
La sua fuga verso il Regno Unito ha qualcosa di epico: il dittatore portoghese Salazar ha chiesto aiuto a Hitler per un suo amico che aveva contratto una malattia neurologica e la Germania si è trovata nell’imbarazzo di doverne affidare la cura a un ebreo, il migliore che aveva a disposizione. Guttmann ha approfittato di quel viaggio per fare una sosta a Londra, dove ha allacciato proficui rapporti con i colleghi inglesi. Sono stati loro, con il determinante apporto della S.P.S.L., a procurargli un visto e poi un salvacondotto per andarci definitivamente.
Essendo già un professionista stimato e conosciuto, una volta giunto lì gli è stata affidata la direzione della clinica di Stoke Mandeville, non lontano dalla capitale britannica, dove si è dedicato alla cura delle lesioni spinali. I suoi primi assistiti sono stati i feriti di guerra: piloti della RAF che avevano combattuto nei cieli la Battaglia d’Inghilterra, soldati che avevano partecipato allo Sbarco in Normandia.
Quale innovativa terapia sviluppò Guttmann a Stoke Mandeville?
La sua rivoluzione è stata non accettare che i suoi assistiti, tutti molto giovani, fossero abbandonati a se stessi, allettati e sedati con un’aspettativa media di vita di appena sei settimane. Ha eliminato i sedativi e disposto che i pazienti non fossero più tenuti in posizione orizzontale. Li voleva sollevati e li faceva girare ogni due ore, anche di notte, per evitare il formarsi delle piaghe da decubito, che contribuivano a provocarne la morte. La sua formidabile intuizione è stata comprendere che lo sport poteva essere la chiave per motivarli alla vita. Ha iniziato lanciando una palla medica da un letto all’altro, poi si è inventato una sorta di polo sulla sedia a rotelle: con una mazza dovevano contendersi il pallone. Per convincere i suoi collaboratori, piuttosto scettici riguardo ai suoi metodi, ha organizzato una gara di polo fra una squadra di disabili e una composta da medici e fisioterapisti. Questi ultimi sono andati allo scontro sicuri di vincere e invece hanno perso, gli avversari erano molto più abituati di loro a muoversi su una sedia a rotelle. Da quel giorno la musica è cambiata e tutti hanno iniziato a remare nella stessa direzione.
Così nell’estate del 1948 Guttmann ha indetto per la prima volta i suoi «Giochi di Stoke Mandeville», negli stessi giorni in cui a Londra si svolgevano le Olimpiadi. A questa edizione hanno preso parte solo sedici atleti, quattordici maschi e due femmine. Ma è stato l’inizio di un cammino straordinario.
In che modo i «Giochi di Stoke Mandeville» approdarono a Roma, in occasione delle Olimpiadi del 1960?
Dopo la prima edizione, Guttmann ha cominciato a scrivere ai suoi colleghi di altri Paesi, invitandoli ad aderire all’iniziativa e a portare a gareggiare a Stoke Mandeville i loro assistiti. Quattro anni più tardi, nel 1952, le gare hanno assunto una veste internazionale, con l’arrivo di altri reduci di guerra da Aardenburg, nei Paesi Bassi. In tutto il decennio la manifestazione è cresciuta con l’adesione di nuove Nazioni: nel 1953 si sono aggiunti il Canada, la Francia, la Finlandia e Israele. Nell’edizione successiva le bandiere sono diventate quattordici. Nel 1956, in occasione delle Olimpiadi gareggiate in Australia, a Melbourne, è stata conferita ai Giochi di Stoke Mandeville la prestigiosa Coppa Fearnley, per «l’eccezionale risultato nella promozione degli ideali olimpici».
Fra i primi a rispondere all’appello di Guttmann vi è stato anche il dottor Antonio Maglio, un medico barese dell’INAIL impegnato nella cura dei mielolesi che avevano contratto infortuni sul lavoro. Fra i due si è sviluppata una profonda amicizia e, quando Maglio è stato inserito nel Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Roma del 1960, il sogno di Guttmann è diventato realtà. Lavorando in tandem, hanno ottenuto ciò che volevano: alle gare internazionali hanno partecipato gli atleti disabili, l’Italia ha visto così celebrare nel suo territorio le prime Paralimpiadi della storia. È importante ricordare questo episodio, perché l’avventura del neurologo scampato alla Shoah è passata per il nostro Paese e possiamo esserne orgogliosi, come dobbiamo esserlo di Maglio. La sua vedova è ancora fra noi, è la testimonianza vivente del rapporto fortissimo fra i due professionisti e dell’amore che il marito aveva per i suoi malati.
Qual è l’eredità di Ludwig Guttmann?
È un’eredità meravigliosa, di edizione in edizione i Giochi Paralimpici si sono arricchiti di nuove discipline, con un numero sempre maggiore di atleti pronti a dare l’anima pur di guadagnarsi le sudate medaglie. Oggi nel mondo abbiamo più di 190 Comitati che promuovono lo sport paralimpico e sono migliaia gli sportivi che prendono parte alle competizioni, seguite con attenzione e simpatia ai quattro angoli del pianeta. Il 23 giugno il Capo dello Stato ha ricevuto al Quirinale, insieme a quello del CONI, anche il Presidente del Comitato Italiano Paralimpico Luca Pancalli. È un traguardo che premia anche l’impegno di Luca, che a diciassette anni ha perso l’uso delle gambe, ma che stando su una carrozzina è riuscito a laurearsi con lode in Giurisprudenza e a sostenere l’esame da avvocato, a vincere i Mondiali di nuoto e a costituire l’Ente che presiede, al quale ha fatto riconoscere lo status di Ente pubblico. I prossimi Giochi si apriranno il 23 agosto. A Tokyo andranno in tanti e fra loro ci sarà Bebe Vio, una ragazza nata nel 1997, quando Guttmann non c’era più, ma che nell’iniziativa di quell’uomo passato a miglior vita ha trovato una ragione per lottare e affermarsi. A undici anni Bebe ha perso gli avambracci e le gambe a seguito di una malattia. Ciò non le ha impedito di diventare una campionessa di scherma e di condurre un programma televisivo. Il mio libro si conclude con un capitolo tutto dedicato a lei. Nell’intervista che lo compone, alla domanda sul suo futuro una volta che l’attività agonistica sarà cessata, ha risposto che vorrebbe impegnarsi nella promozione dello sport paralimpico, con l’ambizione di abolire il Comitato e farlo confluire nel CONI. Per essere tutti uguali, senza più alcuna barriera.
Bebe Vio e Federico Morlacchi a Tokyo porteranno la bandiera italiana. L’eredità di Guttmann, ciò che egli chiamava lo “spirito di Stoke Mandeville”, sarà tutta nella loro emozione, nella voglia di vincere che si leggerà nei loro sguardi, nella meravigliosa spinta verso la vita che li avrà portati fin lì.
Roberto Riccardi, nato a Bari, è generale dei Carabinieri e giornalista. Ha scritto sulla Shoah per la Giuntina Sono stato un numero (2009), premiato da Adei-Wizo e vincitore dell’Acqui Storia, La foto sulla spiaggia (2012) e La farfalla impazzita (2013). Ha toccato il tema anche nel noir La notte della rabbia (Einaudi, 2017). Ha inoltre firmato due gialli Mondadori e una trilogia noir per le edizioni eo. Fra i suoi libri Il prezzo della fedeltà (Mondadori, 2016), dedicato al maresciallo Giuseppe Giangrande, ferito e reso tetraplegico mentre prestava servizio davanti a Palazzo Chigi.