
Filippo Pigafetta, probabilmente, non aveva neanche messo piede in Angola (che allora faceva parte del grande Regno del Congo), ma organizzò e commentò gli appunti di viaggio di un esploratore portoghese, Duarte Lopez. Il motivo della pubblicazione, verosimilmente sollecitata dallo stesso Papa Sisto V, era di rendere nota al pubblico la rapida espansione della religione cattolica nei territori del Regno del Congo, dove operavano con ottimi risultati già in quel tempo coraggiosi missionari ed evangelizzatori, che avevano accompagnato i primi colonizzatori del Portogallo.
Pigafetta si sofferma diffusamente nel suo libro sulla prima espansione del cattolicesimo in quelle terre, dove alcuni Principi locali si stavano convertendo al cristianesimo, con cerimonie particolarmente sontuose e solenni. Ma la diffusione della religione cattolica nei territori che oggi fanno parte dell’Angola fu anche molto difficoltosa, piena di problemi di ogni genere, e caratterizzata da numerose vittime fra i missionari, fra cui nei decenni successivi aumentarono in maniera considerevole i frati, per lo più francescani, di provenienza italiana.
Filippo Pigafetta ha anche lasciato le prime descrizioni di come navigare verso il Regno del Congo, nonché circa i costumi e le abitudini di quelle popolazioni indigene; si può quindi affermare che la Relazione sul Regno del Congo e contrade circumvicine abbia rappresentato il primo testo di riferimento, e la prima “fotografia”, sui territori dell’Angola e sugli abitanti di quella parte dell’Africa.
Le vicende, spesso molto drammatiche, di questa prima evangelizzazione furono poi anche riportate dal Padre Francescano Gian Antonio Cavazzi, a sua volta un missionario, nella sua Istorica Descrizione dei tre Regni di Congo, Matamba et Angola (1687), la quale si sofferma sulle penose vicissitudini dei primi predicatori del cristianesimo nelle terre angolane, descrivendo dettagli della loro vita quotidiana emotivamente molto intensi.
Sul fronte dei contatti di origine angolana verso l’Europa e l’Italia, particolarmente curiosa (ma anche tragica nel suo epilogo) fu la vicenda del Principe Antonio Manuel Ne Vunda, detto il Nigrita per il colore scuro della sua pelle, il quale fu inviato nel 1604 come Ambasciatore del Regno del Congo presso il Pontefice Clemente VIII, per rafforzare le relazioni fra il Regno (di cui faceva parte l’odierno Angola) e lo Stato Pontificio. Ma il povero Nigrita ebbe una serie incredibile di disavventure nelle sue tappe di avvicinamento a Roma, prima nella lunga navigazione, poi in Portogallo, successivamente in Spagna ed infine nello stesso territorio italiano, che arrivò a destinazione stremato solo nel gennaio del 1607, tre anni dopo la sua partenza. Le sue condizioni di salute erano talmente pregiudicate, che appena giunto presso la Corte del Papa, divenuto nel frattempo Paolo V, morì nel giro di 24 ore; cosicché le celebrazioni che erano state organizzate in onore del suo arrivo si trasformarono in quelle per il suo funerale. Oggi un busto in marmo del Nigrita è esposto nella Basilica di Santa Maria Maggiore, a Roma.
Nel Suo libro Ella descrive alcune figure di rilievo nella storia dei rapporti tra i due popoli: quali sono queste figure e perché sono importanti?
Oltre alle figure storiche appena citate, quelle più importanti, ma anche in un certo senso quasi anonime, furono quelle dei missionari francescani e di altri ordini religiosi, che con grande coraggio ed abnegazione sfidarono i rischi del viaggio in Angola, per predicare il cristianesimo alle popolazioni indigene. L’Angola fu chiamato a quel tempo “il cimitero dei Cappuccini” a causa del gran numero di predicatori, molti dei quali italiani, che vi trovarono la morte, nel tentativo di convertire al cattolicesimo quei popoli, abituati a culti animisti. Spesso le popolazioni locali, dopo una prima fase di interesse e curiosità, manifestarono grande ostilità verso quegli stranieri stranamente vestiti con un saio, che parlavano lingue per loro incomprensibili, bruciavano i loro idoli tradizionali, e proponevano una fede del tutto diversa, in un solo Dio, da celebrare con cerimonie estranee alla loro originaria cultura.
Altri missionari persero poi la vita per le malattie, fra cui la malaria, o per l’aggressione di animali feroci, o semplicemente lungo la navigazione, che era molto rischiosa e incerta. Fra tali “eroi sconosciuti”, citerei di nuovo Padre Gian Antonio Cavazzi, l’autore della Istorica Descrizione, mentre in tempi più recenti mi sembra opportuno menzionare Padre Graziano Saccardo, che fece parte della nuova ondata di Cappuccini giunta in Angola intorno al 1948, il quale scrisse nel 1982 il libro “Congo ed Angola, con la storia dell’antica missione dei Cappuccini”, un altro testo fondamentale per comprendere le relazioni antiche fra i due popoli.
Sempre nel Suo libro, Ella racconta un episodio poco noto della storia dei paesi, relativo a esuli napoletani in terra angolana.
É uno degli episodi più curiosi e sorprendenti dei legami fra Italia e Angola. Nei primi due decenni del XIX secolo un piccolo flusso di deportati dal Regno delle Due Sicilie, originari soprattutto da Napoli, arrivarono in Angola. Si trattava di “teste calde”, appartenenti spesso alla Carboneria, che avevano partecipato alle manifestazioni popolari antiborboniche, e che con il ritorno della Monarchia e di Ferdinando I di Borbone furono espulsi per dare un segnale di ripristino dell’ordine nel Regno.
Erano destinati originariamente in Brasile, ma Don Joao VI del Portogallo suggerì invece a Ferdinando I di spedire i circa 300 deportati in Angola, dove individui con intenzioni rivoluzionarie non avrebbero potuto recare alcun danno alle Monarchie restaurate.
Due Fregate dell’Armata siciliana partirono il 10 marzo del 1820 da Napoli, alla volta di Lisbona, e dopo una lunga sosta in Portogallo, i deportati furono imbarcati verso l’Angola dove giunsero nel marzo del 1821.
Questi esuli napoletani abbandonarono presto le velleità rivoluzionarie e cercarono di trarre il meglio da ciò che il destino aveva loro riservato. Presero una o più mogli locali, fecero figli, crearono quindi ampie famiglie, a cui diedero i loro cognomi di origine, come De Palma, Amato, Spadafora, Fanzoni, etc. Alcuni conobbero anche una certa agiatezza economica, altri vissero in condizioni più misere, ma tutti cercarono in qualche maniera di integrarsi nelle nuove terre angolane.
Ancora oggi esistono in Angola i discendenti di tali famiglie, spesso del tutto inconsapevoli delle loro origini partenopee, anche perché i cognomi sono stati alterati dalla pronuncia portoghese. Ho tuttavia conosciuto personalmente alcune di queste famiglie, ed in particolare i Fanzoni, il cui cognome oggi si scrive Fançony, con cui abbiamo ricostruito almeno in parte la storia degli antenati, che risale appunto ai deportati del 1821.
Si tratta peraltro di una storia che pochi in Italia conoscono, e che meritava di essere raccontata nelle pagine del mio libro.
Quali vicende hanno caratterizzato la storia dei rapporti diplomatici tra il nostro Paese e la Repubblica dell’Angola?
Negli anni ’70 l’Italia seguì con molta attenzione le vicende della decolonizzazione angolana dal Portogallo, e subito dopo quelle della lunga guerra civile durata circa 40 anni. Questa speciale attenzione trovò spazio sia negli schieramenti politici della sinistra italiana (specialmente PSI e PCI), sia in quelli della Democrazia Cristiana, ispirata a sua volta dalla Enciclica Populorum Progressio di Paolo VI del 1967.
Anche i giovani dei movimenti studenteschi, di entrambe le matrici cattolica e socialista, si appassionarono molto alle vicende angolane, e questa particolare, diffusa sensibilità portò poi l’Italia ad essere uno dei primi Paesi a riconoscere l’indipendenza dell’Angola, ciò che facemmo nel febbraio del 1976. A quel tempo erano anche molto stretti i rapporti di alcune nostre personalità politiche con il primo Presidente della Repubblica dell’Angola, Agostinho Neto, un intellettuale noto anche per le sue poesie, pubblicate nel nostro Paese.
Negli anni della guerra civile fra MPLA ed UNITA, che rifletteva non solo i dissidi interni, ma anche gli interessi dei blocchi contrapposti al tempo della Guerra Fredda, l’Italia si fece artefice di importanti ed estese iniziative di cooperazione, al punto che nel 1989 l’Angola fu considerato per noi un Paese di prima priorità.
Vi sono state nel tempo importanti visite politiche, culminate di recente con quella dell’ex Presidente del Consiglio Renzi a Luanda, nel 2014, a testimonianza della rilevanza ancora oggi riservata all’Angola, che tiene conto anche delle nuove opportunità economiche e dell’importanza del Paese fra i produttori di petrolio e gas.
Qual è lo stato della cooperazione tra Italia e Angola?
Oggi l’Angola, proprio per la sua sensibile crescita economica, non rientra più fra i Paesi prioritari della nostra cooperazione allo sviluppo, anche se singole iniziative mirate vengono ancora proseguite nel contesto dei rapporti complessivi fra Luanda e Roma. Predominante appare oggi il ruolo della partnership economica, con il varo di progetti congiunti nei principali settori dell’economia angolana, fra cui senza dubbio le fonti energetiche.
Va comunque considerato che grazie alle radicate tradizioni storiche, operano ancora oggi in Angola varie ONG private, e numerosi operatori economici, professori universitari, religiosi etc., a conferma del fatto che sul Ponte durato quattro secoli si cammina ancora con fiducia.
L’Angola è uno dei paesi africani a maggior tasso di crescita: quale futuro per lo stato africano?
Anche se oggi non rientra più fra le mie competenze di Capo Missione (sono Ambasciatore in Etiopia), direi che l’Angola è ancora fra i Paesi trainanti del Continente, anche se patisce da qualche anno la forte riduzione del prezzo del petrolio, che incide pesantemente sul budget nazionale. Il Governo è a conoscenza della necessità sempre più impellente di diversificare la propria economia, e sta tentando da tempo di orientare molti sforzi sull’agricoltura e sui servizi, in parallelo al petrolio, al gas e ai diamanti, i quali costituiscono ancora le ricchezze maggiori del Paese.
Giuseppe Mistretta è Ambasciatore d’Italia in Etiopia