
Quale evoluzione hanno subito, in tale scenario, i bisogni e le risorse di cura?
La rapida e intensa trasformazione demografica in atto, con l’allungamento della speranza di vita e il mutamento delle forme famigliari, ha comportato una progressiva e costante evoluzione sia dei bisogni di cura espressi dalla popolazione anziana sia delle risorse di cura mobilitabili per farvi fronte.
Per quanto riguarda i bisogni di cura, il fenomeno più rilevante è l’aumento della quota degli oldest old, i grandi anziani (persone con più di 85 anni), che hanno contribuito al mutamento del profilo di salute della popolazione anziana: nonostante le condizioni di salute siano, infatti, migliorate rispetto al passato, essere molto anziani significa fare i conti con una salute meno stabile e con patologie croniche e disturbi propri dell’età. In questo senso è mutata la domanda di cura posta al sistema formale di cura (i servizi: gli ospedali, la medicina territoriale…) e a quello informale (la famiglia e le reti comunitarie). L’evoluzione dei bisogni di cura muove principalmente dal mutamento del profilo epidemiologico della popolazione anziana. Il rapido invecchiamento della popolazione ha determinato un aumento di tutte le malattie età-associate (cardiopatie, diabete, bronchite cronica…) nonché la frequenza di alcune patologie e condizioni croniche e degenerative (demenze vascolari, Parkinson…), che impattano nella vita della persona e delle famiglie con importanti limitazioni e disabilità. Oltre a rappresentare le principali cause di morte e di perdita di anni di vita in buona salute, le patologie cronico-degenerative sono spesso presenti contemporaneamente nello stesso individuo.
Per quanto riguarda le risorse di cura, l’aumento della popolazione anziana e il restringimento delle reti informali di cura ha contribuito al mutare delle risorse sulle quali è possibile fare affidamento per l’assistenza, sempre più intensiva, richiesta da una quota significativa di popolazione. In questo senso a mutare sono le risposte offerte, anche qui, risposte di tipo formale (a domicilio o in struttura) e di tipo informale (offerte dai familiari o da assistenti familiari). L’offerta “standard” di servizi per le persone anziane parzialmente o non autosufficienti comprende i servizi domiciliari, i servizi residenziali e semi-residenziali e i trasferimenti monetari. Tuttavia, il basso grado di risposta offerto dai servizi istituzionalizzati (domiciliari o residenziali), da un lato, le trasformazioni che hanno investito la famiglia (l’invecchiamento della popolazione, la nuclearizzazione della famiglia, la crescente partecipazione delle donne nel mercato del lavoro), dall’altro, hanno indotto le famiglie a cercare sul mercato forme di aiuto domestico alternative o sostitutive delle reti informali. Nel corso degli ultimi decenni, il ricorso al mercato privato dell’assistenza, ossia la ricerca di risposte non istituzionalizzate e formalizzate per i bisogni di cura, ha assunto una consistenza importante. Un’assistenza fornita generalmente da singoli operatori a pagamento su richiesta degli anziani (o delle famiglie), spesso senza un formale contratto di lavoro, con una copertura strettamente associata alle condizioni economiche del richiedente. La “zona grigia” lasciata scoperta dai servizi pubblici è quella in cui le famiglie si auto-organizzano per far fronte ai molteplici e complessi bisogni dei componenti anziani e cercano sia servizi professionali a pagamento (es. infermiere o fisioterapista) sia servizi assistenziali (es. assistenti familiari o badanti) che provvedano, per alcune ore al giorno o per le 24 ore, alla cura dell’anziano, in particolare di quello non autosufficiente.
Come è possibile promuovere l’invecchiamento attivo?
L’invecchiamento della popolazione costituisce una sfida comune nel lungo periodo per tutti gli Stati Europei. Tale sfida assume oggi un rilievo particolare dal momento che, nella maggior parte dei paesi europei, le generazioni dei nati nell’epoca del baby boom (i nati tra il 1945 e il 1954 e tra il 1955 e il 1964) stanno raggiungendo l’età pensionabile e che la generazione dei loro genitori, beneficiando dei progressi in ambito sanitario, sono oggi “grandi anziani” (85+). In questo scenario risulta centrale la distinzione tra l’età cronologica, gli anni compiuti, e l’età sociale, così come costruita socialmente in relazione alle aspettative ed ai vincoli istituzionali, costrutto che permette di analizzare qual è la reazione della persona al processo di invecchiamento. Il concetto di “invecchiamento attivo” si collega con l’aspettativa sociale che, col crescere della speranza di vita, le persone anziane possano rimanere più a lungo al mercato del lavoro così come in altre attività, non necessariamente produttive, con l’intenzione di promuovere condizioni di vita attiva il più prolungata possibile. L’invecchiamento attivo risulta in un processo in divenire, che prende forma e si consolida con scelte e comportamenti volti a rafforzare competenze e abilità e a prevenire o rallentare patologie e percorsi di isolamento. Da questo punto di vista, l’anziano non è solo un soggetto debole e bisognoso di cure, ma una vera e propria risorsa per la propria famiglia e la società. Invecchiare in maniera attiva significa invecchiare in buona salute, partecipando pienamente alla vita della comunità e sentendosi realizzati nel lavoro, in altre parole essere più autonomi nel quotidiano e più impegnati nella società. Qualsiasi sia l’età della persona, è possibile ricoprire un ruolo attivo nella società e godere di una buona qualità di vita, con l’obiettivo di trarre vantaggio dal potenziale di cui si dispone nella condizione nella quale ci si trova. Diverse sono le azioni per promuovere l’invecchiamento attivo. Con riferimento all’occupazione si tratta di promuovere l’occupabilità dei lavoratori ultra cinquantacinquenni attraverso iniziative di istruzione e formazione per aggiornare le loro competenze e aiutarli a connetterle con le esigenze in rapida evoluzione del mercato del lavoro. Con riferimento alla partecipazione sociale, si tratta di promuovere e sostenere attività di volontariato per la popolazione senior, di supportare la partecipazione a gruppi, associazioni e, in generale, ai diversi modi in cui è possibile fare rete con altre persone, di prendersi cura di chi si prende cura ossia sostenere i caregiver informali. Con riferimento alla vita indipendente, sana e sicura si tratta di prevenire l’insorgere di condizioni di dipendenza, sviluppare soluzioni tecnologiche a domicilio e migliorare l’accessibilità dei trasporti e delle infrastrutture. Tre, in definitiva, sono le aree di intervento legate alla promozione di un invecchiamento attivo e in salute. L’area della promozione di relazioni, reti sociali, solidarietà e cultura della responsabilità; l’area della prevenzione dell’insorgenza di problemi legati alla non autosufficienza, all’isolamento, all’emarginazione, alla povertà, facendo leva sulle risorse delle persone, delle famiglie e delle comunità locali; l’area del supporto alle persone e alle famiglie che vivono situazioni di difficoltà e/o disagio legate all’isolamento, alla povertà, alla deprivazione culturale, alla malattia, alla disabilità.
Quali forme può assumere il supporto al caregiver informale?
Sostenere le famiglie che prestano assistenza a persone anziane è un aspetto centrale: la rete familiare svolge, infatti, un ruolo centrale nel fornire assistenza, indipendentemente dal fatto che l’anziano sia a casa o in un contesto residenziale. In Italia, l’assistenza informale da parte dei cd. caregiver costituisce uno dei pilastri più importanti delle cure a lungo termine. Il termine caregiver indica la figura di riferimento della persona che si trova in una condizione di necessità e non completa autosufficienza. L’attività di assistenza ad un familiare può essere gratificante quando, prendendosi cura di chi ha bisogno, si percepisce di poter migliorare la qualità di vita di una persona cara. Non di rado, tuttavia, le attività di cura possono provocare esaurimento fisico ed emotivo, l’insorgere di emozioni conflittuali nei riguardi del familiare stesso, importanti modifiche nella vita del caregiver e un considerevole investimento di risorse finanziarie. Il caregiver porta (e, talvolta, sopporta) il peso dell’organizzazione delle cure e dell’assistenza, si fa carico di prendere molte decisioni assumendo la responsabilità dei molteplici e mutevoli bisogni del famigliare. Laddove ci si occupi di familiari con patologie croniche e/o degenerative, tale concentrato di responsabilità può trasformarsi in un ‘fardello’, in un peso (burden) che mette a dura prova il benessere psicofisico del caregiver, soprattutto in assenza di supporto da altre persone o familiari con cui condividere le incombenze di cura. Supportare il sistema familiare richiede una attenta valutazione del sistema e una adeguata analisi di bisogni, aspettative e capacità dei suoi membri, in particolare, della misura del carico assistenziale che ciascun membro può sopportare. In relazione alle caratteristiche del burden, gli interventi per supportare il caregiver dovrebbero essere volti al perseguimento di alcuni obiettivi generali. Il primo consiste nel ridurre la fatica dei caregiver: quella fatica ‘oggettiva’ e ‘fisica’ che si concretizza in un consistente numero di ore ed energie impiegate nella gestione della persona assistita. La riduzione della fatica consentirebbe al caregiver di poter dedicare del tempo alla cura di sé e al recupero delle forze profuse nella cura. Il secondo consiste nell’incrementare le capacità di coping. Alcune competenze e strategie per far fronte alle criticità che l’invecchiamento e la cronicità portano con sé possono essere apprese e perfezionate mediante specifiche attività di formazione ed educazione tra pari svolte con altri caregiver che condividono la situazione stressante (e.g. gruppi di auto-mutuo aiuto). Il terzo obiettivo consiste nel migliorare il benessere psicologico del caregiver. Al di là della gestione quotidiana della persona assistita, il caregiver deve poter curare la propria salute mentale, il proprio ben-essere psichico, attraverso, per esempio, un supporto psicologico individuale o di gruppo ovvero attività di rilassamento. Infine, il quarto obiettivo consiste nel fornire interventi in maniera flessibile e tempestiva, capaci di dare risposte nel momento dell’acuzie. Non di rado, infatti, la famiglia si trova a dover gestire momenti di crisi del familiare (es. stati di profonda angoscia o agitazione di persone con demenza o azioni di tipo violento) o eventi che impediscono al caregiver di svolgere l’attività di cura (es. una malattia, un infortunio). In questi frangenti, un aiuto al momento opportuno potrebbe permettere al sistema di cura di non collassare (portando, ad esempio, alla istituzionalizzazione della persona) e di trovare modalità temporanee per tamponare l’emergenza e riequilibrare il sistema alla luce destabilizzato da un evento critico.
Quale ruolo possono svolgere le politiche e i servizi di Long Term Care?
Quello del LTC è un sistema costituito da un insieme di servizi e di misure di assistenza rivolto a persone che per un periodo prolungato di tempo sperimentano una condizione di dipendenza per lo svolgimento delle attività basilari e/o strumentali della quotidianità. Il sistema LTC si pone come anello di congiunzione fra il sistema sanitario (per il quale il “paziente” è considerato quale soggetto passivo di cura, colui che “patisce”, che “sopporta” il trattamento medico) e quello sociale (dove la persona è “utente” del servizio di cura, colui che “usufruisce” di una prestazione): entro questo crocevia, le pratiche di LTC dovrebbero essere improntate al riconoscimento della centralità attiva della persona, della sua indipendenza, autonomia, partecipazione, autorealizzazione. Tra gli elementi centrali nel sistema di LTC si trovano il mantenimento del coinvolgimento della persona e della famiglia nella vita comunitaria, sociale e familiare del contesto di appartenenza, la predisposizione di facilitazioni ambientali e di dispositivi di assistenza volti a compensare la perdita o la diminuzione di funzionalità fisiche o psichiche, la predisposizione di programmi socio-assistenziali e riabilitativi per ridurre l’impatto delle condizioni di disabilità sulle attività della vita quotidiana o per prevenirne il deterioramento mediante misure di riduzione del rischio e garanzie di qualità delle prestazioni, la predisposizione di interventi di cura istituzionali o residenziali solo laddove ve ne fosse assoluto bisogno. Definire la qualità dell’assistenza a lungo termine per la popolazione anziana si rivela un processo complesso: i criteri di valutazione delle pratiche di LTC dovrebbero catturare la loro natura multidimensionale e le diverse esigenze e interessi di un target di popolazione sempre più numeroso e differenziato al suo interno oltre alle esigenze ed interessi di altri attori coinvolti, come il personale attivo sul campo (medici, infermieri, operatori sociali) nonché i caregiver informali e i gli utilizzatori dei servizi. Solo in questo modo, le questioni concettuali relative alla definizione e alla misurazione della qualità potranno essere modellate dalle diverse prospettive dei soggetti interessati su questioni relative alla natura e alla portata dell’assistenza a lungo termine, definendo aspetti concettuali e operativi ritenuti importanti da rilevare.
Quale ruolo svolgono le cure palliative nell’accompagnamento nella fase del fine vita?
L’invecchiamento della popolazione e l’aumento della sopravvivenza per le persone affette da malattie croniche hanno contribuito a delineare una categoria di pazienti che, a causa di una ridotta aspettativa di vita, non richiedono interventi diagnostici ad alta tecnologia, ma necessitano di assistenza infermieristica o interventi riabilitativi finalizzati alla conservazione di una qualità di vita accettabile anche nella parte finale dell’esistenza. Un simile approccio fa riferimento ad una accezione di assistenza olistica, globale, rivolta a quelle persone le cui condizioni non rispondono più ai tradizionali interventi di cura (nella classica accezione di cure), ma che hanno bisogno di essere accompagnati per quel periodo, più o meno lungo, che resta da vivere (nell’accezione di care), in linea con il modello biopsicosociale dell’intervento sanitario. Tale approccio ha assunto, in tempi abbastanza recenti, il nome di cure palliative e l’anziano fragile ne rappresenta spesso il tipico destinatario. Tale prospettiva considera la malattia non solo come disfunzione organica, ma anche come esperienza soggettiva vissuta dalla persona che diventa portatore di bisogni esistenziali e co-autore del piano di cura. La sfida dell’accompagnamento lungo la fase finale dell’esistenza è quella di considerare quella del morire una stagione della vita che, al pari delle precedenti, è caratterizzata da uno specifico compito evolutivo, un’opportunità di crescita: quello di portare a termine la trama narrativa della propria storia. Entro tale scenario, dunque, emerge l’importanza della demedicalizzazione del morire, riconoscendo la centralità di altre forme di cura. spirituale, infermieristica, familiare. La filosofia di fondo assume la consapevolezza del morire, il controllo dei sintomi e la riduzione del dolore come assi portanti per permettere ai morenti di vivere con dignità e pienezza la parte di vita che resta loro e ai loro familiari di elaborare in maniera matura ed equilibrata il distacco, mantenendone un ricordo positivo. La pratica professionale, in tale contesto, deve muoversi verso la ricerca di soluzioni volte alla ricomposizione della complessità, adottando modalità di lavoro centrate sulla persona, la sua storia e la sua identità, valorizzandone bisogni, affetti e desideri, perché la sua dignità possa essere rispettata. L’obiettivo cui tendere nello scenario della fine della vita è il supporto alle persone nella ricerca della consapevolezza della propria finitudine, delle proprie volontà, ma anche delle paure e delle resistenze e delle fragilità incombenti.
Marta Pantalone ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale. Assistente sociale specialista, insegna Progettazione interistituzionale all’Università degli Studi di Verona.