
La vera difficoltà consiste nel gettare lo sguardo “oltre” il sistema tripartito, Inferno, Purgatorio, Paradiso: l’orizzonte a cui ancora tutti guardiamo, per inoltrarsi in un universo che ha, forse, pochi tratti di continuità con l’immaginario condiviso sull’Aldilà della cultura occidentale, ma nel contempo sembra un paesaggio familiare, come quando ci troviamo in un luogo in cui non siamo mai stati, che, tuttavia, ci sembra appartenere a un passato sepolto nella nostra memoria.
Gettando lo sguardo oltre, seguendo, per esempio, Odisseo che con la sua nave approda alle terre dei Cimmeri avvolti nell’ombra in cerca dei fantasmi dei trapassati, scopriamo che ciò che si spalanca oltre la vita mortale per gli Antichi non è facilmente descrivibile o catalogabile. C’è un Oltretomba della cultura omerica; c’è un nucleo pulsante al centro della terra, il Tartaro, in cui finivano le divinità sconfitte dagli dèi dell’Olimpo. Ci sono isole lontane e fortunate, dimora di eroi. Ci sono paesaggi popolati di rane e iniziati ai sacri misteri, come apprendiamo dalle Rane del grandissimo comico Aristofane. Ci sono spazi vuoti, sbiancati dalla morte, in cui scorrono fonti e si alzano bianchi cipressi. Ci sono i regni dei trapassati di fronte a cui Orfeo canta il suo amore per la perduta Euridice. Ci sono regge e palazzi, persino prati, fiori e cieli, nello spazio in cui sprofonda la giovanissima Persefone, figlia della dea Demetra, costretta a unirsi in matrimonio con il dio dei morti Ade. Ci sono baratri e colonne nel cielo, e Muse, e Sirene, come apprendiamo da Platone e dal suo inviato nel mondo dei morti, Er. Ci sono persino, ce lo racconta Virgilio, gli spiriti che ancora si devono incarnare nella vita mortale.
Un universo variegato e complesso che solo con qualche forzatura potremmo catalogare sotto una sola etichetta.
Il tema del viaggio agli inferi rappresenta un topos letterario nelle opere classiche.
È così: talvolta si ha la sensazione che ciò che importa, alla fine, sia proprio il viaggio, e non l’approdo finale. Questo perché, come dice Omero, la fine di ogni vita mortale ha la tessitura materica del sogno, è semplicemente un regno di nebbia. Così molto spesso le storie ospitate nel volume sono vicende incredibili di viaggi, talvolta cupi e pericolosi, basti pensare a Odisseo o ad Alessandro Magno, talvolta invece pezzi di irresistibile comicità, come accade quando Luciano ci racconta nella Storia vera l’approdo alle isole dei beati.
Quale descrizione dell’Aldilà ci forniscono Omero e Virgilio?
Leggendo il sesto canto dell’Eneide virgiliana, quello dedicato per l’appunto al viaggio dell’eroe nel regno dei morti, si avverte chiaramente sin da subito l’“alito” di Omero, riconoscibile nella partitura narrativa e nelle coloriture dei personaggi. Eppure, in verità, Virgilio compie una vera e propria rivoluzione prospettica quando ci descrive il “suo” mondo al di là della morte. Fanno, per esempio, la loro comparsa i colpevoli puniti e ci troviamo di fronte a un paesaggio variegato, in cui ciascuno occupa il posto che la vita mortale gli ha garantito. Non solo: in Virgilio i morti convivono con i vivi, o meglio, convivono con chi deve ancora venire al mondo così che nell’Ade di Virgilio abitano, compresenti, le tre funzioni del tempo: il passato, con i fantasmi dei defunti, il presente, rappresentato da Enea e dalla Sibilla che lo guida, e il futuro con le anime di chi deve ancora nascere. Nell’Oltretomba omerico, invece, una specie di annientamento democratico cala sui fantasmi dei trapassati: i grandi, gli eroi, convivono con i piccoli, con le persone da nulla. Così sembra non contare nulla ciò che si è stati in vita; la destinazione finale è, per tutti, la stessa: un regno grigio di nebbia. Odisseo, nell’Odissea, non scende nell’universo dei trapassati; si accosta semplicemente ai confini di un mondo in cui non ha nessuna intenzione di entrare.
Qual era la concezione greca dell’Aldilà?
Non esiste, per l’antica Grecia, una visione armonica della vita oltremondana: persino Omero non pare avere in mente un’idea chiara dell’Ade. Nell’XI canto dell’Odissea, Odisseo incontra in grande Eracle, o meglio il suo fantasma, che combatte contro nemici immaginari fatti di nebbia, come quando era ancora in vita. In quel frangente, il poeta ricorda al suo pubblico che solo l’ombra di Eracle occupa le lande desolate dei morti. In verità l’eroe siede per l’eternità sull’Olimpo in compagnia degli dèi. Non esiste perciò un solo luogo dove trascorrere l’eternità, ma accanto all’Oltretomba omerico, troviamo le isole dei beati, disperse in un altrove senza geografia ai confini del mondo. Incontriamo il Tartaro al centro della terra; l’Aldilà descritto da Platone nella Repubblica in cui le anime non sostano definitivamente ma si preparano a una rinascita. Insomma: l’Aldilà dei greci ha un volto complesso e variegato.
Come concepivano i romani l’Oltretomba?
Nel mondo latino il paesaggio oltremondano si fa più complesso e insieme più definito: l’Aldilà non è semplicemente una piana immersa nella nebbia, ma si popola, si colora di presenze che occupano un posto preciso a seconda di come si sono comportate in vita. In Virgilio si fa largo, tratteggiata a carboncino, quella visione dell’Oltretomba che offrirà materiale narrativo a tanti illustri affreschi di età successiva e di impronta cristiana. Siamo ben lontani dalla disperazione dell’Oltretomba omerico. Tuttavia, proprio a un latino tocca la palma del ritratto più inquietante dell’universo oltremondano: a Lucrezio che ci descrive un Aldilà che non ha nulla di remoto, ma è la tessitura materica della vita umana, delle paure dell’uomo, dei suoi vizi e delle sue aberrazioni. Con Lucrezio, l’Ade esce dai confini del mondo infero, per trasformarsi in spettro che abita la nostra mente.