
L’attacco di Traini a colpi di pistola contro 6 persone di colore a Macerata si potrebbe ben definire un “evento mediale”, ovvero una storia fortemente simbolica, narrata dai media, che monopolizza l’attenzione del pubblico e mobilita emozioni e idee morali su ciò che la società dovrebbe o non dovrebbe essere. I vari tipi di eventi mediali seguono dei copioni canonici: nel caso degli attacchi indiscriminati contro i civili, il rito celebrato attraverso i media prevede di solito la celebrazione delle vittime in onore del loro sacrificio, l’unità della collettività, la compattezza e risolutezza delle autorità nell’affrontare la situazione.
A Macerata tutto questo non ha avuto luogo. Non si è verificata una reazione collettiva unitaria; l’opposizione di destra ha attaccato il governo reinquadrando l’evento come la conseguenza della politica di “porte aperte” all’immigrazione; dell’attentatore, più che la punizione, si è celebrata la parziale redenzione; nessun rappresentante delle istituzioni o della maggioranza di governo, per ben quattro giorni, si è recato a fare visita alle vittime; infine, si è cercato addirittura da più parti di vietare o sabotare la manifestazione che avrebbe dovuto dare corpo alla reazione a questo attentato ai valori fondanti della nazione, che nella propria carta costituzionale ripudia il fascismo e le discriminazioni razziali.
Per questo abbiamo etichettato l’attentato come quasi-terroristico. Un atto di violenza indiscriminata e politicamente motivata che in altri casi – si veda l’attacco di Christchurch in Nuova Zelanda – sarebbe qualificato come terrorismo ma che, tuttavia, non guadagna quello status fortemente performativo che di norma porta a una condanna morale corale, a reazioni energiche, allo stringersi della comunità a difesa del bene perduto, che è poi il legame sociale stesso.
Sciogliere questo paradosso significa capire molte cose della nostra società, del suo sistema politico, mediatico e sociale. Dunque l’attacco di Macerata non è solo un evento mediale “venuto male”, di interesse specifico per il campo dei media studies, si rivela qualcosa di più. Parafrasando una nota espressione dell’antropologo Marcel Mauss, per noi è un “fatto mediale totale”, per la sua capacità di riflettere – e allo stesso tempo, nel suo piccolo, di codeterminare – un largo numero di fenomeni caratteristici della società italiana e non solo. Come i “fatti sociali totali”, seppure in modo meno universale, i fatti di Macerata coinvolgono una serie di meccanismi e di logiche di funzionamento della comunità nazionale, mettendo in relazione elementi solo apparentemente lontani e dissimili. Pensiamo, ad esempio, alla colonizzazione della sfera pubblica da parte di soggetti in grado di definire le interpretazioni ammesse (e rese “naturali”) e quelle non consentite o sospette, in grado di beatificare le voci “legittime” e stigmatizzare quelle “eretiche”, di trattare alcuni principi come sacri e considerarne altri negoziabili a basso prezzo. I fatti di Macerata e le reazioni che li hanno seguiti ci parlano anche di gerarchie sociali che si basano non solo sul requisito della cittadinanza formale, ma anche su un’idea di discendenza fondata sul sangue e sulla bianchezza.
In che modo, i fatti di Macerata hanno manifestato un’idea etno-razziale della cittadinanza?
Per due ragioni principali. Innanzitutto, a differenza degli attacchi che hanno insanguinato i paesi cosiddetti “occidentali”, che fossero di stampo jihadista o suprematista, nel caso di Macerata non c’è stato quel moto di solidarietà e di immedesimazione con le vittime che ritroviamo nelle reazioni agli attentati terroristici. Questo fa pensare che queste vittime non possono rappresentare la comunità offesa, perché tra loro e noi c’è una differenza importante. La scelta fortemente simbolica di Traini di colpire solo persone di origine africana e di pelle scura evidentemente non era cieca, ci parlava del fatto che, per molti, gli italiani possono essere solo bianchi. Con le persone di colore non ci si può immedesimare, perché non appartengono alla stessa “famiglia”. Così come non ne facevano parte i rom vittime di pogrom a Ponticelli. Che si tratti di un paradigma nazionale della bianchezza o una più generale idea di discendenza basata sul sangue, la questione non è di poco conto, mette in questione la distanza tra la costituzione formale e quella reale, tra i principi dichiarati e quelli vissuti, e in definitiva le stesse idee di nazione, identità e cittadinanza.
In secondo luogo perché, come mostra l’analisi di Annalisa Frisina e Andrea Pogliano nel nostro volume, la violenza contro i soggetti razzializzati, caposaldo di ogni regime razzista, non è stata interrogata, se non da alcuni isolati commentatori. Giornali e telegiornali hanno individualizzato e psicologizzato l’attacco, depoliticizzandolo, e per di più adottando la prospettiva interpretativa del suo stesso autore, cioè quella di una reazione, quasi una difesa, per la violazione di una donna bianca, e dunque della nazione tutta. Il sistema di rappresentazione ha lavorato sulla notoria dicotomizzazione Noi/Loro. Da una parte la visibilizzazione, individualizzazione, spettacolarizzazione e umanizzazione del Noi/Traini, e del Noi/Pamela, la vittima da vendicare, simbolo dell’“innocenza bianca”; dall’altra la invisibilizzazione, il silenziamento, la collettivizzazione e in fin dei conti la de-umanizzazione del Loro, vittime sì, ma non meritevoli della parola o di un primo piano sui Tg della sera.
Prof. Fabio Quassoli, come sono stati rappresentati i fatti di Macerata da parte dell’ecosistema mediale?
L’analisi del dibattito che è seguito all’attentato di Macerata ci ha permesso di osservare il ‘funzionamento’ di una sfera pubblica mediatizzata, in presenza di quello che la letteratura recente ha definito come hybrid media system, che si caratterizza per la forte interattività tra media tradizionali e social media e, di conseguenza, tra vecchie e nuove logiche mediali.
Nel primo capitolo, di cui sono coautore con Guido Anselmi e Marcello Maneri, illustriamo, ad esempio, la traiettoria che ha caratterizzato il movimento di opinione nato attorno a due tweet di Roberto Saviano che invitavano a riconoscere l’attacco come un atto terroristico di matrice fascista e razzista. Dopo una iniziale affermazione, quello che sembrava poter diventare un vero e proprio processo di mobilitazione dal basso si è quasi spento, grazie, fondamentalmente, all’azione congiunta dei media tradizionali e del sistema politico che, da un lato, hanno ricollocato il significato di quanto accaduto entro una dinamica conflittuale tipica di una campagna elettorale molto accesa e, dall’altro lato, hanno riproposto una serie di letture ben collaudate sul binomio sicurezza e immigrazione.
Nel secondo capitolo, che ho scritto con Monica Colombo, si mostra come i principali quotidiani nazionali, soprattutto negli editoriali dedicati alla vicenda, abbiano proposto una rappresentazione edulcorata e rassicurante della vicenda e, confermando il timore espresso da Saviano nei suoi tweet, abbiano contribuito a promuovere una lettura degli eventi in sintonia con quella espressa delle élites politiche, ribadendo, implicitamente, una concezione del terrorismo in cui i cattivi possono essere solo coloro che non appartengono, pienamente o parzialmente, alla comunità nazionale.
Nel capitolo successivo, in cui sono stati presi in esame i Tg nazionali, Flavio Piccoli mette in luce come la copertura dell’evento da parte di questi ultimi, per ragioni dipendenti dalle modalità standard di costruzione delle notizie e da un’agenda definita sostanzialmente dalla politica ufficiale, abbia contribuito grandemente all’oscuramento di quanto stava nel frattempo accadendo su Twitter. In termini di logiche complessive di funzionamento dell’ecosistema mediale e di costruzione dell’opinione pubblica, dunque, sia la carta stampata sia le news televisive hanno prestato poca attenzione a ciò che stava accadendo sui social media.
A riprova di ciò, basti considerare la fake news relativa al “contro-evento” dei cori inneggianti alle foibe che avrebbero accompagnato la manifestazione del 10 febbraio 2018. Una notizia che, come illustra Federico Pilati nel quarto capitolo, ha generato un’onda sismica che ha attraversato l’intero ecosistema mediale. Contrariamente alla vulgata che associa fake news e social media, la notizia dei presunti cori è stata pubblicata originariamente da un giornale locale online per poi essere rilanciata, a brevissima distanza di tempo, da molte testate nazionali. Solo a questo punto, ha acquisito grande visibilità anche nei social media, contribuendo complessivamente ad offuscare il significato antifascista e antirazzista della manifestazione e riportando al centro dell’attenzione istanze di carattere nazionalista in sintonia con il senso del gesto di Luca Traini.
Quindi, secondo lei, quale reintermediazione dell’attentato è stata fatta dai social media?
Le persone oggi si informano, partecipano al dibattito pubblico e prendono posizione entro un ambiente mediale molto articolato e complesso. Tramite le modalità specifiche di funzionamento dei social media (nel caso di Twitter, le risposte, i retweet, i like e la condivisione) e grazie alla loro onnipresenza e facilità di utilizzo, infatti, vengono costantemente rimessi in gioco contenuti di varia provenienza: interni alla singola piattaforma, condivisi tra diverse piattaforme o, molto spesso, provenienti dalle versioni online dei media tradizionali. I social media, dunque, sono l’ambiente in cui è più probabile che nascano e si impongano delle letture innovative di quanto accade nella società e consolidarsi dei veri e propri movimenti di opinione. Allo stesso tempo, però, essi hanno confini molto porosi e incorporano spesso e volentieri quanto veicolato dai media tradizionali, grazie alla digitalizzazione dei contenuti, alla crescente visibilità e rilevanza delle versioni online di carta stampata, radio e tv, e alla visibilità che al loro interno hanno gli account riconducibili a professionisti dell’informazione.
Per queste ragioni, pensiamo che l’analisi dell’attuale sfera pubblica non solo non possa essere limitata ai social media, ma non sia nemmeno molto produttivo comparare media tradizionali e social, come se si trattasse di due ambienti separati e autonomi. Inoltre, è importante ribadire come la politica, forte di una relazione privilegiata con i media tradizionali, sia ancora in grado di controllare l’evoluzione complessiva del dibattito su temi politicamente rilevanti in due modi: indirettamente, poiché il confronto che polarizza le community sui social si alimenta di contenuti provenienti dai media mainstream che, a loro volta sono da sempre strettamente interfacciati con il mondo politico; direttamente, grazie all’attivazione sui social media di account riferibili agli esponenti e ai leader dei principali partiti. A differenza di quanto sottolineato alcuni anni da vari analisti a proposito delle potenzialità di partecipazione democratica dal basso insite nei social, si può oggi parlare di una ricolonizzazione dello spazio pubblico da parte della politica che investe in primo luogo le piattaforme interattive online.
Prof. Oscar Ricci, cosa rivela l’analisi delle voci di Wikipedia sull’attentato di Macerata circa il ruolo dell’enciclopedia libera nella costruzione della conoscenza?
Proprio nei giorni in cui si celebra il ventesimo compleanno di Wikipedia l’analisi delle voci di Macerata ci restituisce uno spaccato interessante del più grande progetto enciclopedico dell’era digitale.
Soprattutto nelle pagine di discussione, in cui gli utenti dibattono su cosa è più appropriato mettere nelle voci, emerge come la versione linguistica italiana della voce sull’attacco sia stata quella più controversa e combattuta. Oltre al fatto che solo in questa versione la voce ha subito una proposta di cancellazione, colpiscono particolarmente i motivi che sono stati proposti per crearla: l’accento viene posto sulle conseguenze che questo avvenimento ha avuto sulle elezioni politiche che di lì a poco si sarebbero tenute, mentre vengono molto meno discusse la straordinarietà politica dell’attentato in sé, le sue specificità e le sue implicazioni più generali rispetto al contesto italiano. Ciò che è piuttosto chiaro in quasi tutte le versioni non italiane di queste voci – ovvero il fatto che si sia trattato di un attentato politico di estrema destra, compiuto da una persona che aveva militato in uno dei partiti più importanti che si sarebbe presentato alle successive elezioni – nella versione italiana è decisamente meno evidente.
È possibile che ciò sia dovuto in parte alla specificità della copertura mediatica nazionale, che ha minimizzato la rilevanza politica dell’attentato. Proprio questo elemento, tuttavia, ci fa capire l’importanza del contesto informativo generale nel quale Wikipedia si inserisce per costruire il proprio progetto enciclopedico. Sebbene, infatti, i membri della comunità facciano un grande sforzo per cercare di rendere Wikipedia più “obiettiva” possibile, le fonti tramite le quali si costruisce una voce basata su fatti di attualità e cronaca rimangono in gran parte fonti giornalistiche tradizionali, e da tali fonti la costruzione di una voce viene inevitabilmente influenzata.
Notare i limiti della narrazione di questa vicenda sulle pagine italiane di Wikipedia non ci esime però dall’osservare come questa piattaforma si stagli invece decisamente a confronto del resto della copertura mediatica di questo avvenimento. In particolare, tutti gli aspetti più sensazionalistici che hanno caratterizzato le narrazioni proposte dai media tradizionali non hanno trovato spazio nelle voci, che sono riuscite a mantenere un tono adeguato alla propria missione enciclopedica.
Marcello Maneri insegna Media, comunicazione e società e Sociologia dei processi culturali all’Università di Milano-Bicocca. Si è occupato del rapporto tra informazione e potere, della costruzione sociale della criminalità e della sicurezza, di sociologia del razzismo, di analisi del discorso.
Fabio Quassoli insegna Ricerca qualitativa e Comunicazione interculturale presso l’Università di Milano-Bicocca. Si è occupato di immigrazione, multiculturalismo, razzismo e sicurezza urbana. Di recente, ha coordinato una ricerca su “Social media, sfera pubblica e terrorismo”.