“Un lettore curioso. La formazione culturale di Ezio Raimondi” di Alberto Di Franco

Dott. Alberto Di Franco, Lei è autore del libro Un lettore curioso. La formazione culturale di Ezio Raimondi, edito da Pàtron nel 2022: che importanza riveste, per la critica letteraria e l’italianistica del Novecento, la figura di Ezio Raimondi?
Un lettore curioso. La formazione culturale di Ezio Raimondi, Alberto Di FrancoDirei un’importanza straordinaria. Innanzitutto, in relazione all’egemonia crociana, che determinò in Italia un clima poco favorevole alla filologia, Raimondi, nutrendosi direttamente e indirettamente della eccezionale lezione di Santorre Debenedetti, Michele Barbi, Raffaele Spongano, Giorgio Pasquali, Gianfranco Contini, Bruno Migliorini, Lanfranco Caretti e di Vittore Branca, poté prendere piena consapevolezza dei tanti arbitri testuali che, in mancanza di edizioni critiche affidabili, fraintendevano l’opera di questo o di quell’autore. Nasceva, insomma, in quegli anni, l’esigenza di allestire edizioni scientifiche adeguate, tenendo conto di tutti i preziosi materiali che spesso sono rimasti a documentare il percorso compositivo d’uno scrittore.

Ma la filologia, e insieme con essa la stilistica e l’erudizione, non bastarono certo a saziare l’appetito culturale raimondiano. Con l’edizione critica dei Dialoghi del Tasso (1958) in progress, Raimondi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, esperiva sul doppio fronte, filologico e interpretativo, quel tipo di indagine diacronica del testo che Gianfranco Contini andava imponendo negli studi di critica letteraria. La lunga consuetudine con uno dei massimi poeti nostri, e con un’opera di grande rilievo nella storia della cultura nell’età della Controriforma, offrì al giovane studioso la prospettiva più felice, e insieme un saldo fondamento filologico e storico, all’interesse che era venuto crescendo in lui per la letteratura manieristica, riguardo alla quale gli studi di Raimondi tengono ancora oggi una posizione di spicco. All’edizione critica tassiana, si affiancò l’allestimento dell’originale silloge Trattatisti e narratori del Seicento (1960), dove lo studioso diede prova di saper delineare in maniera esatta i paradigmi culturali del mondo barocco, storicizzando e socializzando i testi, per poi riportarli al dettato, alla lingua e all’ambiente in cui sorsero.

Si può ragionevolmente ipotizzare che con l’antologia secentesca la precoce lettura raimondiana di Lucien Febvre abbia dato i suoi frutti più maturi. D’altro canto, lo storico delle «Annales», in un notissimo articolo pubblicato su questa rivista, aveva puntualizzato che l’attività intellettuale presuppone sempre la vita sociale. I suoi strumenti indispensabili (per primo il linguaggio) implicano «l’esistenza di un ambiente umano» in cui i fatti necessariamente si sono sviluppati, dal momento che il loro fine consiste nel mettere in rapporto tutti coloro che fanno parte di uno stesso ambiente.

Il giovane Raimondi, con la mente rivolta a questi ragionamenti, sorretto da un forte senso di responsabilità etica, riuscì a determinare le corde dell’anima degli autori, considerandoli rispetto al tempo e al luogo in cui sono nati e assegnando loro il luogo e il significato nella storia della civiltà e nel cammino dell’arte.

Poiché nel mio itinerario di ricerca la testimonianza dei libri doveva necessariamente intrecciarsi con quella delle postille contenute in essi e delle fonti d’archivio si sono dovuti privilegiare dei campi di ricerca specifici e operare delle scelte. Del resto, si sa, la mancata assunzione di un punto di vista avrebbe inevitabilmente comportato l’impossibilità di presentare al lettore un mondo interiore di elementi in continua fermentazione. Si è così serbato fede a un criterio cronologico che si propone di giungere sino alle soglie degli anni Sessanta, ovvero fino all’analisi della corrispondenza tra Charles Singleton ed Ezio Raimondi, che è sembrata decisamente stimolante per meditare sulla critica simbolica, della quale lo studioso fu uno dei maggiori promotori.

L’obiettivo principale del mio lavoro è stato quello di tracciare la bozza di una biografia intellettuale, capace di registrare e di commentare tutti i dati in mio possesso ricavati dai libri, dagli Archivi di persona e dalla biblioteca di Raimondi, non ignaro del fatto che soltanto lo sguardo a largo spettro, esteso alle realtà più o meno contermini, è in grado di evidenziare il senso relazionale dei singoli avvenimenti. Solo come memoria culturale di un mondo aperto alle interdipendenze tra gli uomini e la società, la storia della letteratura e della critica acquisisce valore.

Come si è svolta la formazione culturale del grande intellettuale bolognese?
Tenendo a mente l’indissolubilità del binomio politica-cultura negli anni Quaranta del Novecento, con il sostegno della ricca documentazione dell’Archivio storico dell’Università di Bologna, ho esplorato i profili dei maestri che più hanno inciso sulla formazione intellettuale di Raimondi: Lorenzo Bianchi, Franco Serra, Roberto Longhi e Carlo Calcaterra.

Se non fossero sopraggiunti gli eventi infausti della guerra, che fecero cadere in disgrazia Lorenzo Bianchi, per Raimondi si sarebbe prospettata una brillante carriera da germanista, intrapresa di pari passo allo svolgimento dell’attività didattica, nei panni di giovane maestro elementare non di ruolo nelle scuole elementari “Manzolini” e “Guidi” di Bologna, negli anni scolastici 1941-42 e 1942-43.

Al germanista va riconosciuto il merito indiscusso di avere compreso, prima di ogni altro, il talento del giovane Raimondi e di essersi adoperato concretamente per l’avanzamento della sua carriera accademica.

Resosi conto degli immediati provvedimenti che lo avrebbero inevitabilmente colpito, Bianchi indirizzò l’allievo verso l’amico e collega Carlo Calcaterra, che, insieme a Vittorio Lugli, su sollecitazione del nuovo Preside di Facoltà Felice Battaglia, si era impegnato per la “salvezza” di Bianchi, scrivendo un attestato di stima nei suoi confronti, fatto poi recapitare alla commissione di epurazione. Si può inoltre congetturare che il III e il IV corso semestrale delle “Esercitazioni di lingua latina scritta per reduci ed assimilati”, affidato dalla Facoltà di Lettere a Raimondi nell’anno accademico 1946-47, sia frutto di un accordo, caldeggiato presumibilmente dal Bianchi, tra Carlo Calcaterra e Giovanni Battista Pighi. La solidarietà accademica tra Felice Battaglia e Bianchi, manifestatasi ai tempi dell’affaire Pighi, sarà altrettanto decisiva per il conferimento a Raimondi dell’incarico dirigenziale del Collegio universitario di eccellenza Irnerio, sorto nel 1954 per volontà dell’organismo di provvidenza assistenziale Opera Universitaria, il cui consiglio direttivo era composto da Felice Battaglia (Rettore e Presidente), dai professori Enrico Bassanelli, Martino Colonna, Luciano Lodi, dai membri Renato Calzati, Carlo Forni e dal direttore amministrativo Sebastiano Mazzaracchio. In virtù del costante interesse e incoraggiamento di Bianchi nel 1955 verrà assegnato a Raimondi l’incarico di insegnamento di Lingua e letteratura italiana nella Facoltà di Magistero, sorta su iniziativa della Facoltà di Lettere. Il gruppo dirigente della nuova facoltà era formato dal Rettore Felice Battaglia, dal Preside Giovanni Battista Pighi e dal Presidente del Comitato organizzatore Lorenzo Bianchi, che aveva perseguito con determinazione l’obiettivo di fare nascere Magistero a Bologna, facendo proprio e rilanciando un progetto che vent’anni prima, in pieno regime fascista, non era stato possibile realizzare.

A questo punto, per delineare in maniera esaustiva la formazione intellettuale di Ezio Raimondi, la dimensione accademica doveva necessariamente interagire con un incontro più intimo, che non affonda le radici nelle aule dell’università, bensì all’interno di un appartamento di via degli Orefici 4 in cui vi risiedeva Franco Serra, l’amico filosofo di Raimondi.

Serra, di qualche anno più anziano di Raimondi, conseguita la laurea in Giurisprudenza (15 marzo 1946) con una tesi di Filosofia del diritto (relatore: prof. Felice Battaglia) su La teoria dello Stato di K. Marx, l’anno successivo, nel concorso straordinario del 4 luglio 1947, ottenne l’abilitazione all’insegnamento di filosofia, pedagogia, storia ed economia politica, grazie alla quale poté intraprendere la carriera come professore nei licei classici e scientifici della provincia di Bologna.

Sullo scrittoio del suo amico filosofo, Raimondi fece la conoscenza di due degli autori che si possono ragionevolmente indicare tra i più significativi dell’intero percorso di formazione culturale: Lucien Febvre ed Ernst Robert Curtius. Del primo, parallelamente alla pubblicazione di Codro e l’Umanesimo a Bologna (1950), lo studioso scoperse Le problème de l’incroyance au XVIème siècle (1942). Il volume, integrandosi con la lezione storiografica di Jacob Burckhardt (La civiltà del Rinascimento in Italia – 1a ed. it. 1876) e di Johan Huizinga di Autunno del Medioevo (1a ed. it. 1940), esercitò una notevole influenza su Raimondi e rappresentò lo strumento di indagine imprescindibile da cui muovere per esplorare la sensibilità di una determinata epoca nella concretezza del rapporto uomini-cose.

Il libro di Febvre presentava al giovane critico un validissimo discorso di metodo, perché la dimensione storica, aprendosi in prospettiva interdisciplinare ai motivi della letteratura e della psicologia sociale, tentava di restituire una concezione piena dell’esistenza, in cui gli uomini e la società venivano collocati nel contesto naturale di appartenenza. In Febvre, Raimondi intravvide un atteggiamento storiografico inedito, in quanto lo studio della sensibilità di una civiltà veniva finalmente assimilato in relazione alla trasformazione delle parole, dei concetti e degli strumenti con cui la sensibilità stessa si elabora. L’incontro con Ernst Robert Curtius risale al 1941-42, allorché il giovane studente universitario cominciò a leggere su riviste specializzate i primi saggi sulla tradizione letteraria e il medioevo europeo, confluiti successivamente in Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter (1a ed. Berna, 1948), che sarà tradotto in italiano soltanto nel 1992.

È possibile intanto osservare che Raimondi ricevette il libro in dono da Franco Serra il 22 marzo 1949: una data particolarmente significativa, perché veniva a coincidere con il compimento del venticinquesimo anno d’età del futuro italianista (nato a Lizzano in Belvedere il 22 marzo 1924). È da tenere presente, inoltre, il valore della dedica che accompagna il testo, in quanto testimonia, più di ogni altra cosa, la storia di una profonda amicizia, che grazie alla mediazione delle voci dei libri aveva abbattuto il muro che delimitava l’appartenenza a ceti sociali diversi: «A Etio R. amico aetate minori sapientia maiori. Serra Franco».

Considerata l’importanza che Curtius esercitò sempre nella memoria del critico bolognese, non suscita stupore che Letteratura europea e Medio Evo latino sia tra i libri più postillati e sottolineati dallo studioso: i ventidue segnalibri, inseriti nel testo in occasioni e tempi differenti, sono la spia più evidente di un dialogo mai interrotto.

Lungi da noi entrare in un problema ampio e articolato qual è la ricezione del Curtius nella prospettiva degli scritti di Raimondi: si può al massimo osservare che lo studioso, nel volume dello storico e filologo romanzo tedesco, trovò una medesima consonanza d’intenti e di interessi. Il testo, concepito nel fervore dei nazionalismi culturali, teorizzava un sistema storico-letterario di lunga durata definito dalla retorica, di cui, mediante la rassegna degli elementi che organizzano la tradizione occidentale, identificava i cosiddetti loci communes (tópoi), ossia le “invariabili” di un sistema espressivo dialettizzato con ciò che varia, al fine di formulare una nozione di storia letteraria moderna, intesa non tanto come storia della civiltà, di stile, di uomini-fantasma (l’uomo gotico, l’uomo rinascimentale, ecc.), ma come storia di certe grandi convenzioni che costituiscono altrettanti valori della tradizione greco-latina-cristiana.

La lettura approfondita di Curtius, in prospettiva strutturalista, diede modo a Raimondi di affacciarsi verso orizzonti più estesi da quelli proposti dalle singole storie delle letterature nazionali. Letteratura europea e Medio Evo Latino rispondeva, difatti, all’esigenza di una moralità pubblica collettiva del dopoguerra, consistente nel ritrovare una possibile identità europea, che, nell’avventura intellettuale di Raimondi, si tradurrà in un’ansiosa ricerca mirata ad ampliare la base di dialogo comune tra le differenti tradizioni culturali, pur mantenendo sempre viva e operante la dialettica aristotelica del simile e del dissimile.

Per completare il variegato mosaico di tasselli, che tenta di ridisegnare da dietro le quinte la trama degli avvenimenti sottesi al percorso di formazione del giovane e brillante studente universitario, mi è sembrato utile raccontare con le carte di archivio l’incontro tra Roberto Longhi ed Ezio Raimondi, avvenuto durante l’anno accademico 1941-42, allorché lo storico dell’arte presentò agli studenti della generazione degli anni Venti un corso incentrato sui «Fatti di Masolino e di Masaccio» negli affreschi della Cappella Brancacci.

È necessario notare, in via preliminare, che il «culto» di Raimondi per Longhi, a differenza di quanto era accaduto con Lorenzo Bianchi e di quanto accadrà con Carlo Calcaterra, si consuma sostanzialmente in absentia, poiché è estraneo sia alla consuetudine degli incontri quotidiani, o perlomeno periodici, che sono soliti caratterizzare il rapporto tra maestri e allievi, sia a questioni attinenti alla sfera della politica accademica.

Le operazioni metodologiche e critiche di Raimondi a partire da Roberto Longhi e su Longhi, anziché considerarle dalla prospettiva dei Fatti di Masolino e di Masaccio, ho cercato di sintetizzarle con la ricerca dei punti di tangenza tra le tappe dell’insegnamento di Longhi a Bologna e la produzione degli scritti di Raimondi, non necessariamente appartenenti agli anni della formazione.

Considerata l’influenza culturale esercitata dalla prolusione longhiana del 1935 sulle ricerche dedicate da Ezio Raimondi al classicismo barocco emiliano, ho avvertito l’esigenza di collocarle nel panorama degli scritti pubblicati in anni coevi.

Se seguiamo il percorso critico del Maestro bolognese, ci accorgiamo infatti che le indagini su Guido Reni e la metafora ingegnosa (1988) scaturiscono dal corso monografico dell’a.a. 1986-87 intitolato Il mondo della metafora. Il Seicento letterario italiano e trovano una loro naturale prosecuzione nel corso Barocco moderno: Carlo Emilio Gadda e Roberto Longhi dell’a.a. 1989-90.

Siamo in una fase particolarmente cruciale della meditazione raimondiana riguardo alle origini della modernità. In questi anni, il paesaggio barocco descritto dallo studioso, nel suo intreccio multiplo di storie, tradizioni ed eventi, diviene sempre più articolato e si riconnette alla ricerca degli echi e delle risonanze che migrano dall’universo barocco al Neobarocco del Novecento.

Il corso sulla metafora nel Seicento letterario italiano, assorbita criticamente la lezione sul secolo del genio di Benedetto Croce, Carlo Calcaterra, Giovanni Getto, Luciano Anceschi, Giovanni Pozzi, Fritz Strich, Walter Benjamin, Dámaso Alonso, Marcel Raymond, Jean Rousset e Gérard Genette, fu per Raimondi un vero e proprio banco di prova su cui sperimentare il passaggio dalla metafora secentesca alle metamorfosi del Novecento.

Convinto che le immagini del presente, ricalcate sullo specchio dell’universo barocco, vadano incontro nel tempo a inevitabili trasformazioni culturali, Raimondi esortò gli studenti a valutare criticamente le immagini prive di contenuto prodotte dai «simulacri opulenti» della civiltà dello spettacolo, in quanto – osservava – «non siamo nella nostra vita come in un luna-park, con tutti gli specchi all’interno e la nostra immagine che si rimoltiplica ed è sempre la stessa: l’esperienza significa piuttosto che noi cerchiamo di assimilare altre immagini perché diventino noi».

L’invito, rivolto non soltanto agli studenti, ma più in generale ai lettori, fu di lasciare da parte gli stereotipi coniati dai mass media e di essere, come gli scrittori, veri e propri «custodi delle metamorfosi» del passato, ricadendo su questi ultimi l’arduo compito di ereditare la lunga storia delle forme, dei miti e delle figure della tradizione per poi stabilirvi rapporti di somiglianza con il presente.

Da queste precise istanze teoriche, esposte nell’introduzione al corso del 1986-87, Raimondi, l’anno successivo, rintracciò nel curriculum di due scrittori-saggisti, quali Roberto Longhi e Carlo Emilio Gadda, i custodi ideali delle metamorfosi del Seicento. Nella loro opera critica e narrativa essi non si limitarono a registrare passivamente il campo d’osservazione visualizzato nell’universo barocco, bensì ne diventarono coefficienti attivi, con la formulazione di nuovi paradigmi espressivi che contribuirono alla riabilitazione di un «secolo calunniato».

La scelta di Raimondi di laurearsi con Carlo Calcaterra rispondeva a una precisa strategia dettata da Lorenzo Bianchi, ben consapevole di poter contare su una collaudata amicizia accademica con il collega. La richiesta avanzata dal germanista a Calcaterra rientrava, come in parte abbiamo già avuto modo di spiegare, in un complesso e reciproco scambio di favori. A tal proposito, con il sostegno dei dati di archivio, si deve tenere a mente che nel novembre 1942, quindi a ridosso dell’iscrizione di Ezio Raimondi alla Facoltà di Lettere, in vista dell’imminente trasferimento di Calcaterra all’Università di Milano era pronto a salire sulla cattedra di Letteratura italiana dell’Ateneo bolognese il calabrese Umberto Bosco. Siamo in una fase storica particolarmente delicata per l’Italia: la città Ambrosiana, nel tardo pomeriggio del 24 ottobre 1942, subì la prima incursione diurna del Bomber Command sul territorio italiano, provocando lo sfollamento della popolazione in zone limitrofe ritenute non soggette a bombardamenti. Calcaterra, preso atto dello scenario inedito prefiguratosi nella città di destinazione, si trovò a gestire uno spostamento estremamente difficile. Per questa ragione, egli chiese a Lorenzo Bianchi di annullare la pratica del trasferimento. La Facoltà di Lettere giunse in suo soccorso e si rivelò decisiva, per la semplificazione della trattativa, l’intercessione diretta di Goffredo Coppola, impegnato nel frattempo nella campagna di Russia.

Il rapporto Raimondi- Calcaterra credo che possa essere messo a fuoco attraverso la rilettura della Prefazione alla riedizione del Parnaso in rivolta (Bologna, il Mulino, 1961). Questa operazione editoriale offriva a Ezio Raimondi l’opportunità di misurare le tesi critiche esposte nell’antologia Trattatisti e narratori del Seicento sul duro metro storico del maestro. Sebbene nella storiografia letteraria del giovane, diversamente dal Calcaterra, prevalga la posizione di un orientamento empirico estraneo alla sovrapposizione tra il gusto moderno e la sensibilità del Seicento, il punto d’incontro tra i due esploratori di biblioteche barocche pare che si debba rintracciare nella lettura storica dell’opera letteraria, che tenta di ridefinire, nel rapporto tra un determinato ambiente di cultura e l’artista, i contorni della civiltà letteraria in cui l’opera sboccia.

Entrambi gli studiosi hanno della storia l’«immagine viva e corposa di una pluralità umana tangibile e non mitica», dove gli individui «nascono e muoiono tra le rughe della terra con la loro carne, i loro contesti, le loro case, le loro istituzioni».

Quali elementi ulteriori della sua biografia intellettuale è possibile desumere dall’analisi dei libri e delle carte di Raimondi?
Dal momento che non è mia abitudine avanzare ipotesi interpretative senza una solida base documentaria, preferisco rispondere alla sua domanda con un esempio concreto. La copia del volume Le problème de l’incroyance au XVIème siècle di Lucien Febvre, donata da Franco Serra a Raimondi intorno agli anni ’50 del Novecento, presenta quattro segnalibri, rare sottolineature e molte postille di lettura. La maggior parte di esse registrano, sui margini della pagina, la parola-chiave delle nozioni illustrate di volta in volta dall’autore nel corso della sua trattazione. Non sono poi assenti, soprattutto nella Introduction générale, alcune note di commento, che devono essere esaminate dalla specola di un passo de Le voci dei libri (Bologna, il Mulino, 2012, pp. 94-95):

Di là dalle risonanze emotive connesse ai libri donati da amici […], ogni lettura importante reca con sé i segni di una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza, come quando un canto si innalza d’improvviso e trova la sua armonia. Il libro allora diventa una creatura, che hai sempre a fianco e che porta nella tua vita i suoi affetti, le sue ragioni a interpellare i tuoi affetti, le tue ragioni.

I segni grafici di attenzione apposti all’edizione del 1947 de Le problème de l’incroyance au XVIème siècle testimoniano il desiderio di Raimondi di interpellare continuamente la voce del grande maestro della storiografia francese e di farla rivivere nella propria officina interpretativa.

Spigoliamo qualche esempio per comprendere meglio come lavorava Raimondi. Febvre sostiene che ogni età, con il variare delle qualità dello spirito, delle doti, delle curiosità e dei metodi intellettuali, fabbrica mentalmente il suo universo: «Pareillement, chaque époque se fabrique mentalement sa représentation du passé historique» (p. 2). Raimondi si riconosce immediatamente in questo precetto e chiosa: «È un concetto da tenere ben presente: fa da perno in una storia della cultura».

In un altro luogo dell’introduzione, Lucien Febvre dichiara che un testo deve essere sentito «comme un organisme vivant, gouverné par des forces secrètes, par de mystérieuses et profondes influences» (p. 9). Raimondi, che fa fatica a trattenere il suo febbrile entusiasmo dinanzi a ciò che sta leggendo, annota: «Ottimo»; «una lezione!».

Le due postille sono strettamente collegate a un passaggio del libro che si propone di riflettere sull’interrogativo posto dallo storico della filosofia Léon Blanchet in uno studio su Campanella: «Comment résumer dans une formule unique “la pensée d’une époque de transition qui cherche encore sa voie, et ne réussit point à mettre dans ses idées l’ordre et l’harmonie propres aux époques d’organisation et d’équilibre”?» (p. 401). Esplicita la reazione dell’inquieto lettore: «e lo storico cosa non può volere per il 400?».

Quando Raimondi si trovò a leggere le pagine in cui Febvre discute sul valore e la dignità di quella «science occulte», sviluppatasi «en marge de la science humaniste, par les soins d’astrologues, de médecins, de chercheurs de pierre philosophale» (p. 487), il pensiero correva naturaliter alla Bologna del secondo Quattrocento e, in particolar modo, al secondo capitolo della sua prima monografia dal titolo Codro e l’Umanesimo a Bologna (1950).

Più che conciliare Platone con Aristotele, la filosofia greca con il Vangelo, gli uomini vissuti a cavallo tra XV e XVI secolo operavano – spiega il protagonista delle «Annales» con Denis Saurat – una «synthèse de désirs» (p. 489). Raimondi, che poco tempo prima di leggere l’opera dello storico francese aveva consegnato il manoscritto della sua prima monografia a Carlo Calcaterra, di fianco all’espressione di Saurat scrive: «l’ho già usata in Cod.».

Saurat e Febvre non compaiono nelle due edizioni del Codro (Bologna, Zuffi, 1950; Bologna, il Mulino, 1987), ma è possibile che il suo autore stesse pensando alle modalità di rappresentazione da lui adottate per descrivere la posizione speculativa dell’umanista Giovanni Battista Refrigerio: «Per credere all’astrologia non era neppure necessario abbandonare la fede e la tradizione: in fondo si trattava di momenti diversi, che potevano coesistere in forme curiose di compromesso» (p. 77).

Il fitto dialogo instaurato dal giovane ricercatore con Febvre prosegue in quel passo del libro dove si viene a dire che le forme precipue del pensiero e della sensibilità rinascimentale possono essere comprese, nella loro pienezza, soltanto trasferendosi mentalmente nell’universo in cui esse vengono generate. Per lo storico è di vitale importanza domandarsi non come le idee contenute nei testi del XVI secolo suonano «à nos oreilles d’hommes» contemporanei, ma come gli uomini di quel secolo le hanno recepite:

Et parce que leur mode d’enchaînement des idées confère à ces textes, du moins à nos yeux, une sorte d’éternité dans la certitude, pouvons-nous en conclure qu’à toutes les époques, toutes les attitudes intellectuelles sont possibles – sont également possibles? Gros problème d’histoire de l’esprit humain (p. 7).

La lettura del brano sollecita la mano di Raimondi a vergare la nota seguente: «Così per la lettura di un poeta come il T.». È sufficiente pensare al “processo” subito dalla Liberata ai tempi della “revisione romana” per accorgersi che si sta alludendo al Tasso.

Possediamo, tuttavia, altri innumerevoli indizi che ci conducono verso questa direzione. Febvre, nel Libro secondo, capitolo IV, paragrafo cinque (Le sens de l’impossible), cita la Démonomanie des Sorciers di Jean Bodin (p. 475), mentre nel paragrafo sette (Un univers peuplé de démons) trascrive alcuni versi dell’Hymne des Daimons di Ronsard (p. 481). A margine dei due riferimenti bibliografici, Raimondi inserisce due postille: «per il Tasso!» e «per il T.».

Riguardo a quest’ultimo esempio, si crea un’unità indissolubile e significante tra le note di lettura e una recensione (E. Raimondi, Tra critica e filologia (a proposito degli «Studi sul Tasso» di B.T. Sozzi), «Convivium. Nuova serie», 5 (1955), pp. 606-620, poi rist. con il titolo Tra grammatica e magia in Id., Rinascimento inquieto [1965], Torino, Einaudi, 1994, pp. 161-187) che l’italianista scrive a proposito degli Studi sul Tasso (Pisa, Nistri-Lischi, 1954) di Bortolo Tommaso Sozzi. Raimondi, nel riportare l’attenzione sul capitolo Il magismo di Tasso (pp. 303-336), disapprova la scelta dell’autore di aver isolato «il problema individuale» dall’«ambiente culturale che ne costituisce le premesse» e di aver sacrificato «il senso dell’epoca, la psicologia di una società lontana» (p. 168):

Tra le opere del tempo, il Sozzi ricorda la Magia naturale del Della Porta e le Disquisizioni magiche del Delrio: rispetto al Tasso avrei preferito, proprio per una più pertinente analogia d’interessi, che si fosse piuttosto fatta menzione dell’Hymne des Daimons di Ronsard o della Démonomanie des sorciers di Jean Bodin, giacché il Messaggiero, l’opera demonologica-ermetica cui il Tasso lavorò con maggiore impegno, s’inquadra nella stessa cultura che, con certi tocchi di esperienza nevrotica, compagina l’inno, e rivela d’altro canto alcuni punti di contatto, così strani da parere sorprendenti e tutt’altro che casuali, con il trattato del giurista francese (p. 169).

In che modo Ezio Raimondi ha saputo ineguagliabilmente fare della letteratura e del mestiere del critico letterario il grimaldello per interrogare la realtà?
Questa è un’intuizione di una persona a me molto cara, Gian Mario Anselmi, autore della Presentazione del mio libro.

Anselmi, sulla scorta di alcune mie suggestioni critiche, ricorda che Raimondi era come assillato e incalzato dalla curiositas tipica degli antichi umanisti. Era appassionato lettore di molteplici studi e testi, propugnatore autentico e sincero della vera (e non rituale) interdisciplinarietà. Non a caso, quando parlava agli allievi dei suoi anni giovanili (e come ebbe modo di ribadire nelle interviste e nei volumi dei suoi ultimi anni di vita) i riferimenti, prima ancora che a critici letterari e filologi, erano a grandi storici, a storici dell’arte e a filosofi del Novecento come Febvre, Longhi o Heidegger (la sua perfetta padronanza del tedesco, pressoché sconosciuto alla gran parte degli italianisti di allora come di oggi, gli procurò un inestimabile viatico verso la grande filosofia moderna). Egli pretendeva da sé stesso e da tutti i suoi allievi che l’analisi del testo, la critica letteraria, l’ecdotica avessero sicure e solide basi nella filosofia e nella storia, pena la marginalità dei nostri studi qualora, appunto, risultassero “infondati”, non ancorati a saperi imprescindibili e in dialogo fra loro. Insomma, parliamo di una critica letteraria come autentica “ermeneutica”, di cui Ezio Raimondi fu maestro indiscusso in tutta la sua vita con un magistero che ancora frutta e che ne fa uno dei maggiori intellettuali/Professori del Novecento.

Eppure, fino agli anni Novanta, non pochi (seppure con cautela e specie fuori Bologna) lo criticarono, arrivando ad accusarlo di “eclettismo”, un modo elegante per denunciarne una sorta di mancanza di fisionomia ideologica, un “posizionamento” troppo cauto. Erano gli anni degli steccati ideologici, del di qua o di là, delle “correnti” divisive (i marxisti, i cattolici, i laici tanto pronti a combattersi a parole per poi “compromettersi” fra loro, senza ritegno, soprattutto nei fatti accademici e concorsuali). Tutto ciò oggi appare chiacchiericcio inutile e insensato, perché le ideologie si sono bruciate e involute. Al contrario, il grande metodo ermeneutico di Raimondi, la sua inesausta sete di saperi e di dialogo restano lì intatti come faro luminoso ad indicare anche oggi la via maestra delle ricerche e dei metodi pedagogici delle humanities.

Alberto Di Franco ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Culture Letterarie e Filologiche presso l’Università di Bologna. Collabora con le riviste accademiche «DNA-Di Nulla Academia. Rivista di studi camporesiani», «Griseldaonline» e «Studi e Problemi di Critica Testuale». Con Gian Mario Anselmi, Loredana Chines, Veronica Bernardi e Andrea Severi ha curato per Pàtron l’antologia Leggere i classici italiani (2019).

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