alpino, da cui le difficoltà degli autonomi a fare proprie le regole della “guerriglia elastica”; quelle di reazione alle minacce di rappresaglia nemica e alla loro esecuzione; e, soprattutto l’intensità dello scontro armato. Si può quindi concludere che retoriche e pratiche non coincidevano, e che le prime furono utilizzate spesso e volentieri per mistificare le seconde. Nello stesso tempo, la ricerca sui diari e le lettere di ventenni combattenti che provenivano dall’Azione cattolica mostra quanto determinate mentalità fossero realmente e profondamente condivise. Anche per questo motivo, pur agendo nello stesso territorio, e nonostante la composizione socio-territoriale fosse grosso modo la medesima, le formazioni militari di pianura legate all’area cattolica adottarono una strategia sostanzialmente meno offensiva di quella dei garibaldini. Le differenze sfumano decisamente invece se spostiamo lo sguardo sulla lotta armata nelle zone montane e pedemontane, comunque senza annullarsi del tutto. Bisogna dunque fare attenzione a non cadere in facili generalizzazioni, come spero di essere riuscito a fare in questo mio ultimo libro.
Alessandro Santagata è assegnista di ricerca all’Università di Padova. Si occupa di storia politica e culturale del cattolicesimo. È autore di La contestazione cattolica. Movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68 (Viella, 2016).