“Un mondo artificiale. Le sfide dell’uomo contemporaneo” di Antonio Marazzi

Prof. Antonio Marazzi, Lei è autore del libro Un mondo artificiale. Le sfide dell’uomo contemporaneo, edito da Carocci: quali riflessioni sollevano, dal punto di vista antropologico, le sfide che l’uomo contemporaneo deve affrontare?
Un mondo artificiale. Le sfide dell'uomo contemporaneo, Antonio MarazziLa prima riflessione, dal punto di vista antropologico, riguarda ciò che si intende per uomo contemporaneo. La prospettiva è abitualmente focalizzata sulla nostra stessa condizione di vita all’interno della società in cui viviamo e, per estensione, di quella parte del mondo che comprende le società economicamente e tecnologicamente più sviluppate, considerate per ciò stesso più avanzate. Del resto del mondo si colgono per lo più dati numerici di estrema sintesi, quali ad esempio indici demografici crescenti di cui allarmarsi.

Ma la connessione globale che è venuta realizzandosi con estrema rapidità non consente più di considerare la nostra condizione umana separata da quella di altre popolazioni. È l’uomo contemporaneo nella sua totalità che si trova ad affrontare problemi su scala globale, quali sono quelli ecologici, il preoccupante riscaldamento climatico e le conseguenti carestie, epidemie, movimenti migratori e tutti quei fenomeni che stanno caratterizzando la presente era geologica denominata perciò l’Antropocene.

L’intera popolazione mondiale, in diverso grado, ne è coinvolta. Ma la voce dei gruppi più isolati, che sono anche i più indifesi, rimane inascoltata. Dal canto suo, l’uomo occidentale, fiducioso nelle sue conquiste nel campo della scienza e della tecnologia, sembra voler fare da sé. Ancora una volta, dopo tante vicissitudini, le popolazioni più isolate rischiano di essere le più esposte ai pericoli dell’Antropocene.

L’antropologia, per sua tradizione di ricerca vicina alle popolazioni più isolate dal mondo occidentale, intende valorizzare il contributo di quei saperi, il prezioso rapporto con il mondo naturale, depositi di antiche conoscenze. Se vogliamo salvare l’umanità, dobbiamo salvarci tutti.

Quali sono i rischi legati ai processi di globalizzazione linguistica e culturale in atto?
Dopo un lungo processo evolutivo in territorio africano, la nostra specie si è progressivamente diffusa, fino a occupare ogni angolo della Terra. Si sono avute diverse ondate e contatti, come quelli probabili tra Nenderthaliani e Sapiens, migrazioni e vicissitudini varie, ma progressivamente si affermarono insediamenti stabili e con essi modi di vita specifici e forme culturali diverse. Questa varietà rappresenta il tratto più caratteristico e il patrimonio più prezioso della nostra specie, indispensabile per l’adattamento all’interno delle varie nicchie ecologiche abitate. Le lingue sono l’espressione più viva di questa varietà e la scomparsa attuale di alcuni idiomi a tradizione orale è un aspetto drammatico del processo di globalizzazione in corso. Ogni lingua che scompare è un mondo che scompare, è stato detto.

Oggi ci troviamo di fronte a un fenomeno di portata globale. La rete internet ha collegato gli uomini di ogni parte del pianeta e, azzerate le distanze, le varietà culturali sono messe a rischio. Quella che è una straordinaria opportunità per la comunicazione tra gli uomini di ogni parte del pianeta può portare alla perdita o almeno all’offuscamento delle identità culturali custodite dagli idiomi parlati nelle varie società. Fino ad adombrare il pericolo di una nuova forma di colonizzazione, un neocolonialismo digitale all’insegna di un inglese standard che, se da una parte è condizione per entrare a fare parte della comunità mondiale, dall’altra rischia di cancellare il senso profondo delle parole. Attraverso l’appiattimento linguistico si colpisce il patrimonio culturale dell’umanità. Quel linguaggio veicolato da internet esprime spesso quello che il filosofo Wittgenstein definì un sapere inesatto.

Adottando per comunicare tra loro quell’inglese standard ad uso internet che già Aldous Huxley aveva preconizzato chiamandolo Globish, i membri di culture diverse possono intendere cose diverse, magari anche solo leggermente diverse. Sfugge così il senso profondo delle cose depositato negli idiomi locali. Nel mio libro faccio l’esempio della parola ‘consciousness’. Siamo sicuri che, comunicando tra loro, una coreana, un americano e un italiano intendano la stessa cosa? Qualcosa va perduto nello stesso tempo in cui qualcosa viene acquisito, grazie alla comunicazione interculturale. Non è facile trovare un equilibrio.

In che modo intelligenza artificiale e mondo robotico rappresentano una rischiosa competizione con la mente umana?
Secondo una prospettiva strutturalista, l’uomo si troverebbe ad agire all’interno di due dimensioni tra loro opposte: natura e cultura. La prima, retta da leggi fisse, non modificabili dall’intervento umano, la seconda soggetta a leggi arbitrarie e mutevoli, a governo delle società. Ma risulta con sempre maggiore evidenza come oggi, nell’Antropocene, tale distinzione non sia possibile. Sempre più, la crescente presenza delle popolazioni con le loro attività nei territori abitati mostra come gli interventi umani possano modificare fino a stravolgere i ritmi naturali e le leggi che li governano.

Natura e cultura sono indissociabili, d’altra parte, anche nella stessa condizione umana, se si consideri la cultura come l’espressione più caratterizzante della natura umana.

Ma vi è un terzo protagonista entrato sulla scena: l’artificiale.

Se dobbiamo considerare la cultura come espressione della natura umana, a sua volta l’artificiale è espressione della cultura umana. Una presenza recente nella società umana, una convivenza non sempre accolta senza problemi.

La figura emblematica dell’artificiale è il robot androide, la cui inquietante rassomiglianza con la figura umana ha creato al suo apparire qualche difficoltà ad accettare la sua collaborazione nelle attività sociali, salvo poi riconoscerne l’utilità.

Ma è la cosiddetta intelligenza artificiale a rappresentare una sfida, stimolante quanto inquietante, alla stessa mente umana.

Essenzialmente, si tratta di un sistema computazionale, in grado di compiere un numero elevatissimo di operazioni in un tempo minimo, a funzionamento digitale (0/1), con una sola possibilità di scelta, quindi, a ogni passaggio, per arrivare all’esecuzione di un compito o alla soluzione di un problema.

L’affidabilità e soprattutto la vertiginosa rapidità di esecuzione ha reso sempre più attraente questo strumento per affrontare calcoli complessi e risolvere problemi, di fronte alla crescente complessità delle società moderne sempre più tecnologicamente avanzate e quindi esigenti una guida rapida e ‘intellligente’, cioè adatta al compito che le viene affidato.

La rapida evoluzione di questi sistemi ha portato verso una crescente efficienza e in particolare verso una autonomia e capacità di apprendere da situazioni esterne, adattandosi e modificandosi quando necessario. Stimolati dai progressi in questa direzione, progettisti e operatori nel campo della cosiddetta intelligenza artificiale prevedono un futuro prossimo in cui essa supererà la mente umana.

Senza abbandonarsi alle seduzioni della fantascienza, va osservato che l’artificiale è un prodotto della cultura umana, come si diceva all’inizio. Ma soprattutto va osservato che il modello del cervello umano è inapplicabile a una macchina, come i pionieri della cibernetica come Norbert Wiener avevano compreso. I bit della elettronica non sono simili alle sinapsi cerebrali e soprattutto non ne possono imitare con la programmazione l’imprevedibile attività.

Basterebbe pensare alla capacità del cervello umano di avere creato un suo analogo artificiale. Creatività, dubbio, ipotesi, previsioni, pensieri astratti sono facoltà della mente, che la mente potrà simulare in un suo artefatto ma del quale resterà sempre il demiurgo.

La seduzione, tuttavia, è grande ed è alimentata da progetti sempre più ambiziosi per la cui realizzazione l’uomo ha bisogno delle strutture computazionali dell’artificiale. Il rischio che si corre sta nell’essere trascinato dagli stessi successi. L’uomo dovrebbe riservarsi sempre il compito di chiedersi: perché?

I progetti di colonizzazione di Marte costituiscono un esempio estremo dei fenomeni analizzati nel Suo libro: quale lettura offre, nel Suo libro, di un ipotetico destino multiplanetario della specie umana?
Che l’umanità sia una specie multiplanetaria è un’affermazione che ho ripreso da Elon Musk, il più importante promotore di viaggi spaziali a bordo delle sue navicelle Space X. Può essere intesa semplicemente come una trovata pubblicitaria per attirare candidati all’ambizioso progetto di raggiungere Marte e stabilirvi degli insediamenti stabili. Nel progetto di Musk, così come in altri, che sono stati proposti sulla carta, non è prevista la possibilità di un ritorno sulla Terra. I primi colonizzatori, dopo un viaggio di sola andata di due o tre mesi, si troverebbero ad affrontare condizioni di vita proibitive su un terreno impraticabile e in mancanza di una atmosfera protettiva. Niente che sia adatto alla vita della specie umana. Gli ipotetici colonizzatori sarebbero costretti a vivere in tunnel sotterranei per evitare la caduta di meteoriti, privi di ogni risorsa naturale, di acqua e di ogni elemento necessario a stabilire un insediamento stabile.

Nulla che possa fare affermare che l’uomo sia una specie adatta a vivere stabilmente e riprodursi in quelle condizioni ambientali. Né le conoscenze acquisite sulla composizione del suolo può fare pensare alla possibilità ddi sfruttare risorse minerarie. I progetti più avveniristici, come quello di Nüwa, prevedono insediamenti per un milione di colonizzatori, del tutto dipendenti dalla Terra.

Niente di tutto ciò può legittimare l’affermazione che l’uomo sia una specie adatta alla vita su altri pianeti. Eppure, le avventure spaziali sembrano attrarre altri grandi imprenditori oltre Musk – come il proprietario del più grande sistema di vendite online o quello di linee aeree low cost -, sempre pronti a cogliere ciò che attira l’uomo d’oggi.

Tutto ciò sembrerebbe indicare uno slancio positivo verso le ‘magnifiche sorti e progressive’ dell’umanità’. Il cammino dell’uomo è costellato di sfide sempre più ardue affrontate e spesso superate, sulla via del progresso. E la dimensione utopistica potrebbe rientrare in questa visione.

Ma vi è un lato oscuro, che può cogliersi nell’espressione cara ai pionieri alla Musk: abbandonare il (nostro) pianeta prima che sia troppo tardi.

Qui si rivela una opposizione – o, più ottimisticamente, una competizione – tra le vertiginose realizzazioni tecnologiche sotto la guida dell’intelligenza artificiale, da una parte, e l’umana riflessione critica, dall’altra.

Le enormi risorse messe in campo per progetti interplanetari possono quindi rivelare un desiderio di fuga, la pessimistica visione di una Terra oramai devastata dagli interventi umani. Tanto peggio per gli otto miliardi di abitanti, chi potrà pagarsi il biglietto di sola andata potrà abbandonare la Terra e colonizzare Marte.

Non è questo l’esempio più evidente di come le potenzialità dell’artificiale possono essere positivamente o negativamente allocate, e come questo dipenda dalla volontà umana e non da un programma elettronico ?

L’affermazione prima citata potrebbe essere così modificata: salviamo la Terra prima che sia troppo tardi.

Antonio Marazzi ha insegnato Antropologia culturale all’Università degli Studi di Padova ed è stato presidente della Commission on Visual Anthropology della International Union of Anthropological and Ethnological Sciences

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