“Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale” di Michelangelo Cocco

Dott. Michelangelo Cocco, Lei è autore del libro Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale edito da Carocci: quale ruolo ha oggi nel paese il Partito comunista?
Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale, Michelangelo CoccoIl Partito comunista cinese compirà 100 anni il 23 luglio prossimo e, attualmente, può contare su più di 90 milioni di iscritti, senza considerare gli oltre 80 milioni di membri della Lega della gioventù comunista. Questi numeri confermano il profondo radicamento, sul territorio e nella società cinese, del Partito artefice della Lunga marcia (1934-35); della resistenza anti-giapponese (1937-1945); della guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang (1945-1949); dell’adozione del modello politico-economico sovietico nel 1949; della Rivoluzione culturale (1966-1976); della politica di “Riforme e apertura” a partire dal 1978; dell’apertura al capitale globale con l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001; e infine della “Nuova era” – proclamata dal segretario generale Xi Jinping con il XIX Congresso del Partito nel 2017 – che la sinologa statunitense Elizabeth Economy ha paragonato a una “terza rivoluzione”, dopo quelle di Mao Zedong e Deng Xiaoping.

Insomma, dal 1921 a oggi la storia della Cina per lunghi tratti ha coinciso con quella del suo Partito comunista, anche perché nelle fasi di “repressione” (come quella attuale), che si sono alternate a quelle di “liberalizzazione”, la società civile è stata sistematicamente soppressa e/o cooptata dal Pcc, che oggi più che mai rivendica il monopolio assoluto su ogni decisione. Nel suo discorso d’apertura del XIX Congresso (il 18 ottobre 2017) Xi Jinping ha proclamato: «Il governo, l’esercito, la società e le scuole, da nord a sud, da levante a ponente il Partito dirige tutto». Siamo di fronte a una svolta epocale: la “rinascita nazionale” invocata da Xi – che punta a proiettare la Repubblica popolare tra le grandi potenze – si sta realizzando sotto i nostri occhi non attraverso la democratizzazione della Cina (sulla quale avevano scommesso in tanti), ma grazie al rafforzamento di un partito leninista e a un’economia in gran parte diretta dal governo del partito unico.

Questo sistema – di cui i media mainstream sottolineano ossessivamente fragilità e contraddizioni – in realtà si sta rivelando un efficace strumento di governance del XXI secolo: la capacità di arginare l’epidemia di Covid-19 all’interno del Paese, il continuo ampliamento di una moderna rete nazionale dei trasporti e delle telecomunicazioni, i successi (per quanto ottenuti con metodi controversi) nella lotta contro l’estremismo islamico, i programmi di sostegno alle fasce sociali più deboli per fronteggiare gli effetti della riduzione della domanda dall’estero… secondo la propaganda – che le utilizza scientificamente per contrapporre i successi del “socialismo con caratteristiche cinesi” al “disordine” (luàn) dei paesi democratici – dimostrano l’efficienza del sistema cinese. È questa la “terza rivoluzione”: sul Partito della Lunga marcia e del socialismo, che nel corso degli anni Ottanta e Novanta si era abbandonato alle gioie del mercato, oggi grava l’onere di amministrare una società sempre più complessa, in un contesto internazionale di crisi, a tratti ostile. A tal fine Xi e compagni fanno ricorso – molto più che negli ultimi decenni – alla diffusione dell’ideologia e a strumenti ipertecnologici di controllo sociale (tematiche che ho analizzato nei capitoli centrali del libro).

In questo sistema l’economia rappresenta un grosso punto interrogativo, legato – come sempre in Cina – alla difficoltà di garantire un benessere diffuso (la “società moderatamente prospera” promessa da Xi) nel paese-continente più popoloso del mondo, quarto per estensione, ma in possesso di materie prime assai limitate.

Gli Stati Uniti conoscono bene il tallone d’Achille cinese, perciò hanno scelto (questa volta sì, “chirurgicamente”) di colpire questo sistema politico-sociale alternativo – che rincorre e di tanto in tanto già supera i primati a stelle e strisce – mirando alla tecnologia, cioè al motore di ogni innovazione economica e militare. «Colpire Huawei per educare il Partito comunista cinese» avranno forse pensato – parafrasando Mao – Trump e i suoi consiglieri quando hanno deciso di sferrare l’attacco contro le compagnie tecnologiche cinesi attraverso il protezionismo e facendo pressione sui loro alleati ai quattro angoli del pianeta per boicottarle.

Per non spingermi troppo in là rispetto alla domanda, vorrei concludere con una mia personale riflessione: se vogliamo capire cosa sta succedendo in Cina, esecrare il suo sistema autoritario non è particolarmente utile, bisognerebbe piuttosto studiarlo, altrimenti la sua “resilienza” (che brutta parola!) ci risulterà sempre incomprensibile. E, soprattutto, comprenderlo potrebbe indurci a rivalutare l’importanza del partito politico “tradizionale” per la governance del XXI secolo: il radicamento territoriale, la diffusione di un’ideologia (perché no, anche di un mix ideologico), la selezione di una classe dirigente di primo livello attraverso la sua formazione e promozione meritocratica sono tutti elementi caratteristici del Pcc che qualsiasi partito politico che si proponga di incidere sulla realtà dovrebbe rivalutare.

Come sta cambiando con Xi Jinping la Cina?
La Repubblica popolare cinese è un paese pieno di contraddizioni: dove una cultura millenaria convive con l’utilizzo massiccio e pervasivo di tecnologie di controllo sociale ultramoderne; dove le disuguaglianze si manifestano in maniera evidente; dove si sta provando a imporre una armonia (héxié) confuciana mentre, tra la metà dell’Ottocento e gli anni Settanta del secolo scorso, la costante era stata piuttosto la rivoluzione sociale. In un simile contesto credo che Xi Jinping – probabilmente l’uomo politico più potente del mondo – non abbia alcun potere di “cambiare la Cina”, e – a giudicare dalla sua storia personale – ritengo che Xi ne sia perfettamente consapevole, diversamente da Mao, che con la sua Rivoluzione culturale fece compiere al Paese un disastroso (seppur nel contesto storico-ideologico degli anni Sessanta) salto nel vuoto dell’utopia.

Mao aveva una personalità straordinariamente ribelle ed era un rivoluzionario al 100%, che giunse fino a ordinare (nel 1966) «Fuoco sul quartier generale!» per sovvertire un Partito che gli stava ormai troppo stretto. Xi Jinping al contrario è un figlio del Partito che ha accettato le sofferenze inflitte alla sua famiglia dalle persecuzioni maoiste, che è stato plasmato dal Partito nei lunghi anni della Rivoluzione culturale in cui fu spedito lontano da Pechino, come “giovane istruito” tra i contadini dello Shaanxi, e che ha compiuto un lungo cursus honorum a capo di città e province cinesi, approdando infine alla guida del Partito.

La sua missione non è dunque quella di “cambiare la Cina”, ma di rendere il Partito comunista cinese uno strumento sempre più efficiente e al passo coi tempi, per traghettare il Paese verso la modernizzazione. In questo senso gli obiettivi di Xi sono quelli “tradizionali” della Cina contemporanea, in quanto – come rilevò anni fa la sinologa Marie Claire Bergère – «dall’Impero riformista (1901-1911) alla presidenza di Yuan Shikai (1912-1916) o al governo Kuomintang di Nanchino (1927-1937), i regimi che si sono succeduti hanno avuto come obiettivo quello di vincere il sottosviluppo, di cancellare le tracce della dominazione straniera, di portare la Cina al rango delle grandi potenze economiche del mondo, di realizzare l’indispensabile aggiornamento della società».

La novità storica è però che oggi Xi Jinping amministra una Repubblica popolare nella quale deve assecondare le richieste di oltre 400 milioni di persone che pretendono un’istruzione adeguata per i propri figli, un sistema sanitario efficiente, una pensione dignitosa, tutela per l’ambiente… «una vita migliore»: così Xi Jinping ha riassunto l’insieme delle aspirazioni della classe media più numerosa del pianeta. Per quanto possa apparire riduttivo rispetto al ritratto (profondamente distorto) di una Cina forte e intenta a conquistare il mondo dipinto dai media mainstream, l’obiettivo principale del Partito è proprio quello di assicurare una «vita migliore» ai cinesi, perché è prima di tutto questo che gli garantirebbe di rimanere al comando ben oltre il centenario della sua fondazione. E con il Covid e il conseguente crollo della domanda dall’estero le cose si sono complicate, perché milioni di persone che aspiravano a diventare ceto medio potrebbero al contrario venire risucchiate nella povertà a causa del brusco rallentamento dell’economia.

C’è poi un grosso problema demografico, ovvero il pericolo che la Cina diventi vecchia prima di diventare ricca. L’invecchiamento della popolazione cinese è evidente e, se continuerà, sarà difficile mantenere e migliorare gli attuali livelli di welfare. La recente abolizione della politica del figlio unico deve ancora dare i suoi frutti, e per continuare a far crescere i salari sarà indispensabile che le compagnie cinesi innovino (un percorso descritto nell’ultimo capitolo del libro), producendo beni dall’alto valore aggiunto, in grado di far crescere i fatturati molto più del vecchio “made in China” a basso costo.

Altri due cambiamenti che segnalerei sono il rafforzamento della struttura e dei compiti del Partito, in particolare della sua leadership (una mutazione invisibile per chi non si occupa di questa materia), e un’evidentissima svolta ideologica: grazie a un apparato di propaganda capillare, rodato ed estremamente sofisticato, la nuova ideologia – il “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova era”, un mix di marxismo, confucianesimo e patriottismo – viene diffusa ovunque, dalle scuole alle fabbriche, passando per qualsiasi contenuto che viaggia su internet, e rivendicata come una componente della “rinascita nazionale”: perfino ai tanti stranieri che vivono e lavorano in Cina viene richiesto sempre più di impararla (talvolta tramite corsi ad hoc) e rispettarla. Tanto la svolta istituzionale-organizzativa quanto quella ideologica rappresentano una conseguenza del cambiamento della “contraddizione principale”, dell’irruzione sulla scena della middle class cinese, un fenomeno epocale e nello stesso tempo tangibile, al quale – se solo volessimo – potremmo avvicinarci, ad esempio dialogando con gli studenti cinesi nelle nostre università, con i giovani turisti con un’istruzione superiore che visitano le nostre città d’arte… scopriremmo che molti di loro sostengono le politiche governative, a riprova della notevole capacità del Partito di adattarsi ai cambiamenti sociali, intercettando le nuove aspirazioni del popolo.

Cosa prevede la “Nuova era” proclamata dal segretario generale del Partito comunista cinese?
Per dirla con il Partito comunista cinese, secondo il lessico del suo marxismo “sinizzato” la Nuova era è il risultato del cambiamento della cosiddetta “contraddizione principale” (zhǔyào máodùn). Dopo tre decenni di crescita a doppia cifra, la contraddizione principale della Cina del terzo millennio è – secondo la formulazione certificata da Xi Jinping – quella tra «uno sviluppo squilibrato e inadeguato» da un lato e, dall’altro, «il bisogno crescente di una vita migliore da parte della popolazione». Per il Segretario generale si tratta di «un cambiamento storico che influenza l’intero scenario e crea numerose nuove domande per il lavoro del Partito e del Paese».

Durante il XIX Congresso Xi ha avvertito che il popolo chiede sempre più «democrazia, stato di diritto, equità e giustizia, sicurezza e un ambiente migliore». La proverbiale “ciotola di riso di ferro” uguale per tutti degli anni di Deng Xiaoping non è che il ricordo di un passato remoto, e la Cina che brucia a gran velocità le tappe dello sviluppo non si accontenta più dall’aumento dei salari. Nella Nuova era, i cinesi vogliono ben altro. È un cambiamento epocale. L’agenzia di stampa “Xinhua” ha riassunto così i mutamenti, materiali e simbolici, della Nuova era: «La ricchezza fa sorgere nuovi desideri: un titolo di studio a Oxford o a Cambridge, una vacanza in California, una villa a Sidney».

Per essere all’altezza di queste nuove sfide, secondo Xi Jinping e la leadership uscita dagli ultimi due congressi nazionali è indispensabile anzitutto rinnovare e rafforzare il Partito, che nel libro ho paragonato a una “macchina di riforme per tenere lontana la democrazia”: attraverso la creazione di nuove istituzioni – ad esempio la Commissione nazionale di controllo (anti-corruzione) e l’Amministrazione del cyberspazio della Cina (supervisione su internet) il Partito afferma la sua autorità in ogni ambito dell’amministrazione e della società e riforma le istituzioni in linea con le sue tradizioni autoritarie, cercando di prevenire qualsiasi apertura democratica. Si tratta di organismi creati per far fronte in maniera rapida ed efficiente alle più moderne sfide di governance e che sono diretti da e rispondono a la leadership del Partito.

La “Nuova era” è davvero una nuova era, nella quale il Partito ha iniziato ad affrontare di petto una serie di problemi irrisolti, diventati sempre più gravi negli ultimi anni, che ne minacciavano l’autorità. Li riassumo in ordine sparso, perché non credo che uno fosse più grave dell’altro, ma che la somma di queste tensioni potesse dare una spallata al regime del partito unico, come quella tentata dal movimento di piazza Tiananmen nel 1989: il fazionalismo all’interno del Pcc; la corruzione nel Partito e nell’amministrazione pubblica; il deficit ideologico nel Partito e nella società.

Quali sono gli obiettivi strategici e geopolitici cinesi?
La Cina si sta espandendo soprattutto all’interno del continente asiatico, che storicamente e geograficamente costituisce la sua sfera d’influenza “naturale”, se così si può dire. In questo senso sono emblematici il costante miglioramento delle relazioni con un ex nemico come il Giappone, gli stretti rapporti con le Filippine di Duterte (paesi entrambi ufficialmente alleati degli Stati Uniti), l’aumento degli scambi tra la Cina e l’Associazione dei paesi del Sud-est asiatico, l’assertività delle forze armate di Pechino nel Mar cinese meridionale… l’obiettivo della Cina in Asia è chiaro: ridurre l’influenza degli Stati Uniti d’America, che presidiano l’area con la VII Flotta (una settantina di navi, 300 aerei e 40 mila soldati guidati da Yokosuka, in Giappone). Pechino lo sta perseguendo in maniera decisa, ma nello stesso tempo con prudenza, perché è consapevole dell’ineguagliabile potenza militare americana, e sa bene che gli Usa in Asia e nel Pacifico hanno tutte le intenzioni di rimanerci, non a caso nel 2019 hanno varato un piano intitolato “Strategia indo-pacifica”. L’Asia, dove vive la maggior parte della popolazione mondiale, 4,5 miliardi di persone, rappresenta la parte del mondo più dinamica, da un punto di vista economico e demografico.

Taiwan, Hong Kong, il Xinjiang e il Tibet sono per Pechino territori in tutto e per tutto cinesi, sui quali punta a espandere la sua autorità e a respingere le “interferenze straniere”.

Con il resto del mondo il rapporto della nuova potenza cinese è ancora tutto da scrivere, e potrebbe essere influenzato dalle tendenze protezionistiche rafforzate dalla pandemia.

La nova via della Seta (alla quale ho dedicato il secondo capitolo del libro) anche dopo il Covid resterà un piano strategico della Nuova era, con i suoi molteplici obiettivi di espansione dei commerci cinesi, di riduzione dell’eccesso di capacità produttiva nazionale, di approvvigionamento di energia necessaria allo sviluppo della Cina, di espansione del soft power cinese nei paesi in via di sviluppo.

In teoria la nuova via della Seta avrebbe come sbocco “naturale” la nascita di un nuovo ordine mondiale basato non più sul Washington consensus, che ponga la Cina formalmente alla pari con altre grandi nazioni nelle istituzioni internazionali che più contano. È un fatto però che la politica statunitense (non solo Trump) considera ormai la Cina un avversario e che dunque stanno aumentando le possibilità di scontro tra Pechino e Washington: commerciale, economico, politico, diplomatico…

Con l’Europa – con la quale ha un rapporto definito di “partnership strategica” – la Cina vorrebbe mantenere buoni rapporti economici, commerciali e politici. Ma sarà difficile, perché i prodotti e i servizi “made in China” stanno diventando sempre più concorrenziali: la Cina si sta avvicinando ed entrambi i blocchi difficilmente continueranno ad aprirsi l’uno all’altro, più facile che avvenga il contrario. E, politicamente, è improbabile che l’Europa migliori ulteriormente le relazioni con questa Cina sempre più autoritaria, mentre continuerà – con ogni probabilità – a rimanere una fedele alleata degli Usa.

In che modo la tecnologia costituisce parte integrante dei piani cinesi per il futuro?
Per tutti i paesi lo sviluppo tecnologico rappresenta prima di tutto una precondizione per la crescita in ambito economico e militare. La Cina punta a far compiere alla sua manifattura un grande balzo in avanti – dalla classica catena di montaggio simbolo dell’industria 2.0 a quella 4.0, avendo però saltato la fase intermedia, caratterizzata dall’impiego di automazione, computer ed elettronica negli stabilimenti, quell’industria 3.0 sperimentata dai paesi avanzati a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Per portare avanti questo progetto (dettagliato nel piano governativo “Made in China 2025”) serviranno investimenti colossali e la capacità di distribuire correttamente le risorse nell’intelligenza artificiale, nell’internet delle cose (IoT) e negli altri settori che determineranno come in futuro produrremo merci e faremo la guerra.

Tuttavia in ambito tecnologico la Cina insegue ancora gli Stati Uniti e le economie avanzate, perché è tuttora indietro in quelle che vengono definite “componenti chiave”. L’esempio più noto è rappresentato dai microprocessori, di cui per molte produzioni – dagli smartphone più avanzati ai macchinari industriali e altre ancora – la Cina si è finora rifornita dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti. Più la qualità della manifattura cinese Cina si avvicinerà a quella dei paesi avanzati, meno questi ultimi saranno disposti a fornire queste “componenti chiave” a una concorrente. Posta di fronte all’alternativa tra rimanere indietro e fare da sola, la Cina ha scommesso sulla cosiddetta innovazione autoctona (zìzhŭ chuàngxīn). Negli ultimi anni il Paese ha puntato sullo sviluppo di campioni tecnologici nazionali, ha investito massicciamente in ricerca e sviluppo (R&D), puntato su laureati e dottorati STEM, cioè nelle materie scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche.

La tecnologia per il Partito rappresenta anche un formidabile strumento di mantenimento della stabilità sociale (wéiwěn): i supercomputer, le telecamere per il riconoscimento facciale, l’internet ultra veloce gli hanno permesso di mettere in piedi l’apparato di sorveglianza statale più imponente e sofisticato della storia dell’umanità (che ho analizzato nel sesto capitolo del libro).

È su questo impiego della tecnologia che ha fatto leva l’amministrazione Trump per boicottare colossi industriali come Hikvision, puntando l’indice sul ruolo di quest’ultima nella fornitura di strumenti di controllo della popolazione musulmana nella regione del Xinjiang.

In che modo la questione ambientale è ormai all’ordine del giorno anche in Cina?
Negli ultimi decenni i cinesi hanno vissuto gli stessi problemi che si sono manifestati nell’Ottocento e nel Novecento nei paesi che si sono industrializzati per primi: inquinamento atmosferico, delle acque e dei suoli. La dimensione e la rapidità incontrollata dell’industrializzazione della Cina, e l’impennata dei consumi della sua gigantesca classe media (si pensi ad esempio alle plastiche, che si diffondono nei mari del pianeta soprattutto a partire dai fiumi che sfociano nel Pacifico occidentale) hanno reso però “eccezionale” la catastrofe ambientale cinese. In effetti la leadership di Pechino l’ha riconosciuta come un fattore di crisi che minaccia lo stesso governo del Partito unico, perché in tanti casi la disaffezione nei confronti del sistema si è manifestata attraverso proteste ambientaliste o – come ho raccontato nel settimo capitolo – attraverso vere e proprie rivolte sociali innescate da problemi ambientali.

Negli ultimi anni, la Cina sta provando a invertire la rotta sia creando una consapevolezza popolare della centralità della questione ambientale, sia con investimenti colossali nell’eolico, nel fotovoltaico (e nel nucleare), ma anche grazie a una rete di trasporti pubblici ubiqua e iper-efficiente che disincentiva l’uso dell’auto privata, mentre per quanto riguarda moto e ciclomotori… da una decina d’anni in Cina sono spariti i motori a scoppio, soppiantati da quelli elettrici.

Quella della tutela dell’ambiente resta una questione centrale: un paese che ha scelto di puntare sulla (nuova) manifattura è destinato a rimanere una potenza industriale, in quanto tale inquinante. Tuttavia la “svolta verde” della Cina è innegabile e continuerà ad avere conseguenze positive sull’intero pianeta: il gigante manifatturiero asiatico ha iniziato a inquinare molto meno che in passato e continuerà a ricercare soluzioni innovative per rispondere ai problemi del suo ecosistema particolarmente fragile.

Si tratta di passi avanti giganteschi, paragonabili a quelli compiuti nella lotta alla povertà, considerando che, quando Xi Jinping arrivò al potere, gli standard nazionali di protezione ambientale in molti casi non erano aggiornati da oltre tre decenni, che la produzione industriale era caratterizzata da colossali sprechi energetici e che molte aziende – soprattutto nelle aree periferiche – non erano al corrente delle relative norme, che del resto i funzionari locali non avevano alcun interesse a far rispettare, dal momento che l’imperativo assoluto dettato da Pechino era quello della crescita economica.

Quale futuro, a Suo avviso, per la Repubblica popolare?
Dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, chi si sarebbe sognato di accostare le parole “futuro” e “Repubblica popolare”? E, invece – con tutte le sue contraddizioni e contrariamente a noi europei, che abbiamo lo sguardo spesso rivolto al passato – la Repubblica popolare cinese è decisamente proiettata in avanti, oltre il 2049 (quando ricorrerà il centenario della sua fondazione), secondo i grandiosi progetti di Xi Jinping. Si tratta però di un futuro pieno d’incognite, di nuove opportunità ma anche pericoli… e non potrebbe essere altrimenti, dato l’impatto dirompente dell’ascesa della Cina sullo scenario globale. Quanto potere saranno disposti a condividere con la Cina gli Stati Uniti, nei mercati e nelle istituzioni internazionali? La guerra commerciale, il boicottaggio contro Huawei e le terribili accuse di Trump alla Cina sul coronavirus ci dicono che il futuro è già cominciato ed è un futuro di competizione: economica, e tra sistemi politici e di valori.

Michelangelo Cocco è giornalista professionista, analista politico e cofondatore del Centro studi sulla Cina contemporanea (www.cscc.it). Già corrispondente da Pechino per “il manifesto”, scrive di Cina per “Il Messaggero”.

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