
Inoltre la lettura rappresenta uno strumento culturale, cioè una risorsa che ha a che fare con le forme di vita, le norme e le visioni del mondo prodotte da un’epoca, con le negoziazioni che impegnano quotidianamente individui e gruppi sociali rispetto ai loro orizzonti di senso. Interrogarsi sulle pratiche di lettura comporta la messa in questione di alcuni processi culturali: non solo le strutture della vita sociale e istituzionale, ma anche le trasformazioni che riguardano i modi di vivere di soggetti che partecipano alla costruzione quotidiana e transindividuale della realtà empirica e simbolica.
In cosa si differenziano le diverse modalità di lettura?
Trovo molto utile riferirsi alle trasformazioni delle attività mentali connesse alla pratica quotidiana della lettura su un lungo periodo, cioè nella storia delle culture e delle innovazioni tecniche. Partirei da un esempio: a proposito dell’invenzione della stampa tipografica, Frances Yates ha sottolineato un cambiamento radicale nelle condizioni della lettura. Non più finalizzato alla memorizzazione – favorita fino al Medioevo dai manoscritti, grazie ad apparati di immagini, glosse e summae – l’atto di lettura si è liberato di un aspetto pragmatico che ha influito storicamente non solo sulle tecniche di conservazione dei testi, ma sulle modalità complessive di trasmissione dei saperi. Nello stesso periodo, la diffusione della lettura silenziosa, delle lingue volgari e dei libri stampati ha rappresentato un intreccio di condizioni storico-culturali con cui la lettura è entrata della modernità.
D’altra parte, è evidente come negli ultimi vent’anni la riflessione sulle trasformazioni dell’esperienza di lettura sia stata rilanciata per indagare come il nostro rapporto con le tecnologie digitali abbia modificato o starebbe modificando le relazioni possibili con i libri. Se già la tipografia moderna aveva cambiato il paesaggio della lettura, determinando un passaggio d’epoca in rapporto alla produzione e alla circolazione dei testi e dei saperi, è a partire dalla fine dello scorso secolo, con la quotidianizzazione della cultura digitale, che la disponibilità e le possibilità di accesso ai patrimoni letterari si è ulteriormente moltiplicata. Si tratta soltanto di un cambiamento quantitativo? Se si guarda la storia culturale della lettura, non si può non prendere atto dell’evidenza che tali innovazioni tecnologiche abbiano modificato profondamente l’ecosistema in cui facciamo esperienza della lettura (così come della scrittura). Solo a titolo di esempio, è utile richiamare la distinzione tra “leggere in digitale” (reading digitally) e “lettura digitale” (digital reading), per chiarire la differenza tra un tipo di lettura che riproduce su schermo il setting della lettura in formato cartaceo (libri elettronici ed e-reader), e un’altra pratica, che richiede invece una connessione costante con i contenuti interattivi e multimediali del mondo di Internet. Come ha scritto Francesco Guglieri in un saggio dedicato alle biblioteche e all’impatto che la cultura digitale ha avuto sulle idee di archivio e di consultazione, «i consumi culturali hanno smesso di essere un bene di cui faccio esperienza in un tempo preciso, isolato dagli altri, ma sono diventati più simili a un servizio che mi viene erogato, un flusso in cui sono perennemente immerso». Perciò, se mutano le cornici – che, in termini sociologici, definiamo framing – entro cui avvengono le nostre interazioni con i libri, occorre considerare attentamente le conseguenze di questi mutamenti nei modi di vivere e di praticare la lettura.
Quali risorse creative mette in moto la lettura?
Leggere non è una forma di consumo passivo, né un’attività recettiva a senso unico. La sua caratteristica principale è legata all’esercizio di facoltà combinatorie essenziali tanto per la comprensione testuale, quanto per la vita relazionale: pensare, immaginare, desiderare, conoscere, interpretare, elaborare, giocare, mettersi nei panni dell’altro, costruire trame, dare forma a orizzonti di senso. Tutto ciò ha molto a che fare con la creatività. Leggiamo perché abbiamo bisogno di narrazioni, perché siamo una specie narrante. Le storie ci servono per addomesticare il nostro rapporto con la realtà naturale e sociale, per aggiornare gli schemi che usiamo nel prendere coscienza delle trasformazioni che incidono sul nostro orizzonte di vita. Tendiamo a entrare in contatto con i mondi finzionali, parallelamente rispetto al contatto con il mondo empirico, per alimentare questo processo trasformativo, sperimentando altri modi di essere su un piano potenziale. L’apertura al possibile prodotta da questo contatto si traduce in un ampliamento delle situazioni, dei problemi, delle esperienze e delle emozioni che il lettore può imparare a riconoscere. Leggere un romanzo, porsi domande su come si leggono i romanzi, equivale a riflettere sul proprio modo di costruire relazioni e di lasciare libero uno spazio di manovra nei processi di conoscenza, di costruzione di sé e di comprensione dell’altro.
In questo senso, saper leggere implica la capacità di riconoscere che una parte del proprio orizzonte di senso è aperta all’imprevedibile irruzione di frammenti di altre vite, provenienti da altri mondi: pezzi di una realtà a volte perturbante, in grado di farci porre domande inattese e di trasformare le certezze apparentemente granitiche dell’immaginario dominante.
Che rilevanza assumono le pratiche di lettura per lo studio della vita sociale?
Per quanto sia comunemente considerata come un’attività individuale, fonte di un piacere solitario e in certi casi clandestino, la pratica di leggere ci dice molto sul nostro modo di vivere insieme, di condividere esperienze, di dare significato alla realtà, di provare piacere e di comunicare con gli altri. Alla luce di ciò, ho raccolto e analizzato un certo numero di interviste a lettori e lettrici intorno all’impronta biografica delle pratiche di lettura. Il racconto di un episodio di vita legato alla lettura – per esempio come è stato letto o riletto un certo libro, in una certa fase della propria vita – non può essere analizzato come un semplice fatto privato. È da intendersi, piuttosto, come il resoconto autoriflessivo di una pratica di soggettivazione: qualcosa di socialmente rilevante, una storia intimamente connessa alla sintassi del mondo reale. La lettura di finzioni letterarie – al di là dei giudizi estetici che fondano canoni, tipologie, generi e scuole – è un’attività che impegna ogni individuo in un esercizio di interpretazione, di memoria e di elaborazione del proprio vissuto. Ciò lo induce a rivisitare l’esperienza del mondo maturata nel corso della propria vita e, soprattutto, a costruire trame di senso che coinvolgono altre persone.
Leggere influisce sulla capacità di rendere il mondo abitabile, perché aiuta ad elaborare le esperienze. La sua pratica innesca un esercizio del senso del possibile e, insieme, un confronto con una pluralità di orizzonti di senso. Se ne colgono gli effetti nei processi di negoziazione legati al rapporto tra forme di vita e immaginario sociale, nei modi in cui rappresentiamo gli schemi interpretativi e i significati delle azioni, così come nei processi di conoscenza e di formazione del sé. Per dirla in termini molto sintetici, leggiamo per costruire qualcosa. È l’insieme di questi motivi a richiamare un interesse molto forte per le scienze sociali, in particolare per l’ambito della sociologia che individua nella vita quotidiana una dimensione generatrice e moltiplicatrice di manifestazioni visibili dei legami sociali e dei processi culturali.
Daniele Garritano svolge attività di ricerca nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria. Dopo il dottorato conseguito nelle Università di Siena e Paris 8, ha insegnato Sociologia all’American University of Rome e all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Tra le sue pubblicazioni Il senso del segreto. Benjamin, Bataille, Deleuze, Blanchot e Derrida sulle tracce di Proust (Mimesis, 2016) e Platonismo rinascimentale (Hachette, 2016).