“Un Paese da scoprire, una terra da amare. Paesaggi educativi e formazione dell’identità nazionale nella prima metà del Novecento” di Fabio Targhetta

Prof. Fabio Targhetta, Lei è autore del libro Un Paese da scoprire, una terra da amare. Paesaggi educativi e formazione dell’identità nazionale nella prima metà del Novecento edito da FrancoAngeli: quale ruolo ha ricoperto nella prima metà del Novecento il paesaggio urbano e naturale, mediato dalla cultura scolastica, nei processi di formazione dell’identità nazionale?
Un Paese da scoprire, una terra da amare. Paesaggi educativi e formazione dell’identità nazionale nella prima metà del Novecento, Fabio TarghettaDa alcuni anni il tema del paesaggio è al centro di dibattiti e ricerche: un interesse molto ampio favorito dalla natura composita del concetto di paesaggio. La sua polisemia alimenta infatti svariati campi del sapere, dall’ecologia all’urbanistica, dall’arte alla geografia, dalla geologia all’architettura, dalla sociologia all’economia. Quella legata al paesaggio è diventata una questione nodale al punto da rendere necessario più di un intervento legislativo in merito alla sua definizione e alla salvaguardia. Si pensi alla Convenzione europea del paesaggio, siglata a Firenze nel 2000, o al Codice dei Beni Culturali e del paesaggio, emanato in Italia nel gennaio 2004. Ad accomunare i due documenti, elemento che qui ci interessa particolarmente, è la sottolineatura dello stretto legame che intercorre tra paesaggio e identità: il paesaggio, per essere definito tale, deve essere un «territorio espressivo di identità». Esso dunque finisce per caricarsi di significati, aspettative, proiezioni non neutrali, piegabili anche a scopi educativi; ne deriva pertanto la possibilità di indagare l’uso politico che nel corso dei decenni le classi dirigenti hanno fatto del patrimonio paesaggistico ai fini della formazione dell’identità nazionale.

Per capire fino a che punto siano rilevanti queste tematiche e quanto pesino sul comune sentire è sufficiente leggere i giornali di questi giorni, la cui cronaca ci racconta della furia iconoclasta che si sta abbattendo su statue e monumenti ritenuti non più consoni ai valori di una società aperta, multirazziale, tollerante. Quelle statue, quei monumenti non solo concorrono a formare il paesaggio urbano, ma costituiscono anche la memoria pubblica di una comunità, con tutto il portato valoriale cui rimandano.

Non è tuttavia sufficiente l’esistenza di un paesaggio per formare l’identità nazionale; è necessaria la costruzione di una specifica narrazione che coinvolga quanti più attori possibile. E lo strumento più efficace fu riconosciuto nella scuola elementare, investita, dopo l’unità d’Italia, del delicato compito di “fare gli italiani”, chiamata cioè a farsi cinghia di trasmissione di un humus condiviso, di un ethos nazionale tutto da inventare. La scuola fu pertanto direttamene coinvolta in questo progetto di “nazionalizzazione per via paesaggistica”. Libri di testo, narrativa per ragazzi, quadri murali, atlanti, proiezioni luminose a uso didattico, cinema educativo, turismo scolastico costituirono differenti modalità per giungere a un medesimo obiettivo: far conoscere il paesaggio italiano per far amare la patria.

Non si trattò di una descrizione statica, fedele a codici descrittivi immutabili nel tempo, ma la modalità di trasmissione si adeguò alle trasformazioni in corso, sia nelle sensibilità collettive che nella realtà concreta. Il paesaggio urbano e naturale, infatti, è stato – e continua a essere – in continua evoluzione: l’istituzione di monumenti ai caduti, la diffusione di cippi e targhe commemorative, la nascita di cimiteri di guerra e parchi della rimembranza, la realizzazione di percorsi della memoria attraverso i luoghi delle patrie battaglie furono tutte modifiche al paesaggio che contribuirono in maniera significativa al rafforzamento identitario. Anche in questo caso la scuola – attraverso racconti, immagini e l’organizzazione delle gite – si fece carico di trasmettere le modifiche apportate al territorio, e con esse le ragioni e i propositi che ne avevano motivato la realizzazione.

La scelta dell’arco cronologico di riferimento è invece dettata da due considerazioni: la consapevolezza del valore del paesaggio all’interno di questi processi identitari arrivò a maturazione nel primo Novecento e venne poi portata al suo acme dal regime fascista, che se ne appropriò.

Lei ha coniato una nuova categoria interpretativa, quella dei «paesaggi educativi»: a cosa ci si riferisce con questa locuzione?
Con questa locuzione mi riferisco a paesaggi fatti oggetto di pratiche didattiche adottate in ambito scolastico e caricate di finalità identitarie. Alla formazione del paesaggio, infatti, contribuiscono non solo le esperienze dirette (quello che nel libro definisco paesaggio esperito), ma anche altri approcci mediati quali la lettura di racconti, reportage di viaggi, la visione di diapositive, quadri murali, film, documentari, etc. In questo senso, le pratiche certamente più efficaci, soprattutto in un’epoca in cui altri tipi di esperienze culturali erano in certa misura negate a una consistente fetta di popolazione, furono proprio quelle scolastiche.

I paesaggi educativi stanno quindi a indicare specifici valori, riconducibili alla bildung identitaria nazionale, attribuiti dalla cultura scolastica ad alcuni luoghi. In particolare, mi sono soffermato su tre paesaggi educativi caratterizzanti l’identità nazionale: il contesto urbano, quello rurale e, infine, la montagna. Ognuno con peculiarità proprie, sono tutti paesaggi aggregatori di emozioni capaci di suscitare, se opportunamente stimolati, sentimenti di attaccamento e orgoglio. Oltre a essere facilmente identificabili, posseggono inoltre il non indifferente pregio di risultare familiari a tutti gli italiani, i quali sono in gradi di riconoscerli come i propri paesaggi; meglio, come i paesaggi tipici della propria patria, sia dal punto di vista fisico (la conformazione geografica del territorio nazionale), sia soprattutto dal punto di vista storico-culturale.

Il ruolo del paesaggio urbano nei processi identitari è molto significativo e si può cogliere nella disseminazione di monumenti, lapidi, iscrizioni, nella scelta della toponomastica, nella decisione di caricare di intenti ideologici specifici spazi del tessuto cittadino. La diffusione attraverso la cultura scolastica dei simboli di una determinata città, architetture o monumenti che siano, ne fa altrettanti esempi di paesaggi educativi, veri e propri iconemi volti a rafforzare il senso di radicamento. La monumentalizzazione dei centri abitati, l’erezione di edifici dall’alto valore simbolico, al di là di quello funzionale, la profonda ristrutturazione urbana voluta dal fascismo, a cominciare da Roma, sono tutti elementi che hanno concorso alla creazione di paesaggi urbani educativi. Non fu estraneo a questo processo anche il linguistic landscape, vale a dire la scena nella quale lo spazio pubblico è simbolicamente costruito attraverso la parola scritta. Essa rappresenta un indicatore importante dell’autorità, dell’influenza e delle capacità di penetrazione nella narrazione pubblica delle varie comunità linguistiche in un determinato territorio. Nei capitoli dedicati a questa approccio semiotico alla città, del tutto inedito nelle ricerche storico-educative, mi sono avvalso dei principali studi sul paesaggio linguistico germinati negli ultimi anni intorno al tema del multilinguismo e in particolare della sociolinguistica urbana.

Il paesaggio educativo rurale, invece, attraverso una descrizione stereotipata e monotematica, totalmente slegata dalla realtà contadina, è stato accomunato alla celebrazione del valore etico della frugalità, dell’abnegazione, della sottomissione, della salubrità. Il contributo dato alla formazione dell’identità nazionale va colto in controluce in questa rappresentazione edulcorata del contesto contadino, finalizzata a restituire un’immagine uniforme – e falsificata – dei tanti paesaggi regionali legati alla campagna, ognuno con proprie caratteristiche quanto a colture, abitazioni, animali, estensione del terreno coltivato, tecniche di coltivazione: tutto indifferenziato per semplicità di sintesi in un paesaggio idilliaco nel quale avrebbero dovuto identificarsi gli italiani.

Il paesaggio rurale negli anni tra le due guerre non fu estraneo a processi di modernizzazione, solcato da nuove arterie di comunicazione, sia stradale che ferroviaria, e popolato dalla nascita di nuovi paesi (Sabaudia, Aprilia, Littoria, Carbonia, etc.). La fondazione di borgate rappresenta forse l’acme della ristrutturazione del paesaggio non urbano in età fascista, un paesaggio che divenne educativo nel momento in cui fu celebrato con forza dalla cultura scolastica del tempo. Una trasformazione susseguente, oltre che allo sfruttamento delle risorse naturali, soprattutto a uno dei progetti più ambiziosi del regime: la bonifica integrale.

Non fu questa l’unico intervento fascista volto a modificare profondamente il paesaggio naturale. La montagna fu l’altra grande protagonista: lo sfruttamento del “carbone bianco”, com’era definita l’acqua, e la susseguente creazione di dighe, bacini idrici, centrali idroelettriche convertirono parte del paesaggio montano in una fonte di guadagni economici. In nome del progresso e dell’elettrificazione del Paese, veri moloch di quegli anni su cui il regime investì molto in termini di propaganda, il processo non rallentò neppure di fronte alle disgrazie dovute al cedimento di dighe, agli incidenti sul lavoro, all’allagamento di interi paesi per fare spazio ai bacini artificiali, allo stravolgimento ambientale.

La montagna visse così la definitiva conversione che nel giro di pochi decenni la portò dall’essere ancora considerata un luogo inospitale e selvaggio al diventare, nell’ordine: laboratorio all’aperto per ricerche scientifiche; immenso sanatorio destinato a curare o a prevenire le malattie polmonari; palestra di coraggio e tenacia; teatro di una guerra, fucina di atti eroici e sacrifici supremi; immenso sacrario, disseminato di cimiteri di guerra, cippi, memoriali, monumenti funebri e, infine, motore dello sviluppo di un’intera nazione.

Con quali modalità i paesaggi educativi agirono nell’immaginario collettivo della prima metà del Novecento?
I paesaggi educativi agirono nell’immaginario collettivo secondo tre direttrici, ognuna delle quali operò su diversi livelli dell’apprendimento, con incisività differente: la lettura di un testo, la visione di immagini e, infine, la conoscenza diretta. Volendo semplificare, potremmo parlare di paesaggio raccontato, di paesaggio rappresentato graficamente e di paesaggio esperito. Si tratta di dimensioni che si intrecciano di continuo e non vanno perciò intese come suddivisioni nette che delimitano il perimetro di territori rigidamente separati.

Parliamo di paesaggio raccontato in riferimento ai brani contenuti nei libri di lettura per la scuola elementare: è il livello base, potremmo dire, quello razionale e capace di attivare le corde delle emozioni solo in misura minore e in proporzione alla capacità del singolo autore di adottare uno stile particolarmente retorico.

A un livello più profondo agì il paesaggio educativo rappresentato graficamente, ossia riprodotto su un supporto di vario genere – che può essere cartaceo, vitreo, di celluloide, etc. – e finalizzato a una fruizione visiva. Si tratta a volte di figure a supporto di un testo scritto; altre, invece, di immagini senza alcuna didascalia, lasciate alla libera interpretazione di chi le visualizza oppure mediate dalla parola del docente. Proprio perché potenzialmente questo genere di paesaggio non aveva la necessità di intermediari, data anche la diffusione in ambito extrascolastico, la sua capacità di penetrazione nell’immaginario era data dall’immediatezza del messaggio veicolato dalle illustrazioni, secondo l’antico adagio secondo il quale le immagini sarebbero la principale fonte di informazione delle persone analfabete.

L’ultima modalità attraverso cui ho inteso indagare il ruolo dei paesaggi educativi nei processi di formazione dell’identità nazionale è quella che prevede l’esperienza diretta. Il cosiddetto paesaggio esperito ha l’indubbio vantaggio, sul piano dell’efficacia della ricezione del messaggio da parte dei destinatari, di non essere una rappresentazione, ma di essere reale e in quanto tale percepito dallo spettatore. I paesaggi esperiti presi in considerazione in queste pagine sono stati scelti per la loro profonda valenza identitaria (possono essere i luoghi della Grande Guerra, oppure quelli teatro delle battaglie risorgimentali, le grandi architetture identitarie a carattere funerario, o ancora i luoghi simbolo della nascita e della successiva affermazione del regime fascista), rafforzata da una narrazione precisa, tesa a investire ulteriormente quei paesaggi di intenti nazionalistici.

Il turismo scolastico, i viaggi organizzati, i pellegrinaggi patriottici, i treni popolari, le colonie permisero a un numero crescente di italiani di approfondire la conoscenza di un territorio nazionale che andava trasformandosi, grazie al portato simbolico e al corredo valoriale di cui era caricato, in paesaggio educativo.

A quali fonti ha attinto per il Suo lavoro – un tema assolutamente originale, non ancora trattato in Italia e all’estero?
Le fonti cui ho attinto sono state molteplici. L’efficacia dei paesaggi educativi nei processi di rafforzamento del senso di appartenenza derivò infatti dal ricorso a fonti differenti, spesso corrispondenti a modalità didattiche plurime, non di rado agenti contemporaneamente. Alle tre modalità in cui agirono i paesaggi educativi e di cui ho parlato nella precedente risposta corrispondono fonti documentarie specifiche ed eterogenee: dai manuali d’istruzione ai sussidi, dalla normativa alle attività di associazioni che operarono a stretto contatto con la scuola (Touring club italiano, Club alpino italiano), dal cinema educativo alle copertine dei quaderni.

Descrizioni geografiche, lettere esemplari, racconti, resoconti di viaggi pubblicati nei manualetti per la scuola elementare furono integrati dalle immagini (fotografie e disegni) a corredo presenti nei libri, così come dalle copertine di quaderni, dagli albi illustrati a uso didattico, dai cartelloni murali.  All’interno di quest’ultima categoria di fonti, riconducibili alla pedagogia per immagini, ho riservato uno spazio più rilevante all’analisi delle carte geografiche, formidabile strumento di rappresentazione del potere, e alle proiezioni, fisse e in movimento (diapositive e film scolastici), che si rivelarono straordinari canali di diffusione degli stereotipi paesaggistici. La stereotipizzazione paesaggistica comportò, quale effetto immediato nello spettatore, prima della presa di coscienza del ricco patrimonio nazionale, la messa in relazione dell’idea di una città con l’immagine con cui era rappresentata secondo un meccanismo di associazione definito di analogia topologica: il Duomo a Milano, la Mole antonelliana a Torino, Piazza San Marco a Venezia, la torre pendente a Pisa, il golfo col pino in primo piano a Napoli (uno dei pochissimi topoi vedutistici e non monumentali), etc. L’istruzione elementare, propensa a semplificare il messaggio per poterlo rendere accessibile a un pubblico molto giovane e dalle ridotte capacità critiche, portò all’acme questo meccanismo associativo, sfruttandone le potenzialità in termini di fissazione dello stereotipo. Questi luoghi comuni paesaggistici si diffusero fino a innestarsi in tutti i canoni narrativi, dal semplice libro di lettura alla guida turistica e alla pellicola cinematografica.

Fabio Targhetta è professore associato presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo dell’Università degli Studi di Macerata, dove insegna Storia delle istituzioni educative. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente volti a indagare la storia dell’editoria scolastica, il ruolo dell’educazione nella formazione dell’immaginario e la storia della cultura materiale della scuola, temi cui ha dedicato numerosi saggi, monografie e articoli.

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