“Una rivoluzione inavvertita. Dal bianco e nero al colore nello scenario mediale della modernità italiana” di Elena Gipponi

Dott.ssa Elena Gipponi, Lei è autrice del libro Una rivoluzione inavvertita. Dal bianco e nero al colore nello scenario mediale della modernità italiana edito da Mimesis: cosa ci dice la sempre maggiore popolarità del filone di found footage?
Una rivoluzione inavvertita. Dal bianco e nero al colore nello scenario mediale della modernità italiana, Elena GipponiI film di found footage sono quei film costruiti, del tutto o in parte, con materiale d’archivio preesistente. Sono quindi film di seconda mano, che consentono di riciclare le immagini del passato, ridando loro molto spesso un senso nuovo rispetto alle intenzioni originarie di chi le aveva prodotte. In generale, la grande popolarità che, soprattutto in certi circuiti, come quello del cinema documentario, il filone del found footage sta conoscendo ha sicuramente a che fare con la crescente disponibilità da parte degli archivi a rendere accessibile – e valorizzabile, e re-interpretabile… – il proprio prezioso patrimonio audiovisivo.

Dal mio punto di vista, il found footage è interessante nella misura in cui consente di ibridare tra loro i regimi cromatici: siamo a lungo stati abituati a vedere film e prodotti audiovisivi o integralmente a colori o integralmente in bianco e nero, e a non prestare attenzione a questo aspetto formale, quasi fosse un dato privo di significato, l’esito di un puro automatismo tecnologico.

Ora invece, anche grazie appunto a nuovi reperti d’archivio, è molto frequente imbattersi in prodotti meticci, in parte a colori e in parte in bianco e nero, oppure a operazioni in cui il regime cromatico viene esplicitato, sfruttato come richiamo per il pubblico. Un esempio a questo proposito è la serie documentaria The Second World War in Colour, integralmente costruita con veri filmati d’epoca che documentano eccezionalmente a colori eventi e momenti che abbiamo sempre visto rappresentati in una scala di grigi. Non solo: mentre nel caso appena citato il colore è reale, dato che il footage è un autentico materiale di repertorio a colori, filmato da militari e civili durante la seconda guerra mondiale, ci sono anche diversi casi, più e meno raffinati, in cui il regime cromatico adottato è invece virtuale, falso, frutto di un’operazione di manipolazione digitale. È quel che avviene, per rimanere nell’ambito del found footage di genere “storico”, in They Shall Not Grow Old (2018) di Peter Jackson, realizzato in occasione del centenario della prima guerra mondiale a partire dai materiali d’archivio custoditi dall’Imperial War Museum britannico. Le immagini di partenza, in questo caso, erano in bianco e nero, ma sono state sottoposte a un accurato processo di colorizzazione digitale, cosicché possiamo vedere i prati verdi dove detonano i colpi di mortaio, gli occhi blu di soldati che guardano in camera durante i lunghi turni di guardia in trincea, e inevitabilmente anche il rosso del sangue versato…

In questo modo, sia in un caso sia nell’altro, le immagini a colori al posto del “vecchio” materiale d’archivio in bianco e nero risponderebbero a un nuovo paradigma nelle forme di rappresentazione della storia. Il colore diviene un ponte, il veicolo di una relazione viva con il passato, che così ci appare da un lato più vero e dall’altro più vicino nel tempo, più presente.

In che modo l’impiego del colore in luogo del bianco e nero nelle immagini analogiche influisce sulla nostra percezione dei soggetti rappresentati e muta le abitudini visive?
Anche se potrebbe sembrare un aspetto superficiale, il regime cromatico influisce in profondità sulla ricezione e la decodifica delle immagini da parte dello spettatore. Come è evidente dagli esempi appena riportati, vero/falso e presente/passato sono i due binomi che più spesso associamo alla coppia colore/bianco e nero nel mondo occidentale.

Il bianco e nero, infatti, almeno a partire dalla metà del secolo scorso, si è qualificato come il regime cromatico del passato, mentre il colore è l’attributo di ciò che è più nuovo, più vicino a noi. Basti pensare a quanto spesso, nei film di fiction ma anche nei documentari, il viraggio graduale dal bianco e nero al colore viene usato per veicolare un passaggio temporale, dal passato al presente. Se fino agli anni ’90 il bianco e nero poteva ancora offrirsi come un’opzione low-budget dettata da ragioni di carattere economico, con il video prima e il digitale poi si è riconfigurato come gesto metalinguistico e autoriflessivo: oggi filmare o fotografare in bianco e nero è una scelta che rimanda inevitabilmente al passato, o meglio alle sue rappresentazioni tecnologicamente mediate.

Inoltre un’immagine a colori è percepita come più vera rispetto a un’identica immagine in bianco e nero perché più completa, una riproduzione apparentemente perfetta del mondo, finalmente fedele in tutto e per tutto all’originale; insieme, però, proprio il colore rende anche l’immagine “più bella” e seducente, finendo per veicolare una versione ideale e fantastica di realtà. Nella cultura visiva italiana, in particolare, la persistenza del bianco e nero come convenzione stilistica del realismo è molto radicata e contraddice l’ideologia del colore come immagine veritiera: fotoreportage, cinegiornali e documentari d’autore sono stati a lungo legati al bianco e nero.

Più in generale, lo studio del colore chiama in causa le nozioni di regime percettivo e di regime scopico: come messo in evidenza dagli studi di cultura visuale, le abitudini visive, per quanto possano sembrare “naturali”, immediate e autoevidenti, sono invece sempre situate in una data cultura di riferimento. In ogni periodo storico “si vede” in modo diverso: c’è stato un tempo in cui il bianco e nero era la norma ed era considerato naturale vedere film e fotografie in bianco e nero, tanto quanto da alcuni decenni lo è vedere il mondo riprodotto a colori. Come spesso avviene, è in particolare nei momenti di transizione tecnologica da una norma all’altra che il carattere non naturale ma culturale delle nostre consuetudini visive si rende manifesto.

Come è avvenuto il passaggio di massa alle immagini a colori nello scenario mediale italiano?
Come dichiara anche il titolo del volume, è avvenuto sicuramente in maniera inavvertita. Ho in realtà rubato questa espressione da una ben più autorevole ricerca della storica Elizabeth Eisenstein: il suo La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento è uno studio preziosissimo e certo incomparabile di cui, pur trattando processi lontani nel tempo rispetto all’oggetto del mio lavoro, condivido in toto la prospettiva. Eisenstein, infatti, si dedica al difficile compito di ricostruire l’impatto dello sviluppo della stampa sulla società. A fronte della comune convinzione che il passaggio dalla scrittura a mano alla stampa abbia prodotto effetti profondi in ogni campo dell’attività umana, mutando le abitudini mentali e influenzando i comportamenti, la studiosa entra nel merito della descrizione e dell’interpretazione di questi effetti, che si manifestano in un lasso temporale molto ampio e, appunto, in modi inavvertiti. Analogamente, anche il passaggio di massa dal bianco e nero al colore nello scenario mediale italiano, per quanto sia stato un cambiamento dalla portata rivoluzionaria, è difficile da osservare e descrivere, poiché è stato diluito in un arco temporale molto esteso, dagli anni Trenta – quando diventa possibile, e relativamente facile ed economico, filmare a colori, grazie a nuove pellicole quali Kodachrome e Agfacolor – agli anni Settanta e oltre, quando la transizione si compie anche per quanto riguarda la televisione (a seguito dello storico ritardo della Rai nell’avvio delle trasmissioni a colori, è solo dalla fine degli anni ’70 che il tvcolor entra nelle case degli italiani). Prima di arrivare alla completa sostituzione del bianco e nero con il colore, i due regimi cromatici convivono l’uno accanto all’altro per decenni.

Un altro tratto distintivo di questa transizione è che si è verificata a partire dal basso, dalle produzioni minori e popolari. Ciò è dovuto alla strisciante cromofobia che da secoli accompagna la storia del colore e che ha attraversato anche la cultura visiva italiana nell’arco temporale in questione (il colore come attributo volgare, prerogativa di soggetti sociali subalterni quali donne, bambini, analfabeti, omosessuali, immigrati poveri ritenuti portatori di una sensibilità primitiva…). Anche a causa di questo pregiudizio culturale, il passaggio al colore prende le mosse nel nostro Paese dai fenomeni più “banali” e sommersi, dalle pratiche comuni e senza nome. Sono infatti alcuni prodotti e dispositivi della cultura visiva popolare a portare il colore a una diffusione e una disseminazione autenticamente di massa. In particolare, i tre capitoli in cui si articola il volume sono dedicati a tre comparti mediali distinti ma fortemente interrelati, esplorati in maniera certo non esaustiva: la stampa settimanale illustrata (e il caso di Epoca, nello specifico), alcune produzioni cinematografiche vernacolari e popolari (soprattutto il cinema amatoriale e la commedia balneare) e la televisione (analizzata sia sul versante della produzione sia su quello del consumo). Ho scelto questi casi di studio non perché siano le prime volte, le prime occorrenze del colore nei vari media, ma piuttosto perché consentono di misurare la circolazione sociale e l’esposizione di molti alle nuove immagini a colori.

Quali forme di negoziazione di questa innovazione tecnologica ed estetica sono state messe in atto?
Come spesso avviene nei momenti di transizione, la novità tecnologica si traveste, si presenta attraverso la mediazione di una forma visiva precedente, “vecchia”. Nel caso della nuova immagine analogica a colori è evidente il riferimento all’immagine di sintesi, in cui il colore non era riprodotto meccanicamente dai dispositivi di ripresa, ma veniva applicato dalla mano dell’uomo: uno dei primi usi del colore fotografico in un rotocalco come Epoca, ad esempio, è la riproduzione non della realtà “in presa diretta”, bensì dei capolavori della pittura e della storia dell’arte, vale a dire, appunto, di immagini non analogiche ma sintetiche. Non solo: anche quando le tecniche di riproduzione fotomeccanica in quadricromia avrebbero consentito di riempire le pagine dei settimanali di fotografie a colori, la presenza di disegni, vignette e illustrazioni – e quindi di un colore non fotografico ma applicato, dipinto – è ancora molto consistente. Anche nei frequentissimi casi di servizi fotografici a colori dedicati a paesaggi naturali e “meraviglie della Terra”, la retorica con cui queste immagini vengono presentate allude non alla realtà e all’immediatezza di quegli scatti, bensì a un altro esaltante bagaglio di immagini, quello del cinema hollywoodiano: il mondo a colori è come un bel film in Technicolor.

Per quanto riguarda alcune destinazioni d’uso dell’immagine a colori su cui mi sono concentrata nel libro, in accordo con la sua connotazione culturale festiva, il colore è stato una risorsa strategica per la rappresentazione della vacanza, e in particolare della spiaggia, luogo variopinto per antonomasia, tanto più durante gli anni del boom economico. Un altro immancabile appuntamento festivo – e per questo importante luogo negoziale per il colore analogico – è stato lo sport: l’introduzione del colore nella televisione di Stato passa attraverso alcuni imprescindibili eventi sportivi, dalle Olimpiadi ai Campionati di calcio, percepiti come una festa edificante ed ecumenica, resa ancor più gioiosa dalla presenza del colore. Al di là dei singoli studi di caso, ho provato ad avvicinare il colore non come forma espressiva chiusa in un singolo medium, bensì come dispositivo intermediale, aperto al contesto e in costante relazione con le forme visive del passato. Un dispositivo vivo e affascinante che merita di continuare a essere interrogato.

Elena Gipponi è dottore di ricerca in Comunicazione e nuove tecnologie. Dal 2008 collabora ai corsi di cinema dell’Università IULM. Ha pubblicato Le forme del classico. Contributi per l’analisi del cinema hollywoodiano (con Rocco Moccagatta, 2013) e ha curato Cinema and Mid-Century Colour Culture (con Joshua Yumibe, 2019), numero monografico di “Cinéma&Cie. International Film Studies Journal”.

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link