
Come si dovrebbe configurare un’etica animale?
Credo che un’etica animale che voglia ambire a riflettere in modo sistematico ed efficace sul posto degli animali nelle nostre vite morali dovrebbe partire da una ricognizione, biologica e storico-genealogica anzitutto, dei molti modi della presenza degli animali nelle nostre vite. Un’analisi attenta, ad esempio, ci mostra che non c’è attività umana che non implichi un qualche coinvolgimento degli animali non umani. Questo accade anche allontanandoci dagli ambiti in cui ciò è più evidente (come l’alimentazione o la ricerca scientifica). A mio avviso, una ricognizione del genere pone dei vincoli ai nostri tentativi di analisi filosofica. Anzitutto, la constatazione della pervasività della presenza degli animali nelle nostre vite di individui (e della nostra specie e della nostra società) dovrebbe portare a riconoscere la difficoltà (se non l’impossibilità) di avere un’etica animale che riesca a proporre un’unica soluzione normativa per tutti i differenti ambiti di interazione con gli animali. Un lavoro fortemente “situato” può essere sicuramente più adatto e pertanto può essere utile dedicarsi ad analisi puntuali di contesti specifici, come l’uso alimentare degli animali, la ricerca scientifica o la conservazione della fauna selvatica. Ovviamente ci saranno alcune indicazioni generali che rimarranno comuni alle differenti opere di analisi. Per quanto mi riguarda, ad esempio, ritengo che nel campo delle relazioni con gli animali (e in genere in tutta la nostra vita morale) l’analisi debba tenere al centro il ruolo dei nostri sentimenti e della capacità di simpatizzare con gli animali, piuttosto che ricorrere alla razionalità e all’argomentazione astratta (come fanno ad esempio le teorie “classiche” di Singer e Regan). Se possiamo aspettarci una trasformazione e un “miglioramento” delle nostre relazioni con gli animali questi verranno, ad esempio, non da un generale riconoscimento del fatto che “tutti gli animali sono uguali”, ma da una trasformazione riflessiva dei nostri sentimenti e della simpatia che proviamo per gli animali nei diversi contesti in cui interagiamo con essi.
Cosa afferma l’antispecismo?
L’antispecismo è il concetto portante dell’etica animale così come viene declinata dai suoi fondatori. Il termine specismo (e il correlato antispecismo) viene coniato a Oxford da Richard Ryder nel 1970 e intende designare quel particolare errore morale che commettiamo nel momento in cui operiamo discriminazioni morali sulla base dell’appartenenza di specie, negando ad esempio il diritto alla vita a un animale solo per il fatto di non appartenere alla specie Homo sapiens. Il tipo di errore morale che commettiamo in questo caso è analogo a quello compiuto nei casi di razzismo e sessismo, laddove la discriminazione è operata attribuendo un significato morale a “razza” e genere. L’antispecismo, ovvero il rifiuto dello specismo, è – come dicevo – l’elemento portante dell’etica animale degli esordi (e di grande parte dei suoi sviluppi successivi). Comprendere il ruolo di questa nozione ci aiuta a capire come nelle teorie fondanti dell’etica animale giochi un ruolo fondamentale la nozione di uguaglianza. Riconosciuta l’irrilevanza dell’appartenenza di specie, è necessario individuare quelle capacità che, se possedute, garantiscono l’accesso alla cerchia della considerazione morale. Per Peter Singer, ad esempio, questa capacità è quella di avere interessi (la quale a sua volta si basa sulla capacità di provare piacere e dolore). Gli interessi, chiunque li possieda e indipendentemente dalla specie (sia esso un essere umano, un topo o un vitello), devono essere rispettati in modo uguale. Non farlo significherebbe essere specisti, appunto.
Al di là delle critiche che possiamo fare dei modi in cui la nozione di antispecismo viene declinata e impiegata teoricamente dai diversi approcci normativi, va riconosciuto che questa nozione si costituisce teoricamente a partire da un dato di fatto di cui la nostra riflessione morale sulle relazioni con gli animali deve tenere conto. Dopo Darwin, infatti, non possiamo più attribuire alcun significato sostantivo e normativo alla nozione di specie. Le differenze di specie non sono scritte in alcun progetto di creazione del mondo, ma sono classificazioni con le quali diamo ordine alla varietà del mondo vivente, un mondo caratterizzato da trasformazioni, estinzioni e parentele. Come Darwin scriveva nei suoi appunti preparatori alla Origine delle specie, i viventi, umani inclusi, sono tutti “legati in un’unica rete”. La posizione che noi umani occupiamo fra i viventi non è né centrale né gerarchicamente superiore e, così, gli altri esseri viventi che ci circondano non sono “fatti per noi” e costitutivamente al nostro servizio. Possiamo discutere criticamente sull’idea che il registro dell’uguaglianza (quello di Singer e Regan) sia il più appropriato per pensare le nostre relazioni con gli animali, ma la riflessione non può che muovere dalla radicale e irreversibile demolizione dell’antropocentrismo operata dalla teoria di Darwin.
Quali questioni etiche pone l’uso alimentare degli animali?
Come dicevo prima, il modo migliore per riflettere sulle questioni etiche in questo campo è esaminarne la dimensione empirica (anche in senso storico-genealogico) e contestualizzarle. A partire da questa premessa, quindi, non possiamo che rilevare la centralità dell’uso alimentare degli animali nella forma di vita umana. La relazione alimentare (prima nel contesto della caccia, poi in quello dell’allevamento) è la forma più antica e radicata di interazione con gli animali. Non si possono qui esaminare nel dettaglio l’importanza e il ruolo che ha avuto l’uso alimentare degli animali nella civiltà umana, ma possiamo limitarci a sottolineare che appare errato e fallimentare qualsiasi argomento che tenti di giustificare l’astensione da prodotti di origine animale (nella forma del vegetarianesimo o veganesimo, ad esempio) sulla base di una presunta “innaturalità” di tale pratica. L’uso alimentare degli animali (anche e soprattutto attraverso la domesticazione) è un tratto che definisce la specie umana e che ha ben precise spiegazioni nel suo percorso evolutivo. Ovviamente il fatto che le cose stiano così non significa che noi oggi non abbiamo ragioni morali per limitare o eliminare del tutto l’uso alimentare degli animali. Queste ragioni possono apparire particolarmente evidenti nel momento in cui riflettiamo sulle modalità oggi prevalenti della produzione animale, almeno nel pezzo di mondo in cui viviamo. L’allevamento intensivo di tipo industriale, infatti, porta sulle nostre tavole carne a prezzi molto convenienti (ma anche derivati come latte e uova) ad un costo altissimo per gli animali, la cui breve vita trascorre in uno stato di estrema privazione e sofferenza. Immaginare la vita di un animale in condizioni come quelle imposte da queste metodiche di allevamento può condurre le persone a considerare criticamente le proprie abitudini alimentari e a modificarle. Nel riflettere sulla scelta vegetariana/vegana tuttavia dobbiamo anche sottolinearne le difficoltà rispetto allo sfondo sul quale si realizzano. Veganesimo e vegetarianesimo si configurano come scelte che a un certo punto della nostra vita possiamo intraprendere, ma l’uso alimentare degli animali è quasi sempre un’abitudine che noi riceviamo in eredità. A parte rari casi (che probabilmente in futuro diverranno sempre più frequenti), noi nasciamo onnivori, ovvero acquisiamo dalla famiglia e dalla società abitudini che prevedono l’uso alimentare degli animali. Decidere di cambiare queste abitudini a un certo punto della vita non significa solo decidere che da un giorno all’altro sostituiremo l’hamburger di manzo con uno di soia. Questa sostituzione è anche un cambiamento in qualche misura della nostra “identità”, ovvero di chi siamo e vogliamo essere, nonché di che posto occupiamo nella cultura e nella società in cui siamo nati.
La sperimentazione animale è legittima?
Prima ancora di chiedersi se la sperimentazione animale sia legittima dovremmo prendere atto del fatto che la ricerca che fa uso di animali è una realtà della pratica della scienza e che essa produce risultati preziosi e innegabili in termini di incremento delle conoscenze e di applicazioni benefiche e terapeutiche per gli esseri umani (e non solo per gli umani). Argomentare contro la sperimentazione animale sostenendo che essa è inefficace significa non cogliere un dato di fatto che, anche se di per sé non la giustifica in assoluto, deve essere considerato il punto di partenza della riflessione. Un ulteriore elemento di cui va preso atto è che, fra tutti gli ambiti di interazione con gli animali, la ricerca è quello in cui si sono realizzati i cambiamenti più considerevoli e in cui si sono attuati gli interventi legislativi più rilevanti. Nel contesto europeo, ad esempio, oggi abbiamo la Direttiva 2010/63 che, varata per sostituire la precedente Direttiva 1986/609, amplia di molto il suo ambito di applicazione, valendo in tutti i casi in cui in gli animali sono coinvolti in procedure «suscettibili di causare un dolore, una sofferenza, un’angoscia o un danno prolungato equivalente o superiore a quello provocato dall’inserimento di un ago conformemente alle buone prassi veterinarie» (una soglia estremamente bassa, va sottolineato). In questi casi allo sperimentatore viene chiesto di procedere con il cosiddetto metodo delle tre R, ovvero di valutare la possibilità di utilizzare un modello non animale (Replacement), nel caso in cui utilizzi animali di ridurne il numero al minimo indispensabile per avere un risultato statisticamente significativo (Reduction) e infine di tutelare e promuovere attivamente il benessere degli animali utilizzati nelle diverse fasi della loro vita e non solo durante la procedura sperimentale (Refinement). Se poniamo attenzione a questo metodo ci rendiamo conto di come la questione della sperimentazione non si configuri solo come discussione sulle alternative alla ricerca su animali, ma anche – e soprattutto – circa le alternative nella sperimentazione. Più interessante e utile della domanda sulla legittimità in assoluto della sperimentazione sembra quindi essere la discussione su come trasformare tale pratica, riducendo il numero di animali utilizzati e migliorandone le condizioni di utilizzo (che – va ricordato – nella stragrande maggioranza sono roditori, simili a quelli che nelle nostre città vengono considerati nocivi e infestanti e di conseguenza sterminati in modi spesso crudeli e con sofferenze che sono assenti nelle attuali procedure sperimentali). Noi oggi non siamo in grado di prevedere se arriveremo a un punto in cui la sperimentazione che fa uso di animali non sarà più necessaria, ma quello che sappiamo è che se a tale risultato si arriverà sarà solo grazie a trasformazioni graduali affidate alla comunità dei ricercatori e al loro dialogo con la società nel suo complesso.