“Una fede per l’impero. Cattolicesimo e colonialismo nell’Italia liberale (1882-1912)” di Giovanni Cavagnini

Dott. Giovanni Cavagnini, Lei è autore del libro Una fede per l’impero. Cattolicesimo e colonialismo nell’Italia liberale (1882-1912), pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura: in che modo il cattolicesimo italiano affrontò la questione del colonialismo?
Una fede per l’impero. Cattolicesimo e colonialismo nell’Italia liberale (1882-1912), Giovanni CavagniniPer inquadrare correttamente la questione nel contesto dell’epoca è opportuno tenere conto di almeno tre elementi. Il primo è la tensione costante tra dimensione religiosa e dimensione politica. Per un cattolico, il senso ultimo del colonialismo era la diffusione della “vera” fede, che ai suoi occhi costituiva la base irrinunciabile della civiltà. Tale opera evangelizzatrice era portata avanti dalle missioni religiose e, per essere davvero efficace e ramificata, necessitava del supporto governativo, che non era scontato e anzi risentiva grandemente dello stato delle relazioni tra autorità politica e autorità religiosa nella madrepatria. Da questo punto di vista, la situazione italiana risultava quanto mai complessa, perché la Questione romana impediva l’instaurarsi di normali relazioni diplomatiche tra le due sponde del Tevere, con tutte le conseguenze del caso sull’oltremare.

Il secondo elemento da considerare è la cronologia. Com’è noto, il colonialismo italiano si sviluppò con un ritardo sensibile rispetto a potenze come Francia e Gran Bretagna, che controllavano la maggior parte dei territori africani. In linea con questo dato generale, l’interesse dei cattolici italiani per le colonie emerse tardivamente, a dispetto sia degli sforzi compiuti da papa Leone XIII per incentivare, centralizzare e razionalizzare l’azione missionaria, sia dell’esempio di pionieri come Daniele Comboni e soprattutto il cappuccino Guglielmo Massaia, che per oltre trent’anni fu vicario apostolico dei Galla in Etiopia (1846-1880). Di fatto, fu solo nel 1887, con la «gloriosa sconfitta» di Dogali (l’espressione è di Mario Isnenghi), che la grande maggioranza dei cattolici italiani prese coscienza del problema coloniale.

Il terzo elemento su cui vorrei richiamare l’attenzione è costituito dalle dimensioni del dibattito. Di norma, esso si limitò a un gruppo assai ristretto, in cui spiccavano due riviste dalle idee molto diverse: «La Rassegna nazionale» di Firenze e «La Civiltà cattolica» di Roma, che commentarono con dovizia di particolari progressi e battute d’arresto della penetrazione italiana in Africa. Durante le campagne militari, invece, l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica cattolici crebbe in maniera considerevole e il confronto si allargò ad attori che di solito ne restavano esclusi, come la stampa e i parroci di provincia.

Al netto di queste precisazioni, tra l’acquisto della baia di Assab (1882) e la pace di Losanna con l’impero ottomano (1912) il discorso cattolico sulle colonie non venne mai meno: al contrario, la cultura “bianca” (una delle principali dell’Italia unita) contribuì in maniera significativa alla formazione di una coscienza coloniale attraverso romanzi, poesie, discorsi, libri, opuscoli, immagini, memorie, articoli di giornale, riviste, manifesti funebri, ecc.

Quali diverse posizioni si scontrarono, in seno al mondo cattolico italiano, nel dibattito sull’espansione in Africa?
In passato, alcuni storici hanno illustrato la questione ricorrendo alla distinzione tradizionale tra cattolici intransigenti (che rifiutavano di riconoscere lo Stato unitario nato dalla fine del potere temporale del pontefice) e cattolici liberali (che avevano invece un atteggiamento più possibilista nei confronti del giovane Regno d’Italia). Secondo questi studiosi, i primi avrebbero guardato con ostilità all’espansione oltremare, ritenendola impraticabile per via dei costi elevatissimi dell’impresa, dei gravi problemi interni (povertà, emigrazione, ecc.) e dell’incapacità dei vertici politici e militari; i secondi, invece, lo avrebbero appoggiato con fermezza e talora con entusiasmo, sottolineando i benefici economici e il prestigio internazionale derivanti dal possesso delle colonie.

Questa dicotomia sembra trovare riscontro in alcune delle voci più autorevoli del cattolicesimo italiano a cavallo tra Otto e Novecento: da una parte, «L’Osservatore romano», «L’Osservatore cattolico» di Milano e i gesuiti de «La Civiltà cattolica», che usarono toni tra il sarcastico e l’apocalittico per narrare le gesta del primo colonialismo italiano; e dall’altra, la già menzionata «Rassegna nazionale» diretta dal marchese Manfredo da Passano e il celebre vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (portabandiera dell’ala conciliatorista dell’episcopato italiano), che nemmeno nei frangenti più drammatici della vicenda, come la disfatta di Adua del 1896, rinunciarono al loro africanismo.

Uno sguardo più attento permette però di sfumare questa distinzione. A ben vedere, perfino gli intransigenti più rigidi si mostrarono ostili non al colonialismo in quanto tale ma solo a quello portato avanti dal governo italiano, che ai loro occhi era reo di essere laico, schiavo della massoneria e oppressore del pontefice; di conseguenza, qualora l’esecutivo avesse deciso di mutare rotta e di porre fine alla Questione romana, essi avrebbero lasciato cadere ogni obiezione in materia coloniale, allineandosi con i cattolici liberali. A parte l’atteggiamento nei confronti della monarchia sabauda, infatti, entrambi i gruppi condividevano la medesima visione dell’evangelizzazione come dovere, necessario per la salvezza delle anime degli acattolici e la maggiore gloria della Chiesa; e degli africani come sostanzialmente privi di diritti per via della loro inferiorità sul piano civile e religioso più che biologico e razziale.

In che modo tale discorso pose le premesse per la normalizzazione dei rapporti tra Chiesa e Stato realizzatasi durante la Prima guerra mondiale?
Tra il 1915 e il 1918 si verificò, per dirla con Antonio Scottà, una sorta di «conciliazione ufficiosa», resa possibile dall’opera di mediazione portata avanti dal barone Carlo Monti (incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede) e soprattutto dal sostegno che, a dispetto della formale assenza di relazioni diplomatiche tra le due sponde del Tevere, i cattolici italiani fornirono allo sforzo bellico.

Tra le premesse di una simile svolta la storiografia è solita indicare il patto Gentiloni stipulato tra cattolici e liberali per arginare l’ascesa del socialismo alle elezioni politiche del 1913, ma a mio avviso non si può tacere il ruolo che, da questo punto di vista, fu giocato delle campagne coloniali. Il dato emerge con particolare chiarezza all’indomani delle sconfitte che accompagnarono la penetrazione italiana nel corno d’Africa: prima a Dogali (1887), poi ad Amba Alagi (1895) e infine ad Adua (1896), teatro del più grave rovescio militare subito da una potenza europea nel corso dello scramble for Africa. Durante le numerosissime cerimonie funebri per i caduti celebrate nelle chiese di città e paesi sparsi per tutta la penisola, davanti ai tumuli circondati da armi, fiori e iscrizioni patriottiche, le divisioni interne al campo cattolico vennero meno, cedendo il passo alla celebrazione delle virtù che avrebbero garantito il ritorno a una società cristiana e la grandezza della nazione: la religiosità, il dovere, l’obbedienza, il sacrificio, l’eroismo. Solo una minoranza degli speaker cattolici presentò i militari morti in Africa come martiri immolatisi per la fede; tutti, però, contribuirono a giustificare la loro morte agli occhi degli italiani, fin negli angoli più remoti del Regno, e così facendo contribuirono a diffondere il consenso nei confronti dell’espansione oltremare o quantomeno a contenere lo scontento delle popolazioni. Con la guerra di Libia del 1911-1912, poi, il processo raggiunse il culmine grazie al coinvolgimento massiccio dei vescovi, che presentarono il conflitto tra Roma e Istanbul in termini di crociata, inducendo il Vaticano a intervenire pubblicamente per smentire questa interpretazione.

Pochi anni dopo, l’Europa precipitò in una guerra di ampiezza e tipologia molto diverse rispetto ai conflitti di cui abbiamo parlato; tuttavia, la contrapposizione tra civiltà e barbarie, la sovrapposizione tra registro religioso e registro patriottico e la giustificazione della morte in battaglia ritornarono prepotentemente nel discorso bellico dei cattolici italiani, a riprova del carattere di precedente (e di vero e proprio laboratorio della conciliazione) costituito dall’esperienza coloniale.

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