“Tutto fa Storia. Analisi di un genere televisivo” di Sara Zanatta

Prof.ssa Sara Zanatta, Lei è autrice del libro Tutto fa Storia. Analisi di un genere televisivo edito da Carocci: quando e come nasce il genere della Storia in televisione?
Tutto fa Storia. Analisi di un genere televisivo, Sara ZanattaPossiamo dire che la Storia in televisione (soprattutto nella forma di «storia-battaglia») nasce con la televisione stessa e ne accompagna poi l’evoluzione fino ai giorni nostri. Nonostante i documentari di argomento storico non costituissero un genere a sé stante e fossero limitati a pochi e saltuari appuntamenti, è indubbio che costituirono un elemento di pregio delle prime serate televisive. Mi ha molto colpito, ad esempio, che le trasmissioni regolari del secondo canale del servizio pubblico inglese e italiano iniziarono proprio con una programmazione storica dedicata alla Grande Guerra: sul Secondo Programma, il 4 novembre 1961, andarono in onda uno sceneggiato su un’impresa di un battaglione della Brigata Sassari (La trincea di Giuseppe Dessì) e un documentario sui soldati semplici della Grande Guerra (Tutti quei soldati di Quarantotti Gambini); qualche anno dopo, il lancio di BBC Two fu legato a The Great War, una serie in 26 puntate destinata a diventare “la” pietra miliare del documentario storico. Non solo quindi diedero lustro a un mezzo nuovo che cercava di legittimarsi presso il grande pubblico, ma alcune serie fortunate serie americane (Victory at Sea, 1952), francesi (La caméra explore le temps, 1957-1966), inglesi (la già citata The Great War, 1964), tedesche (Das Dritte Reich, 1960-1961) entrarono anche nella cultura popolare e fissarono i canoni dello stile documentaristico successivo. Pochi programmi storici della Rai delle origini possono dirsi davvero memorabili, invece: all’inizio erano trasmissioni serissime, elitarie, in nome di una divisione nettissima tra intrattenimento/spettacolo e divulgazione/informazione. Due aspetti vorrei però ricordare di quel primo periodo: da una parte, la celebrazione dell’anniversario quale motore della messa in onda, una costante strategica del genere anche oggi, dall’altra, la vistosa assenza di programmi dedicati a fascismo, antifascismo e resistenza, destinati solo più tardi a diventare il tema più popolare (e seguito) del genere.

Se dovessi citare un titolo italiano per quei primi anni, mi piace ricordare Cinquanta anni di storia italiana (1958-1959), curata dal giornalista Silvio Negro per la regia di Gian Vittorio Baldi. La serie sollevò un vespaio da destra a sinistra, fu accusata di superficialità e falsificazioni, moralismo e retorica: segno che in qualche modo aveva fatto centro. Anche a detta di altri colleghi, rappresentò il primo tentativo da parte del Servizio programmi culturali e speciali della Rai di proporre un modello di genere autonomo e strutturato da cui poi scaturirono il filone dell’indagine sociale e dell’indagine storica, appunto.

Quali sono il ruolo e le strategie editoriali dei canali “specializzati”?
Innanzitutto bisogna dire che solo a partire dalla seconda metà degli anni Novanta la Rai smise di avere il monopolio sulla divulgazione storica in televisione, quando le reti generaliste prima, in particolare Rete Quattro e La7, e i canali tematici poi, iniziarono a loro volta a cimentarsi nel genere. E se l’offerta delle prime – con programmi come La macchina del tempo (1997-2006) o Altra storia (2002-2007) – non fece che ricalcare le modalità di racconto storico tradizionali del servizio pubblico (il giornalista-curatore, lo studio televisivo, la funzione informativa come elemento dominante), i secondi, chiamati a coprire un flusso giornaliero di programmazione specialistica, iniziarono a mostrare nuove sfumature del racconto storico, via via più vicine all’intrattenimento puro. La vera novità che Sky fa intravedere e il digitale terrestre fa esplodere è che tutti quei contenuti educativi, quelle trasmissioni culturali, quei documentari sulla storia, sull’arte, sulla scienza, che per anni avevano sofferto di una marginalizzazione palinsestuale, produttiva, promozionale, finalmente si riproponevano nella dieta mediatica del pubblico e riscuotevano anche un discreto successo. Così oggi abbiamo canali propriamente tematici, come Rai Storia e History, dove la Storia costituisce il cuore dell’identità di rete (brand), e canali specializzati (gli inglesi usano l’espressione specialist factual) in contenuti divulgativi e/o culturali, da Focus a Sky Arte, che dedicano alcune fasce del loro palinsesto ai contenuti storici. In entrambi i casi, è fondamentale che la storia trovi la giusta collocazione rispetto all’immagine che il canale vuole dare di sé, parli un linguaggio riconoscibile e distintivo, sia capace di richiamare l’attenzione del target previsto. Un aspetto che emerge nell’immagine di brand che ciascun canale con una pianificata programmazione storica si è dato è che la storia in televisione non è più quella di una volta, non è quella dei libri, non è in buona sostanza solo Storia: è evidente infatti il tentativo di allargare (a volte a dismisura) i confini del concetto e i territori di competenza del genere, attraverso un’estensione disciplinare (alla storia delle culture, delle arti, della scienza, alle biografie) e simbolica (a privilegiare la natura viva e attuale del discorso storico). Un secondo elemento che mi sentirei di attribuire ai canali “specializzati” è il fatto di aver affinato la scelta dei contenuti storici sulla base di alcuni criteri ricorrenti. Tra i “valori desiderabili” del genere storico – almeno da parte del producer televisivo – possiamo citare la notiziabilità del tema (un tempo riconoscibile e ancora popolare), l’esclusività della narrazione (estetica innovativa, elementi narrativi inattesi, forte carica emotiva), la telegenia dei personaggi (da questo punto di vista, le reti lamentano una carenza di divulgatori sullo stile di quelli britannici). Alcuni programmi poi sono più importanti di altri: per valore produttivo, perché sono un prodotto originale e non adattato (acquistato, tradotto, integrato) per il mercato italiano, perché trattano di un tema di richiamo (tematica d’attualità declinata al passato o anniversario di un evento passato). Di conseguenza, è qui che si concentrano anche le energie di programmazione: è attorno a questi «pilastri» (pillars) che si consolida il brand, si definisce il resto dell’offerta, si costruiscono «eventi» sostenuti da campagne promozionali dentro (on air) e fuori il canale, oltre che da una circolazione di prodotti diversificati (libri, dvd, siti). L’anniversario della Grande Guerra (soprattutto nel biennio 2014-2015) ne è stato un esempio emblematico.

Queste cose non le dico io, ma chi in televisione ci lavora. Nel mio libro infatti riporto molti stralci di conversazioni avute con donne e uomini di televisione impegnati a vario titolo nella produzione di Storia: mi hanno raccontato molto del loro lavoro, ma più in termini di pratiche che di vere e proprie strategie. Non era tanto la dimensione strategico-operativa che mi interessava (la lascio volentieri a chi si occupa di marketing e se ne intende molto più di me), quanto la dimensione denotativo-narrativa: come si raccontano insomma questo genere televisivo coloro che quotidianamente lo pensano, lo palinsestano, lo promuovono, ecc. Ne è uscito un mondo davvero composito, a cui questa risposta sintetica, e forse un po’ erratica, non rende giustizia.

A cosa si deve il boom della public history?
Public history is the new cooking mania, mi verrebbe da dire. Nel senso che la storia nella sua forma divulgativa, come del resto il cibo nella sua dimensione sociale, è un aspetto cardine, costitutivo in un certo senso, della cultura di un popolo. Per questo temo che l’abuso del termine public history abbia finito per oscurare la complessità del fenomeno. Come sottolinea Serge Noiret, la “public history” va intesa come una «più vasta concezione della storia concepita per essere trasportata verso un largo pubblico di non addetti ai lavori, usando i mezzi moderni di comunicazione per farlo»: la radio, la televisione, il cinema, e poi la rete che ha riscritto le regole della “disciplina”. Le ragioni della sua esplosione a partire dagli anni Novanta (per la televisione anche primi Duemila) vanno ricercate nell’inedita fame di storia, un desiderio di consumo che da marginale/elitario diventa mainstream, e nell’immissione di nuovi storici nel libero mercato, non accademico. Da una parte, credo sia andata diffondendosi la volontà, anche da parte di chi sta fuori dal mondo accademico, di comprendere i problemi attuali alla luce della Storia, di problematizzare l’analisi degli eventi presenti attraverso la lettura informata di quelli passati, senza per questo rinunciare al piacere di una fruizione non specialistica, anzi professando il diritto a una storia più “attraente”. Dall’altra parte, la public history quando si è imposta, prima nel mondo anglosassone e poi per derivazione anche altrove, ha contrastato la crisi della storia e, soprattutto, degli storici creando un nuovo sbocco professionale, alternativo o integrativo a quello universitario. Poi credo che in Italia abbiano giocato una parte importante in questa riscoperta della storia in salsa pop sia le celebrazioni “tonde” di alcuni anniversari (il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia) sia la realizzazione di nuovi musei e spazi espositivi (il Museo del Novecento a Milano) e la valorizzazione di molti archivi. C’è un libro, Consuming history di Gerome de Groot del 2008, che ha documentato molto bene quell’ondata di “nuova storia” che ha interessato non solo il mondo della televisione, ma anche quello dei videogiochi, della narrativa, dei musei, ecc.

Cosa rappresenta il genere televisivo storico nel contesto italiano?
In Italia, la Storia in televisione è sempre stata trattata con un certo timore reverenziale. Forse troppo. Come dicevo prima, la Rai ne è stata lungamente la monopolista, spesso limitandosi a un’operazione di recupero del suo preziosissimo archivio, le Teche Rai, che tradiva però una limitata spinta all’innovazione del racconto storico, soprattutto della sua estetica. Questo per dire che non sempre la storia in televisione è stata piacevole da vedere. Oggi il genere in Italia si presenta piuttosto invariante per quanto riguarda i temi (anche se forse vanno esaurendosi i grandi eventi e i personaggi illustri in favore delle “piccole storie”) e le intenzioni (si tende a favorire sempre più la nostra immersione nel passato e la comprensione emotiva, al limite dell’identificazione, con il personaggio storico/testimone), mentre non lo è affatto rispetto ai formati dal momento che finalmente si sono imposte modalità miste di racconto, fatte di elementi tradizionali e altri più “moderni” come l’uso della grafica animata (il delizioso Destini incrociati hotel su Sky Arte) o di inserti in stile reality (penso al recente successo di una serie come Il collegio su Rai 2). Da non trascurare poi il potere del luogo nella nuova definizione del genere, ovvero un’idea forte di “nazione” che vuol dire anche la valorizzazione del nostro patrimonio storico, artistico, culturale. Un’idea che, pur adattata alle diverse esigenze promozionali e di scuderia, si richiama ai Viaggi in Italia della Rai delle origini.

Quali caratteristiche specifiche presentano i documentari storici?
Le due forme più classiche di documentario storico sono il documentario con presentatore e il documentario di montaggio, cosiddetto perché usa sequenze di filmati originali commentati da una voce fuori campo e accompagnati da una musica (di solito bella possente!). Poi arrivarono le interviste a scombinare entrambi i formati. Tra i programmi della Rai, ad esempio, Vent’anni di Repubblica, del 1966, di Hombert Bianchi rappresentò un’innovazione: per la prima volta i politici di allora, da Nenni ad Andreotti, diventavano la voce narrante del racconto con il compito di richiamare alla memoria e spiegare gli eventi, supportati dalle immagini di repertorio. Anche se va detto che il genere intervista storica in televisione ha un maestro assoluto in Sergio Zavoli: Nascita di una dittatura e La notte della Repubblica (andate in onda rispettivamente nel 1972 e nel 1989-90) sono serie che chi vuole fare questo mestiere dovrebbe studiarsi con attenzione.

In ogni caso, il presentatore, il repertorio, le testimonianze sono elementi che hanno avuto alterne fortune nella forma documentaristica e che vivono ormai di una continua contaminazione tra loro e soprattutto con il linguaggio della fiction: l’uso di ricostruzioni in computer-grafica (CGI) e con gli attori (renactment) stanno infatti alla base di quello che viene chiamato dramadoc, sempre più usato non solo per rappresentare storie pre-mediali (delle quali mancano fonti filmabili) ma anche per la storia contemporanea (per evitare fonti usurate perché ampiamente viste e trasmesse). Di fatto le convenzioni del drama diventano il filo per cucire insieme un tessuto di informazioni doc e contribuiscono a cambiare la percezione di ciò che è storicamente autentico e a collegare sempre più il racconto della storia all’espressione delle emozioni che la animavano. Proprio in virtù di questa commistione di forme si parla spesso di factual history per indicare l’adesione del genere storico al mondo factual, parola chiave della televisione del terzo millennio che ne indica la forte adesione al reale, nelle forme e/o nei contenuti.

Quali sono i limiti e le opportunità per il genere storico nella televisione italiana, di stato e non?
Diciamo che questa domanda contiene le due antitetiche posizioni rispetto al genere storico in televisione. Gli studiosi più scettici vi hanno intravisto il rischio (se non addirittura l’effettivo danno) di una iper-semplificazione del sapere in cui la conoscenza è privata di uno sguardo critico e la disciplina della storia si riduce a mero oggetto ornamentale; altri invece vedono nella televisione, e nei media in generale, delle vere e proprie istituzioni della memoria e plaudono a ogni iniziativa di conservazione e narrazione di un passato audiovisivo. Non mi ritengo né apocalittica né integrata, come si dice in gergo, ma ho sempre un po’ di timore nel rispondere a questo tipo di domande, per via di quel labile confine che separa, in questo caso, il mio pensiero di studiosa e le valutazioni dettate dal gusto personale, un’aspettativa critica e una rocambolesca previsione sul futuro. Perciò mi verrebbe semplicemente da dire che i limiti del genere storico sono gli stessi di un qualunque prodotto televisivo: ha bisogno di rispondere a una domanda consistente, ovvero di trovare un pubblico numericamente significativo e/o qualitativamente rilevante. E non avere la presunzione di non doversi preoccupare del pubblico per il solo fatto di parlare di Storia: a volte ho l’impressione che la storia in televisione parli a chi già la conosce, a chi si autocompiace perfino di saperne più dell’esperto. È un peccato, ma anche un’opportunità. Anzi una grande responsabilità: quella di continuare a lavorare sui linguaggi, di aprirsi a una nuova generazione di storici e storiche (freschi dei tanti master, corsi e laboratori sul tema), di diversificare la propria offerta specifica per riuscire a parlare anche a chi la storia non ha mai smesso di considerarla una materia noiosa.

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