
Manzoni e Caravaggio è un lavoro intrapreso da più di dieci anni, in particolare da quando, nel 2006, mi sono imbattuta nella curiosa coincidenza tra il nome dei genitori di Michelangelo Merisi, Fermo (Merisi) e Lucia (Aratori), e il titolo usato da Ermes Visconti per riferirsi alla prima stesura del romanzo scritto dall’amico Alessandro. In realtà, come spiega il magnifico libro di Giacomo Berra, Il Giovane Caravaggio In Lombardia (2005), il nome del padre del pittore è stato reso noto solo recentemente, e dunque, malgrado molti fili allestiscano una suggestiva tela di rimandi, quel primo spunto non poteva essere usato come una prova certa. Ma è stata la scintilla – dopo il commento ai Promessi sposi curato assieme a Luperini (1998), e la monografia Il genere proscritto. Manzoni e la scelta del romanzo (2005) – per accendere un lavoro di studio manzoniano e caravaggesco portato avanti a lungo.
Nel Suo libro Lei presenta un’idea di realismo che arriva da molto più lontano rispetto a quello ottocentesco: che nesso esiste tra illusionismo barocco e realismo cristiano?
Illusionismo e realismo, che è un po’ come dire il senso della forma come artificio e la scelta del «vero come soggetto», a prima vista non sembrano poter stare assieme. Eppure, è anche e proprio da questa tensione che si sprigiona la grandezza della visione caravaggesca e manzoniana. Per provare a spiegare questo nesso userò una delle opere più importanti di Caravaggio, vale a dire la Morte della Vergine, realizzata tra il 1604 e il 1606, che oggi si può ammirare al Louvre. Mai, e i contemporanei di Caravaggio se ne accorsero subito, la Madonna era stata ritratta in maniera così vera: con quel ventre gonfio, come un’anonima mendicante trovata morta, forse annegata, forse persino incinta, e portata all’obitorio dei poveri, con le gambe scoperte, il braccio abbandonato. Tant’è vero che l’opera fu proscritta, e rimossa dalla sede a cui era destinata (la Chiesa di Santa Maria della Scala, a Roma). D’altra parte, e simultaneamente, il quadro caravaggesco, oltre a fissare un punto di non ritorno in senso realistico, è anche – ed è qui che arriva il paradosso creativo – uno straordinario esempio di arte illusionistica: con quel drappo rosso nella parte superiore, quasi fossimo in un quadro dentro il quadro; con quel triangolo di luce che precipita sulla scena, da sinistra, spingendo gli apostoli verso il corpo della Madonna, e molti altri espedienti formali e compositivi che costruiscono la rappresentazione. Ecco: l’autore de I promessi sposi ha fatto qualcosa di simile, raccontandoci le oscure esistenze di creature vili, «gente di nessuno» come la chiama don Rodrigo, ma componendo questo racconto, così realistico, dentro un grande teatro di illusionismi: quello che la grafia e la scrittura secentesca dell’Anonimo, sulla soglia iniziale del romanzo, ci chiede subito di percepire, anzitutto visivamente.
In che modo I Promessi Sposi si caratterizza come romanzo storico?
Le risposte principali a tale interrogativo sono almeno tre, e ciascuna coinvolge l’ambito delle altre. Intanto possiamo fissarle sinteticamente. I Promessi Sposi è un romanzo storico anzitutto nel significato indicato da Manzoni stesso nel trattato dedicato a questo genere letterario, vale a dire: perché è un «componimento misto di storia e d’invenzione». D’altra parte, I Promessi Sposi è un romanzo storico anche perché il narratore, oltre che da artefice di un racconto, si comporta da storiografo. Il corpus romanzesco non si limita a contenere la storia, ma la giudica, la commenta, la schiera di nuovo in battaglia. Infine, una terza importante ragione per cui Manzoni merita un posto di primo piano nella storia del romanzo storico europeo è quella che cercheremo di affrontare meglio. I Promessi Sposi è un grande romanzo storico per la sua capacità di rappresentare e farci vedere, capire, il tempo umano come tempo storico. Vale a dire come tempo in cui le moltitudini fanno esperienza, per come possono esserne capaci, del vento della storia, prima di esserne travolte e cancellate: in un destino di transitorietà e di morte che assume, dentro il romanzo, ora tinte macabre e inquietanti (I promessi sposi è uno dei romanzi più macabri mai scritti), ora effetti drammatici di ombra e di realtà che preparano l’arrivo della luce.
Quali reciproche implicazioni si evidenziano dall’accostamento di Manzoni a Caravaggio?
Quelle già accennate nelle risposte precedenti, in parte; e quelle legate a un modo di intendere e studiare il rapporto e lo scambio tra parola e immagine in forme che non possono essere fissate una volta per tutte, perché non sono uniche, né assolute: ogni epoca ha modi propri di vedere, pensare, immaginare il mondo. La relazione forte tra parola e immagine, diversamente da quanto si tende a pensare, non è una situazione esclusiva della contemporaneità. Soprattutto in mondi non alfabetizzati, come quello, per esempio, in cui si muove Renzo Tramaglino, che è protagonista, per tutto il romanzo, di un’esperienza continua di spaesamento linguistico e visuale, le immagini sono state un riferimento culturale, simbolico, materiale, cruciale. Mentre le parole, dentro quel mondo, servivano, più che a pensare, a vedere e far vedere la realtà. La definizione che ho coniato dei Promessi sposi come “romanzo per gli occhi” mette a confronto Manzoni e Caravaggio proprio per riconoscere alla scrittura manzoniana da un lato la capacità di “farci vedere” il mondo narrato; dall’altro, la capacità di farci vivere dentro un mondo che raccontava sé stesso anzitutto attraverso le immagini.