
Il libro costituisce la prima antologia dell’opera continiana: quali criteri hanno presieduto alla selezione offerta?
Si è tenuto conto, d’accordo con l’editore, di tre criteri principali. Da un lato si è cercato di mettere a disposizione dei lettori, raccolti in un unico volume, i saggi fondamentali di Contini che, sul piano metodologico e a livello contenutistico, hanno segnato una tappa decisiva e una svolta nella storia della critica letteraria novecentesca. Sono così stati selezionati, per non fare che qualche esempio, il Come lavorava l’Ariosto del 1937 e il Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare del 1943, oppure Il linguaggio di Pascoli del 1958 e Filologia ed esegesi dantesca del 1965. Al contempo, però, si voluto unire a questi anche alcuni degli interventi che più icasticamente permettessero di avvertire la vena teoretica e altamente pedagogica sempre sottesa, in Contini, all’opera critica e filologica. Così sono stati antologizzate le pagine su Longhi e quelle su Croce, nonché quelle su Jakobson, allo scopo di documentare come, in Contini, la pratica non sia mai disgiunta dalla riflessione sui maestri e sui modelli, e come da questa si diparta una speculazione che è, al tempo stesso, filosofica e autobiografica. Da ultimo – ed è questo il terzo criterio – ci è parso importante riuscire a documentare l’intera parabola continiana, affinché le varie epoche e stagioni di un’esistenza alacre e fecondissima fossero rappresentate, almeno per campioni. Si spazia perciò dai primi, folgoranti interventi di critica militante, di un Contini poco più che ventenne, dedicati a Ungaretti, Montale e Gadda, fino agli articoli di un Contini estremo, e per certi versi più esposto, che toccano autori e opere decisivi, in vario modo, nella sua vicenda, oltre che di studioso, di uomo: penso alla Testimonianza su Pasolini del 1980, o ai sondaggi sempre rapidi e quasi fugaci, ma molto partecipi, su Manzoni, come anche ai ritratti commemorativi e simpatetici dedicati a figure pur fra loro assai diverse, come Raffaele Mattioli, Filippo De Pisis, Antonio Pizzuto.
Come si è svolta la parabola accademica e intellettuale di Gianfranco Contini?
Come si è cercato di illustrare nell’introduzione al volume, è possibile distinguere, nella parabola accademica e intellettuale di Contini, alcune stagioni. C’è l’epoca fondamentale, per più aspetti decisiva, della formazione e degli esordi, degli studi compiuti presso il Collegio Rosminiano di Domodossola e presso l’Università di Pavia, e poi a Torino con Santorre Debenedetti e quindi a Parigi con Joseph Bédier, a Firenze con Michele Barbi. Sono anni in cui Contini per un verso si dedica, con un’intensità straordinaria, alla filologia romanza e allo studio delle letterature europee medioevali, e per l’altro conosce e frequenta alcune delle voci più significative della letteratura contemporanea, da Gadda a Valéry, da Cecchi a Montale. Questa prima stagione, per molti tratti unica e irripetibile, si conclude nell’estate del 1938, quando a 26 anni Contini vince il concorso per la cattedra di filologia romanza all’Università di Friburgo. Sul Contini professore e maestro, a Friburgo, Dante Isella e Giovanni Pozzi hanno lasciato due testimonianze che ne illuminano l’affascinante specificità: all’insegna di un rigore e di una disciplina per nulla refrattari alla vita, e al giudizio sulla vita. Il rientro in Italia avviene dopo un quindicennio, con l’inizio dell’insegnamento fiorentino a partire dall’anno accademico 1952-53. È la terza stagione di questa parabola, di cui il risultato più celebre è l’antologia dei Poeti del Duecento uscita nel 1960, frutto di un lavoro d’équipe condotto da Contini insieme a una decina di più giovani collaboratori, che studiosi come Nencioni, Segre o Mengaldo hanno poi giustamente definito il suo capolavoro assoluto, uno degli eventi più importanti per la cultura letteraria italiana del secondo dopoguerra. In questi anni, fra l’altro, si rafforza e consolida il rapporto di Contini con la casa editrice Einaudi, e, complice anche la presidenza della Società Dantesca, emerge la sua capacità formidabile – oltre che di lavoratore in proprio – di innescare, progettare e guidare i lavori altrui. Nel decennio conclusivo della sua carriera accademica, dal 1975 al 1985, Contini è infine professore di filologia romanza alla Scuola Normale Superiore di Pisa di dove, poi, e fino alla morte, nel 1990, rientra nella natale Domodossola. Questo quarto tempo – chiamiamolo così – è quello delle somme ricapitolazioni, che troviamo nelle voci Filologia e Espressionismo letterario, scritte per l’Enciclopedia Treccani del Novecento, nel Breviario di ecdotica del 1986, nell’edizione dell’Opera in versi di Montale e nell’edizione, critica e commentata, del Fiore e del Detto d’Amore.
A quali autori Contini ha dedicato le sue cure e la sua intelligenza?
Gli ‘amori’ di Contini, letterariamente parlando, sono desumibili dalla sua bibliografia e dalle pagine di Diligenza e voluttà, la lunga intervista concessa a Ludovica Ripa di Meana e pubblicata nel 1989: spiccano i nomi di Dante e Petrarca, Leopardi e Manzoni, Montale e Gadda, Longhi e Pizzuto, ai quali si aggiungono, su scala internazionale, quelli di Hölderlin, Puskin, Proust, Mallarmé… Di ciascuno di questi autori, fuorché Puskin, Contini si è occupato anche nei suoi studi e nelle sue ricerche, che spaziano dunque, geograficamente e cronologicamente, tra ambiti e campi anche molto distanti fra loro, dal teatro religioso medioevale ai poeti dialettali del secondo Novecento. Ma certamente il caso di Dante spicca su tutti gli altri, per la quantità, la qualità e la tipologia degli interventi, critici e filologici, che sono numerosi, continui e di natura molto varia. D’altronde Contini stesso, senza esitazioni, ha definito Dante, a più riprese, il più grande poeta del mondo moderno, un classico di indiscutibile attualità, per autorevolezza, qualità e forza dell’espressione. Proprio parlando con Ludovica Ripa di Meana, ebbe a dire che una cosa sola è grande e stupefacente come la realtà, ed è la percezione che Dante ne aveva, senza censure o preclusioni, congiunta alla capacità di restituire e far vivere quella realtà nella sua poesia.
Che rilevanza ha assunto, per Contini, la diatriba circa la paternità di Fiore e Detto d’Amore?
Per Contini la questione ha avuto un’importanza duplice: intrinseca e estrinseca. Ipotizzare la paternità dantesca delle due opere, sulla base della tradizione manoscritta e, ancor più, alla luce della fisionomia stilistica delle stesse, ha significato, per Contini, innanzi tutto trovare una specie di conferma alla sua idea di Dante, quale autore sommamente sperimentale e innovativo, come egli ha dedotto dallo studio, in particolare, delle Rime e della Commedia. E poi, questa ‘avventura’ filologica e critica è stata per lui anche un’occasione metodologica preziosa, per verificare l’applicabilità ai testi letterari dei metodi attribuzionistici normalmente esperiti dagli storici delle arti figurative: come il prediletto Roberto Longhi aveva fatto per opere anonime del Medioevo artistico italiano, così Contini si è provato a scorgere dietro le scelte e le soluzioni lessicali, metriche e ritmiche documentate nel Fiore e nel Detto d’Amore la mano dell’autore della Commedia, ovvero lo stesso sistema compositivo, la stessa cultura, la stessa unica ed esclusiva grammatica poetica. E allora, anche se proprio su questo metodo dei ‘riscontri’, dei luoghi paralleli, per l’omogeneità tipica della poesia medioevale, si sono successivamente indirizzate le riserve e le esitazioni, le prove addotte da Contini non hanno perso la loro stimolante efficacia, come, tra gli ultimi, anche Leonardi e Formisano hanno ribadito.
Quali incontri hanno maggiormente segnato e accompagnato Contini nel suo cammino umano e scientifico?
Contini per primo, e in molte circostanze, ha sottolineato l’importanza cruciale di numerosi incontri, e dunque di numerose amicizie, nel definire la specificità del suo percorso. E in questo mi permetterei di riconoscere un ulteriore riverbero della sua intelligenza e della sua genialità: per la volontà e la curiosità con cui, dai primi agli ultimi anni della sua vita, egli ha sempre cercato e desiderato il confronto, il dialogo, quale esperienza umana sublimemente formativa. Tra i primi incontri, specificamente, metterei quelli con i padri rosminiani del Liceo di Domodossola, che gli hanno consentito, tra l’altro, di accedere tempestivamente alla filosofia e alla teologia di Rosmini, capitali nella definizione delle coordinate del suo pensiero. Al tempo di Friburgo, poi, molta importanza ha avuto il rapporto con il padre domenicano, ma di origine insieme ebraica ed egiziana, Jean de Menasce, orientalista poliglotta cugino dello scrittore Georges Cattaui: maggiore di Contini di una decina di anni, è stato tra le presenze più forti del quindicennio friburghese, come ben emerge dalle carte epistolari. Ma prima ancora bisognerebbe ricordare l’incontro con Aldo Capitini, al principio degli anni Trenta, che molto ha contato per la tempestiva maturazione, in Contini, di una coscienza politica, antifascista e democratica, anche se poi le loro posizioni, dall’iniziale consenso e convergenza, hanno preso, nel dopoguerra, orientamenti almeno in parte diversi… Ci sono poi gli incontri dentro il perimetro per così dire professionale della letteratura: e qui lo spettro è davvero amplissimo. È chiaro, alla luce dei suoi saggi e dei suoi carteggi, quanto preziosa sia stata la frequentazione di Santorre Debenedetti, Michele Barbi, Joseph Bédier, e, nello stesso giro di mesi e anni, quella di Montale, Gadda, Valéry… e tuttavia, proprio il numero e la caratura di simili e successive frequentazioni mi pare testimoni, al di là di tutto, della eccellenza, eccezionalità del frequentate. Dotato di una capacità di ascolto e interazione e assimilazione talmente plastica e profonda da riuscire vitalmente fecondissima.
Qual è l’eredità intellettuale di Gianfranco Contini?
Mi piacerebbe poter dire che la sua maggiore sia stata una lezione di allegria. E al tempo stesso di bellezza. L’intelligenza, la libertà, la vita dello spirito non possono essere tristi. E neppure possono, neppure dovrebbero cedere alla tentazione della scipitezza, dell’aridità: perché, come lo stesso Contini ha detto, occorre in qualsiasi forma e occasione essere degni della bellezza di ciò che ci circonda. Di una pagina di Dante come di una sequoia della California. Provando a generalizzare, semplificando, si potrebbe desumere da Contini un invito all’estetica della sorpresa. La realtà, quella storica e quella artistica, quella naturale e quella poetica, tutta la realtà ci si offre come dato, come dono. Il filologo, il critico, lo scienziato, in virtù della propria curiosità e della propria preparazione, fa di quel dato, apparentemente inerte, neutro, grigio, una sorpresa, un problema, e dunque un mistero, intorno al quale – sulla base di prove, esperimenti – si potranno formulare una o più ipotesi. E così l’attività critica e filologica, come l’esperienza viva di ogni lettore, di ogni uomo germinano autenticamente, secondo Contini, da una felicità, da una grazia, da una creatività, che poi, in seconda e necessaria battuta, tocca alla coscienza, alla responsabilità di sottoporre a verifica. Mi pare sia questo il succo della sua eredità: non c’è altro modo di stare davanti alla vita, alle opere letterarie o alle persone, che sia rispettoso del loro intrinseco e irriducibile valore. Da un lato avvertendone la ricchezza, il fascino, lasciandosene conquistare; e dall’altro cercando sempre di razionalizzare, e dunque giustificare, il contenuto della propria esperienza, del proprio vissuto. Questa è l’avventura, richiamata tante volte da Contini, che figura anche nel titolo del volume.
Uberto Motta è professore ordinario di Letteratura italiana all’Università di Friburgo