
Quando e come nasce il concetto di tirannia?
La parola “tirannide” compare già nel ‘big bang’ della nostra civiltà, cioè nell’antica Grecia; sconosciuta ancora in Omero, compare con un altro poeta, Archiloco (VII sec a.C.), che la riferisce al re Gige. Siamo al limite del mito, ma proprio questo dimostra quanto forza d’impatto ebbe la questione nell’immaginario collettivo e nella riflessione successiva.
La locuzione, peraltro, all’inizio non presentava un’accezione negativa; l’assume successivamente, quando la locuzione si fa carico dell’evocazione di (dis)valori politici di origine orientali: il tiranno cioè assume le fattezze del despota orientale, l’avversario-tipo, l’antagonista per definizione della polis greca.
L’uccisione di Cesare rappresenta probabilmente il paradigma stesso di tirannicidio: in che modo esso costituí il terreno di cultura di un plurisecolare dibattito giuridico-morale?
Esatto: l’uccisione di Cesare divenne, per molteplici fattori, l’immagine archetipica del tirannicidio. Ancora nel tardo medioevo alcuni famosi assassinii politici vennero percepiti (o fatti percepire) come ‘cesaricidio’. Un esempio: la mattina del 27 dicembre 1476 Galeazzo Maria Sforza, figlio di Francesco Sforza (primo duca di Milano) e Bianca Maria Visconti, si recano alla chiesa di Santo Stefano per la tradizionale cerimonia postnatalizia, seguito da un nutrito corteo di notabili e dignitari. Giunto a metà della chiesa, tre giovani gli si avvicinano, uno dei quali chiede di potergli presentare una supplica per una certa questione con il vescovo di Como. Giunto davanti a Galeazzo, costui, Gian Andrea Lampugnani, sferra una pugnalata all’inguine del duca, colpito poi da altri fendenti mortali. L’assassinio di Galeazzo Maria seguiva quello – ancora con similare esecuzione – di Giovanni Maria Visconti. Le modalità dell’assassinio di Galeazzo Maria Sforza, dunque, richiamavano apertamente quelle del cesaricidio (la simulata petizione di grazia, la pugnalata all’inguine), a riprova che quest’ultimo permaneva come «archetipo» della soppressione del tiranno, conservando tutte le ambiguità aggrumate intorno a quelle fatidiche idi di marzo del 44 a.C.
Illuminante un altro famoso esempio. La notte del 6 gennaio 1537, Alessandro de’ Medici veniva infilzato dalla spada di Lorenzino (altrimenti chiamato Lorenzaccio) de’ Medici. Questi pubblicò una Apologia in cui evocava Nerone, Caligola e una lunga galleria di «cesari», alludendo indirettamente a sé come a «Bruto liberatore», ma alludendovi invece esplicitamente nella medaglia che egli fece coniare dove appare in abito romano e in cui la scritta VIII idus Januarii (idi di gennaio, corrispondenti al 6 gennaio) tra i due pugnali riprende palesemente il celebre denario di Bruto. La effige di Bruto continua dunque in pieno XVI secolo ad essere il suggello della lotta al tiranno in nome delle libertà repubblicane, e l’Apologia di Lorenzino, anche grazie alla sua abile cifra retorica ne rappresenta una «fase mediatica» di forte impatto negli ambienti rinascimentali italiani, veicolando al contempo i profili giuridici che essa accoglieva. Ciò, a mio avviso, si verifica per un motivo preciso e di forte rilevanza giuridica: se vi è un cesaricidio, vuol dire che vi sono dei cesaricidi, cioè Bruto e Cassio, visti come tirannicidi e in quanto tali non puniti per la congiura di cui furono commessi. Perché qui sta un paradosso che resta una cifra del tirannicidio, essendosi già presentato con il tirannicidio di Ipparco da parte di Armodio e Aristogitone (divenuti i Tirannicidi per definizione): gli esecutori dell’omicidio non vengono puniti, perché la vittima era appunto un tiranno, ma gli atti, anche normativi, compiuti da quest’ultimo non vengono annullati (come dovrebbe essere invece nei casi di usurpazione e/o abuso del potere sovrano).
Come si articolò il dibattito sulla liceità del tirannicidio durante il Medioevo e in età moderna?
Il dibattito fu lungo e articolato, anche perché la dottrina cristiana non poteva ignorare il problema. (ed infatti dai Padri della Chiesa fino alle encicliche del XX secolo la questione sarà affrontata con prudenza ma senza infingimenti). Sarà tuttavia un giurista, Bartolo da Sassoferrato (XIV secolo) a fissare nel suo trattato De tyranno i punti fermi di una vera e propria dottrina giuridica, distinguendo una tirannia ex defectu tituli (potremmo dire, l’ipotesi di usurpazione) e una tirannia ex parte exercitii (ipotesi di abuso del potere).
La riflessione medievale si saldò successivamente con il giusnaturalimo moderno, che presuppone l’esistenza di una legge naturale sottesa al pactum unionis e al pactum subiectionis, al contratto sociale a fondamento del potere del sovrano, che quest’ultimo deve rispettare.
Nel caso di gravi violazioni (sostanzialmente quelle che rientrano nella ‘tassonomia’ tracciata da Bartolo), i sudditi hanno uno jus resistentiae che alcuni autori spingono fino al diritto di resistenza attiva e di uccisione del tiranno (come il gesuita Juan de Mariana).
Quale evoluzione ha caratterizzato l’indagine sulla legittimità del tirannicidio durante l’età contemporanea?
In età contemporanea si assiste a mio avviso ad una virata: le categorie giuridiche cedono il passo alle valutazioni politiche: gli irredentismi nazionalisti del Risorgimento, il movimento anarchico (pensiamo alle riflessioni dell’ucraino Dragomanov), la rivoluzione bolscevica, gli irredentismi nazionalisti spostano il baricentro: dai trattati giuridici de tyranno la questione dell’abbattimento istituzionale, e fisico, del sovrano (inteso come titolare del potere appunto sovrano) si sposta sui pamphlet e sui manifesti politici. Del resto anche la figura del tiranno sfuma e si consolida quella del dittatore
La figura del tiranno è oramai incarnata dall’oppressore, che poteva presentarsi in una duplice veste: politico-economica (oppressione di una classe sociale, da parte di una casta autocratica o di una altra classe sociale, come denunciava Marx) o imperialista (oppressione di popolazioni, sottomesse ad una sovranità percepita come estranea e nemica).
Nel solco delle rivendicazioni anarchiche, l’eliminazione fisica dell’avversario politico, insomma, si giustificava in re ipsa, a prescindere da quel processo di «istruttoria» giuridica sull’esistenza di condizioni legittimanti che, pur diversamente declinato nelle epoche precedenti, non aveva mai fatto difetto in occasione dei tirannicidi.
Il tirannicidio costituisce oggi un’opzione moralmente e giuridicamente accettabile?
Credo si possa intravvedere oggi un ritorno di una dimensione giuridica entro la quale, e soltanto entro la quale, risulta accettabile e «gestibile» l’eliminazione anche fisica (pur come extrema ratio) di un capo di Stato. Voglio dire che stiamo assistendo al consolidarsi di un nuovo criterio condiviso a livello internazionale (quanto meno nel mondo occidentale) per valutare la «soglia di tirannia» ex parte exercitii (nell’esercizio del governo statale), oltrepassata la quale (commettendo crimini contro l’umanità o violazioni dei diritti umani) è legittimo l’uso della violenza per eliminarne l’autore. Nuovo criterio che è il punto risultante dai due «assi cartesiani» dell’assetto giuridico internazionale ONU e Dichiarazione universale dei diritti umani, la prima come soggetto super nationes che agisce in forza dei principii della seconda.
Va d’altro canto detto che i crimini perpetrati dai «tiranni» dell’età contemporanea a cavaliere tra XX e XXI secolo, da Milosevic a Saddam Hussein a Gheddafi, hanno infatti costituito l’aition, la causa (forse negli ultimi due casi piuttosto la prophasis, il pretesto) rispettivamente dell’intervento NATO nel Kosovo nel 1999, della seconda guerra del Golfo nel 2003, e dei bombardamenti in Libia nel 2011; ebbene, nessuno di tali interventi fu autorizzato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite; eppure se ne sostenne da più parti, oltre alla opportunità in fatto, la legittimità in diritto.
Circostanza che dimostra quanto ancora problematica sia la questione del tirannicidio e quindi, credo, quanto valga la penna studiarne le dinamiche e le morfologie storiche.
Aldo Andrea Cassi insegna Antropologia Giuridica e Storia del Diritto all’Università degli Studi di Brescia. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La Giustizia in sant’Agostino. Itinerari agostiniani del ‘quartus fluvius’ dell’Eden (2013), Santa Giusta Umanitaria. La guerra nella civiltà occidentale (2015) e Dalle barricate a Bava Beccaris. Giuseppe Zanardelli, un giurista nell’Italia del secondo Ottocento (2019).