“Una terra di martiri. Narrazioni agiografiche e industria culturale nell’Italia contemporanea” di Tommaso Caliò

Prof. Tommaso Caliò, Lei è autore del libro Una terra di martiri. Narrazioni agiografiche e industria culturale nell’Italia contemporanea, edito da Viella: cosa ha rappresentato, e continua a rappresentare, nella cultura italiana, la figura del martire?
Una terra di martiri. Narrazioni agiografiche e industria culturale nell’Italia contemporanea, Tommaso CaliòÈ innanzitutto doverosa una premessa, anche se può risultare ovvia: l’espressione Una terra di martiri che dà il titolo al volume non è un’asserzione, né tantomeno la rivendicazione di un primato italiano in tema di martirio. È piuttosto il richiamo a un dispositivo retorico consolidato, che potremmo chiamare “paradigma martiriale” per analogia con il “paradigma vittimario” di cui parla Giovanni De Luna nel suo La Repubblica del dolore (Feltrinelli 2011). Un dispositivo retorico, questo, che può essere oggetto d’indagine per numerose realtà territoriali anche molto distanti dal punto di vista sociale, culturale e religioso. L’idea di concentrarmi sulla realtà italiana nasce, oltre che da un interesse personale di ricerca, dall’esigenza di decostruire quanto più possibile tale dispositivo, scandagliando in profondità le strutture narrative che lo perpetuano, parcellizzate in mezzi espressivi estremamente variegati e spesso di difficile reperimento. Questo non vuol dire che da questo caso di studio, per quanto ampio, si possano individuare griglie interpretative valide per tutte le situazioni; a mano a mano che la ricerca procedeva emergevano piuttosto le peculiarità del contesto italiano in cui la figura del martire si salda a passaggi cruciali della storia del nostro paese, divenendo un mito che attraversa culture differenti, parte integrante delle diverse idee di nazione che si sono succedute dal Risorgimento ad oggi.

La mia particolare prospettiva di storico del cristianesimo mi ha permesso di analizzare il fenomeno in modo trasversale indagando punti di contatto o di attrito tra la promozione agiografica interna al mondo cattolico e l’affacciarsi sulla scena italiana di religioni civili e politiche che avevano fatto proprio il linguaggio della retorica martiriale. Ne è emerso uno scenario articolato, in cui la Chiesa non si limita ad avere una mera funzione di custode e di serbatoio di strutture narrative a cui attingere di volta in volta per legittimare i processi di costruzione della nazione, ma piuttosto si afferma come presenza attiva in costante dialettica con tali processi, ora osteggiandoli ora appoggiandoli, comunque sempre esercitando su di loro un’influenza determinante.

Quali nuovi connotati assume, a partire dalla metà dell’Ottocento, nella realtà italiana, il fenomeno del martirio?
Dalla metà del XIX secolo il ricorso al paradigma martiriale diviene quanto mai frequente nella scena culturale e politica italiana, divenendo una costante nel dibattito sui destini della nazione. È noto come gli studi di Alberto Mario Banti (a partire da La nazione del Risorgimento, Einaudi 2006) abbiano aperto un fertile filone di studi in cui risulta centrale il tema dello stigma della “santità” attribuito agli eroi del Risorgimento. Anche tra i contemporanei non mancò chi indicò nei “martiri della libertà” i veri eredi dei primi testimoni della fede cristiana, ad esempio Franco Mistrali nel suo Misteri del Vaticano – che trae dall’immaginario agiografico tardoantico le forme narrative per descrivere la moderna lotta contro i tiranni – oppure chi riprese la forma del martirologio per esaltare i “martiri della libertà” come Giuseppe Ricciardi nel Martirologio italiano o Atto Vannucci ne I martiri della libertà italiana. Questa letteratura encomiastica è speculare alla propaganda antirisorgimentale della Chiesa romana, elaborata soprattutto dal laboratorio gesuitico consolidatosi intorno a «La Civiltà Cattolica». Quest’ultima si fonda sull’esaltazione della figura del pontefice Pio IX, “martire” per eccellenza della “modernità” in quanto a un tempo baluardo e vittima dei processi di secolarizzazione; per estensione l’aura del martirio si riversa sui numerosi volontari combattenti accorsi da tutto l’orbe cattolico per entrare nelle file del corpo degli zuavi pontifici e morti in difesa del potere temporale del papa. Il racconto delle loro gesta viene divulgato, ad esempio, da feuilleton pubblicati sulla rivista dei Gesuiti che ebbero una grande fortuna popolare quali l’Olderico o il zuavo pontificio di Antonio Bresciani o I crociati di San Pietro di Giovanni Giuseppe Franco che celebrano rispettivamente i “martiri della Chiesa” delle battaglie di Castelfidardo (1861) e di Mentana (1867), ma anche da una miriade di pubblicazioni minori e da apparati iconografici che intendono sfruttare tutte le modalità messe a disposizione dall’industria culturale del tempo.

Nei due campi avversi si attua un ampliamento dei mezzi di propaganda: il racconto del martirio, nonostante le rimostranze della Chiesa che ne rivendicava il monopolio, era diventato irreversibilmente uno schema narrativo trasversale e “popolare”, veicolato da periodici, romanzi, immagini dipinte e fotografiche, rituali religiosi e laici.

Come si inserisce, in tali dinamiche, la fortuna anche devozionale della figura di Salvo D’Acquisto?
La copertina del volume mi sembra significativa delle modalità con cui la figura del martire è stata inglobata all’interno dell’industria culturale (ma lo stesso può dirsi di alcuni santi “non martiri” a partire dall’iconica figura di padre Pio da Pietrelcina), divenendo parte importante di quel magma narrativo di cui parla Peppino Ortoleva nel suo bel volume dedicato ai Miti a bassa intensità (Einaudi 2019), che pure al tema della santità non fa riferimento. Un brodo mediatico in cui la materia agiografica è affidata ai capricci del mercato, e che in Italia, soprattutto a partire dal secondo Dopoguerra, mi sembra rappresentato al massimo grado dai settimanali illustrati la cui capacità di creare temi e stereotipi narrativi duraturi e persistenti nella cultura dell’Italia repubblicana andrebbe, a mio avviso, ulteriormente approfondita.

L’immagine di copertina riprende, infatti, la locandina di un film dedicato a Salvo D’Acquisto girato nel 1974 da Romolo Guerrieri con protagonista Massimo Ranieri, che è costruita come se fosse una prima pagina della «Domenica del Corriere» sullo stile delle illustrazioni di Achille Beltrame o di Walter Molino con un esplicito (ma forse inconsapevole) rimando a quella “cultura del rotocalco” a cui la figura di Salvo D’Acquisto deve parte della sua fortuna mediatica, ma che non sa distinguere tra il santo e il divo. Proprio la sovrapposizione del volto di Ranieri a quello del carabiniere fu la causa di una accorata protesta al Presidente della Repubblica Giovanni Leone da parte della madre, Ines Marignetti, custode della memoria del “vero” Salvo.

La scelta di questa immagine è dovuta anche al fatto che Salvo D’Acquisto risulta una figura di snodo dei diversi fili che attraversano il volume. In lui confluisce il modello del “santo giovane” forgiato circa un secolo prima da don Bosco e tenuto vivo non solo dai salesiani, ma anche dagli altri protagonisti della pedagogia cattolica tra fine Ottocento e inizi del Novecento prima fra tutti l’Azione Cattolica. È proprio all’interno della Gioventù di Azione Cattolica, come ha dimostrato Francesco Piva nel suo volume Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della gioventù cattolica italiana (1868-1943) (FrancoAngeli 2015), che si attua una pedagogia bellica che troverà la sua consacrazione nelle trincee della Grande Guerra e che ricorda da vicino la coeva pubblicistica apologetica degli organi militari, e dell’Arma dei carabinieri in particolare, cristallizzatasi nello stereotipo del “martire del dovere”. Al contempo nell’Italia repubblicana la figura di Salvo D’Acquisto viene riplasmata a seconda degli ambienti che ne tramandano la memoria, descritto ora come un modello “antipartigiano” (come già notava Alessandro Portelli in L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Donzelli 2001) ora come il protomartire della Resistenza, con continue oscillazioni tra questi due poli.

Quali caratteri assumono le pratiche agiografiche dei partigiani cristiani?
Nella ricostruzione della memoria dei caduti cattolici della Resistenza bisogna distinguere almeno tre fasi: la prima immediatamente successiva ai fatti narrati in cui i martiri cattolici vengono assimilati (seppur con i dovuti distinguo) a tutti i caduti nella lotta partigiana, ponendosi all’interno della retorica resistenziale anch’essa ricalcata sul paradigma martiriale oltre che sulla retorica risorgimentale dei “martiri della libertà italiana” (su questo tema rinvio, tra gli altri, al volume di Gury Schwarz Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della Repubblica Utet 2010); risulta paradigmatico di questa fase il film Roma città aperta di Roberto Rossellini. Con le mutate condizioni politiche a partire dalle elezioni del 18 aprile 1948 la Chiesa, impegnata nella mobilitazione anticomunista, rinuncia a delineare una propria specifica categoria di “santi partigiani”, promuovendo piuttosto “martirologi” che includono tutte le vittime del conflitto, con particolare riguardo ai membri del clero; significativo come la stessa Azione Cattolica, che in un primo momento aveva promosso una raccolta di profili di propri associati caduti nella lotta contro il nazifascismo il cui elenco e le cui storie avrebbero dovuto dar vita a un Albo di gloria, pubblica alla fine il Martirologio del clero italiano (1963), una raccolta di medaglioni biografici di preti che avevano militato nella Resistenza oppure che erano rimasti vittime dei bombardamenti o di aggressioni da parte comunista.

La terza fase coincide con un ampliamento semantico del termine “martire” voluta da Giovanni Paolo II con la canonizzazione di padre Massimiliano Kolbe come “martire della carità” (e non in odium fidei) che rappresenta solo la prima tappa di un processo che ha raggiunto il suo apice con la grande operazione annunciata nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente del 1994 di un recupero della memoria dei martiri del Novecento e la Commemorazione ecumenica dei testimoni della fede del XX secolo celebrata al Colosseo nel maggio del 2000.

In che modo la figura cristiana del martire è stata evocata in relazione al contrasto alla mafia?
La nuova visione della santità martiriale imposta da Giovanni Paolo II, ritrattata da Benedetto XVI e ripresa da Francesco, ha dato la stura anche all’elaborazione in terra di mafia della fattispecie del “martire della giustizia”. Nel corso degli anni Novanta il clero siciliano più esposto nella lotta contro Cosa Nostra ha promosso modelli agiografici da opporre alla religiosità mafiosa, da don Pino Puglisi al magistrato Rosario Livatino, i cui processi di beatificazione sono stati portati a termine sotto il pontificato di papa Francesco. Un processo iniziato per cercare uno specifico cristiano all’impegno contro la mafia, ma che inevitabilmente ha intercettato la contemporanea promozione di martiri civili e la costruzione di una retorica nazionale dell’antimafia promossa soprattutto dalla Associazione Libera con l’istituzione nel 1996 della “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”. L’impegno antimafia è oggi un laboratorio narrativo, dai forti connotati agiografici, di carattere multimediale come dimostra la promozione di figure come don Puglisi o come Falcone e Borsellino all’interno di un articolato sistema comunicativo che va dal fumetto alla fiction televisiva, dal libro illustrato per bambini al romanzo, dal musical al dramma teatrale.

Tommaso Caliò insegna Storia del Cristianesimo all’Università di Roma Tor Vergata. Tra le sue pubblicazioni, La leggenda dell’ebreo assassino. Percorso di un racconto antiebraico dal medioevo a oggi (2007) e la curatela di numerosi volumi tra cui il più recente Santi in posa. L’influsso della fotografia sull’immaginario religioso (2019), tutti editi da Viella.

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