
In relazione a queste premesse di carattere generale il caso di Segre, in effetti, superata la penuria di notizie iniziale, si è rivelato fin da subito particolarmente interessante. Infatti, è emerso che sebbene si tratti di uno dei più importanti epigrafisti attivi nel corso degli anni Trenta e il suo nome venga citato in numerosi contributi specialistici e in quasi tutti i compendi di storia dell’archeologia e di storia dell’epigrafia, la sua vicenda umana continuava ad apparire per molti aspetti inesplorata. Sottolineare soltanto per sommi capi il suo fondamentale apporto alla storia degli studi classici ed epigrafici o le circostanze professionali in cui si trovò a compiere tali studi, rimanendo quindi costantemente alla superficie dei più rilevanti nodi biografici e storiografici, ha comportato la creazione di un’immagine di Segre del tutto priva di soggettività. Come se l’uomo e il ricercatore si fossero ad un certo punto divisi rimanendo intrappolati in una narrazione schizofrenica che del primo aveva rilevato quasi esclusivamente gli aspetti più tecnici e specialistici e del secondo soltanto pochi frangenti biografici per lo più legati alla persecuzione e alla tragica scomparsa. Nel mezzo, però, rimaneva un’intera vita da indagare e approfondire e soprattutto da inserire in uno dei tornanti storici più importanti della storia europea.
In seguito la “normalità” della sua esistenza, la sua mancanza di acuti, il suo essere refrattario alla polarizzazione degli opposti (pro o contro il fascismo, ad esempio), mi hanno convinto che, in fondo, la sua storia mi avrebbe consentito di osservare più da vicino le strategie, consapevoli o più spesso inconsapevoli, con cui tanti italiani di religione ebraica, la maggioranza forse, attraversarono il ventennio fascista e affrontarono le conseguenze della legislazione razziale e della deportazione. Alla fine si è rivelata la storia di un uomo (e di uno studioso) normale, vissuto e morto in tempi di criminale anormalità. E questo mi è sembrato giusto raccontare.
La parabola umana di Mario Segre appare del tutto simile a quella di molti altri cittadini italiani di religione ebraica colpiti dalle leggi razziste: quali scelte si trovò ad assumere, nell’autunno del 1938, lo studioso?
Quando mi sono trovato ad analizzare questo tornante decisivo della vicenda umana di Segre le domande che mi sono posto a più riprese sono state: quale fu la sua reazione dinanzi alla svolta antisemita del regime? Quali strategie mise in atto per superare quella tragedia? Ancora una volta il dato di partenza era la sostanziale apoliticità di Segre. Egli era sicuramente alieno da radicali posizioni antifasciste anche se è ipotizzabile che il suo orizzonte ideale non differisse di molto da quello del fratello Umberto già segnalatosi in gioventù per alcune riflessioni critiche nei confronti del regime e per essere vicino ai fratelli Rosselli. Del fratello Umberto, la cui vicenda possiede una propria specificità, parlo in un paragrafo specifico. Ciò che li distingueva era sicuramente il carattere, molto più riflessivo, pragmatico e forse incline al realismo e al compromesso, soprattutto lavorativo, quello di Mario, più inquieto, tormentato e in parte intransigente quello di Umberto. Mario, nei mesi precedenti la bufera antisemita, appare costantemente dedito alla propria attività di studioso e forse, al pari di molti altri ebrei italiani, faticò ad accettare l’idea dell’approssimarsi della persecuzione.
Il 3 settembre del 1938 però la stampa annunciò l’emanazione di uno specifico decreto legge – il n. 1390 pubblicato in Gazzetta ufficiale il giorno 5 – contenente i Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista. Questa volta anche Segre fu coinvolto direttamente in quanto professore universitario e docente distaccato presso l’Istituto di archeologia di Roma. Nell’autunno del 1938 Segre si trovava da quasi due anni alla guida di un importante progetto di edizione epigrafica per conto del Governo italiano a Rodi. Il piano editoriale da lui predisposto era sicuramento molto ambizioso: prevedeva l’edizione completa del patrimonio epigrafico di Rodi, Calchi, Scarpanto, Caso, Simi, Piscopi, Nisiro, Coo, Calino, Lero, Patmo e Stampalia da pubblicare in sei volumi divisi in fascicoli.
All’inizio di settembre lo studioso italiano fece un viaggio che lo portò prima ad Amsterdam, al primo congresso internazionale di epigrafia e poi a Londra per compiere alcune ricerche presso il British Museum. Una volta arrivato nella capitale inglese tentò un colpo di mano: contattò la Society for the protection of Science and Learning (SPSL), l’istituzione a cui si rivolse, proprio negli stessi giorni, l’amico e collega Arnaldo Momigliano, anch’egli costretto a lasciare la cattedra universitaria. L’intento era di trovare un’occupazione qualsiasi all’estero, un lavoro di ricerca o una borsa di studio. Il carteggio con la Society da me analizzato per la prima volta mette in luce i disperati tentativi, tutti purtroppo falliti, per trovare un futuro migliore fuori dall’Italia. Più tardi, nel febbraio del 1939, tentò anche la carta americana scrivendo all’Istitute of Internationl Education di New York che girò la richiesta d’aiuto all’Emergency Committee in Aid of Displaced Foreign Scholars. Anche in quel caso le speranze furono presto frustrate dalla risposta negativa della segreteria.
Se da un lato, insomma, cercò in tutti i modi di lasciare il paese, dall’altro lato tentò di non perdere la direzione del suo lavoro a Rodi prima riuscendo a rimanerne alla guida grazie alla compiacenza di Cesare Maria De Vecchi e poi assicurandosi che la guida scientifica venisse assunta da un suo amico e da una persona di cui aveva molta stima professionale: Giovanni Pugliese Carratelli. In questo modo riuscì, con intelligenza, a mantenere un certo controllo, seppure, nella seconda fase, indiretto, sul proprio lavoro.
Gaetano De Sanctis e Giovanni Pugliese Carratelli si adoperarono, assieme al fratello Umberto, perché al lavoro dell’epigrafista venisse riconosciuto il giusto valore scientifico: quale apporto diede, Mario Segre, alla storia degli studi classici ed epigrafici?
Premetto subito che il mio intento era di studiare la figura di Segre e la sua vicenda umana inserendola nel contesto storico del regime fascista e delle leggi razziali. Le mie competenze specifiche non mi permettevano di analizzarne nel dettaglio i lavori o di dare particolari giudizi sulla sua perizia scientifica. Ad ogni modo posso dire alcune cose.
Già nella sua tesi di laurea nella quale affrontò lo studio della Pariegesi di Pausania egli dimostrò da subito di avere una formazione poliedrica in grado di permettergli una prospettiva ampia di studio. Non a caso è stato scritto da Federica Berlinzani che l’opera risulta ancora oggi valida e preziosa «non solo per la luce che getta sulla critica storiografica di una fase storica così particolare come quella del Ventennio […] ma anche per il lucido e dotto sguardo con cui l’autore affronta il tema della propria indagine». Il testo oggi a nostra disposizione non è però lo stesso che il giovane Segre discusse all’Università di Genova perché il manoscritto pubblicato nel 2004 dalla nipote Vera Mugnano Segre comprende anche numerose successive annotazioni sull’argomento che risalgono sino al 1943 quando il ricercatore aveva ormai ampliato notevolmente le proprie conoscenze grazie a numerosi viaggi in Grecia e nelle isole del Dodecaneso. Esso, dunque, «si fonda sulla vasta conoscenza dello status quaestionis relativo alla Periegesi, ai suoi moventi ideologici e culturali, alle sue fonti, ma sa riconsiderare ogni elemento essenziale a partire dalla fonte stessa, dalle parole di Pausania, senza subire i condizionamenti della critica». Inoltre Segre dette «prova di una radicata conoscenza delle fonti antiche, quando, al fine di individuare attitudini e inclinazioni del Periegeta, istituisce confronti con altri autori contemporanei, dai sofisti fino a Plutarco e Luciano, figure di cui egli sa offrire profili acuti e profondi». La tesi di laurea di Segre, pubblicata nel 2004, ha attirato anche l’attenzione di alcuni recensori stranieri i quali l’hanno trovata davvero inusuale per il suo tempo sottolineando la tenuta generale di alcune proposte storiografiche di fondo benché, com’è ovvio, alcune argomentazioni risentano oggi della notevole distanza temporale rispetto a quando furono fissate su carta. Come, ad esempio, la sua interpretazione generale del mondo greco sotto il dominio romano che risulta piuttosto convenzionale in quanto dà per scontato un declino economico e culturale derivante da una lettura romanocentrica. Tuttavia, questa tesi era ben consolidata negli anni in cui scrisse Segre e, a sua difesa, bisognerebbe ricordare che non sarebbe stata davvero messa in discussione fino agli anni Novanta del ‘900. Di notevole importanza, comunque, rimane il suo ampio interesse per la cultura e la letteratura greca del periodo romano, un tema che sarebbe stato indagato con maggiore capillarità solo cinquant’anni più tardi.
C’è dell’altro. Uno dei tratti distintivi di Segre studioso di epigrafia è riscontrabile, fin dagli esordi, nel suo essere un “uomo d’azione”, un viaggiatore, dedito alla visione autoptica. Tutto questo emerge chiaramente dagli scambi epistolari con Della Seta: in Segre palpitava continuamente il desiderio di portarsi in loco per visionare di persona le iscrizioni oggetto dei suoi studi anche perché in molti casi riscontrò degli errori o delle imprecisioni sui lavori già editi, come nel caso delle iscrizioni di Mitilene. In questo slancio esplorativo degli angoli semisconosciuti delle petrose isole dell’Egeo ritroviamo però anche una naturale propensione, sulla scia degli insegnamenti della Scuola di Atene, a farsi di volta in volta non soltanto epigrafista ma anche archeologo, topografo e persino storico dell’arte.
Altre considerazioni. Nel corso del 1937 Segre si trovò a compiere alcune ricerche sull’isola di Calino le quali costituirono poi la base del saggio pubblicato l’anno successivo nel terzo fascicolo delle «Memorie» del Fert con il titolo Relazione preliminare sulla prima campagna di scavo nell’isola di Calino (agosto-novembre 1937). Ripercorrerlo consente di apprezzare maggiormente il metodo di ricerca dell’epigrafista e le sue ampie competenze che gli consentivano di andare molto oltre il solo studio epigrafico dei materiali di età ellenistica. L’esplorazione dell’isola descrive un approccio ampio e articolato nei confronti dell’indagine archeologica forse non del tutto scontato per un epigrafista e in particolare per uno studioso che vantava, a differenza di altri, una profonda conoscenza dei testi e dei documenti antichi senza però che questo lo avesse portato a limitare il proprio lavoro alla sola analisi epigrafica. Segre, ripeto, fu sempre un epigrafista “d’azione”, trascorse lunghi mesi nelle inospitali isolette del Dodecaneso, là dove i materiali antichi si nascondevano, spostandosi con fatica a cavallo dei muli, interrogando con pazienza le persone del posto per ottenere notizie o suggerimenti sulla localizzazione di antichi siti. Nel Dodecaneso Segre dimostrò anche di sapersi muovere con facilità ed erudizione tra i vari strati archeologici descrivendo con dovizia di particolari epigrafi greche, ellenistiche e romane ma anche strutture religiose paleocristiane.
Quali profondi contrasti attraversò, negli anni del regime, il mondo dell’antichistica italiana?
Mi occupo di questi aspetti in un corposo paragrafo all’inizio del terzo capitolo ma non posso dire di averne fatto il cuore del racconto. In realtà la vicenda di Segre appare, anche da questo punto di vista, leggermente tangenziale rispetto ai duri scontri che caratterizzarono l’ambiente dell’antichista italiana durante gli anni del regime. Il fascismo infatti individuò nella storia e in particolare nella storia romana un terreno dove era possibile tentare una colonizzazione culturale. Raccontare la storia antica significava, insomma, parlare dei prodromi stessi del fascismo che infatti attinse a piene mani dalla romanità, decine di studiosi, anche di valore, si piegarono a questa necessità. Segre riuscì a muoversi su un territorio neutro sia perché si occupava di storia greca, sia perché si occupava di epigrafia, un sapere, dunque molto tecnico più difficilmente piegabile agli interessi politici, sia perché non arrivò mai a scrivere delle ampie sintesi storiche. Non ebbe mai, dunque, la necessità di spiegare i grandi eventi storici come invece fecero molti suoi illustri colleghi con cui era in collegamento, su tutti Gaetano De Sanctis.
Quale tragica fine segnò il destino della famiglia Segre?
La famiglia Segre venne letteralmente devastata dalle leggi razziali e dalla deportazione. Ad Auschwitz morirono lui (39 anni), la moglie Noemi Cingoli (30 anni), il figlio Marco (non aveva ancora compiuto i due anni di vita), la madre Ida Luzzati (61 anni) e alla sorella Elena (33 anni). Il padre Giuseppe era morto qualche anno prima così come un altro fratello, Vittorio. L’unico a salvarsi, perché fuggito in Svizzera con la moglie e la figlia, fu il fratello più giovane Umberto, il quale, alla fine della guerra si trovò a dover gestire il peso di un dolore davvero difficilmente immaginabile. Resta un mistero il perché Segre non abbia tentato l’espatrio assieme al fratello. Probabilmente ebbe fino alla fine, o almeno fino alla retata nel ghetto di Roma, la speranza che il suo agnosticismo politico (il fratello Umberto non era nelle stesse condizioni) potesse preservarlo. Ma così non fu.
Federico Melotto è docente a contratto di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Mantova e assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Verona. È presidente dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea e dal 2019 dirige la Fondazione Fioroni – Museo e Biblioteca pubblica di Legnago (VR). Si è occupato prevalentemente di storia del fascismo, della Prima guerra mondiale e del Risorgimento.