Aiutami Madonnina mia!»
Accanto a me ritrovo uno sconosciuto, sembra san Francesco, solo allucinato, sporco, secco da fare paura, ha un accendino in mano. L’odore di bruciato sono i miei capelli, sta dando fuoco alla mia testa.»
Ecco alcune delle prime righe di Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli, romanzo vincitore, nel 2020, del Premio Strega Giovani, edito da Mondadori.
Protagonista e lettore piombano tra i cosiddetti matti: si ritrovano infatti in una stanza del reparto psichiatria per soggetti sottoposti a trattamento sanitario obbligatorio (TSO).
È il giugno 1994, estate di mondiali. Daniele Mencarelli, vent’anni e una sola passione, quella per la poesia, ha avuto un’esplosione di rabbia che ha causato al padre un malore. Il comune di residenza e il tribunale di Velletri dispongono per lui il nulla osta: Daniele è obbligato al ricovero e a ricevere le cure, come richiesto dal dott. Cimaroli. Sette i giorni di TSO, sette i capitoli del romanzo. Cinque i compagni di stanza: Gianluca, Giorgio, Mario, Madonnina e Alessandro. I sei, isolati dalla società perché pericolosi ed estremamente fragili, si ritrovano ad aiutarsi e a prendersi cura di sé stessi più di quanto non facciano gli infermieri Pino, Rossana e Lorenzo. Questi ultimi, impauriti e dediti alla professione più per amore del guadagno che dei pazienti, sono spesso negligenti. Non manca un episodio dove Pino si mostra abusante. I colloqui con gli psichiatri Mancino e Cimaroli, cui Daniele partecipa, sono avvilenti anch’essi. Mancino repelle la comunicazione con il paziente, vedendo la malattia mentale come una questione esclusivamente chimica e scientifica. Cimaroli sembra all’inizio più accogliente e Daniele ripone fiducia in lui, tanto da preparare una poesia per il loro successivo incontro. Tuttavia, anche lui non lo farà poi sentire più che un fascicolo da compilare. Poco prima della fine dell’internamento coatto, Mario cade dalla finestra per un incidente. L’intero reparto è in subbuglio. Alla notizia che è sopravvissuto, i cinque rimasti chiedono di poterlo andare a trovare: la richiesta gli viene negata. Esplode la furia dirompente di Giorgio, che ferisce medici e infermieri. Daniele uscirà dalla struttura senza aver salutato né lui, recluso in prigione, né Mario, portando dentro sé lo stesso desiderio di sempre: salvezza. Per tutti loro.
Una stanza con sei letti, un bagnetto logoro, un corridoio e una sala con tavolo per i pasti, un divano e una televisione, lo studio dei dott. Cimaroli e Mancino: qui è dove coabitano i sei e dove si intersecano le vicende che costituiscono la narrazione. Solo nel paragrafo conclusivo del romanzo la vista e le sensazioni si allargano, giusto per un istante, sul mondo esterno. Nella condizione di libertà negata, Daniele rivive gli ordinari momenti del passato, che gli paiono oro, e immagina quanto possano fare parenti e amici mentre lui è costretto lì dentro, tra i matti. Mai la quotidianità gli era parsa tanto desiderabile.
Il lettore entra nel claustrofobico luogo del romanzo attraverso i pensieri, i sentimenti e soprattutto la disperazione di Daniele, una prima persona. Un ragazzo di vent’anni che sa che cosa comporta, per le persone che più lo amano, sapere che lui è lì. Un ragazzo che sa di essere la mela marcia di una famiglia che, per l’amore e la responsabilità con cui i genitori hanno cresciuto lui e i fratelli, è quanto di più desiderabile, e di cui lui costituisce l’unico, ma straziante, problema. È lui stesso a descrivere il male che l’ha afferrato e che lui non ha mai saputo scacciare; il desiderio che quel qualcosa di disfunzionale che ha dentro sempre pretende, inappagabile:
«Ero bambino quando mi ritrovai, per la prima volta, ad abbracciare mio padre con uno strano sentimento serrato tra le mascelle. Quell’abbraccio mi sembrava l’ultimo, come un congedo. Un addio. Dopo quel primo ne sono arrivati milioni di altri. A lui. A mia madre. A tutti quelli che il mio amore custodisce e vorrebbe proteggere. Perché devo vivere questa maledizione? Anche io, come tutti qui dentro, sconto la mia condanna, ognuno con la sua ossessione da svolgere, all’infinito. (…) Eccola la mia ossessione, il mio desiderio patologico. Salvezza. Dalla morte. Dal dolore. Salvezza per tutti i miei amori. Salvezza per il mondo.»
Il reparto psichiatria, gli infermieri e gli psichiatri, vengono vivisezionati dall’esperienza diretta di Daniele e scoperti per quello che sono: non un’occasione di cura, vera e definitiva, per coloro che vi entrano, ma solo l’ennesimo contesto indifferente e potenzialmente dannoso per le fragili personalità di tali individui. Si tratta anzi di un luogo perfetto perché la pazzia di costoro si alimenti. Nel romanzo, non c’è un infermiere o un medico che sia, fino in fondo, un elemento positivo. Tutti, prima o poi, non fanno che aumentare la distanza tra quegli uomini senza punti fermi e il mondo, nonché lo loro scoramento e il senso di disperazione che ciò gli causa. La malattia mentale, il grande tema di questo romanzo, non trova comprensione e via di sfogo nemmeno tramite costoro, gli addetti alla sua cura per eccellenza. Resta dunque inarrivabile, inguaribile, una condanna senza prospettive di redenzione. È dunque implicita e forte la critica mossa da Daniele all’ampia lacuna delle strutture di questo tipo:
«Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una volta sola. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo, è merce riservata ai sani. Questo abbruttimento è la scienza? Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo sino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte. È questa la normalità? La salute mentale? La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai.»
Di impatto sono i dialoghi, per lo più fedelmente riportati secondo la parlata romana, perché è tramite gli stessi che il lettore viene a conoscenza delle drammatiche sofferenze dei cinque compagni di Daniele. Così, ad esempio, parla Gianluca, riferendosi alla propria madre:
«Pe’ lei fa tutto parte della malattia, tutto, pure er fatto che so’ frocio, è perché so’ malato, e che io posso ama’ ’na persona? No, perché è la malattia, e che io posso spera’ qualcosa? No! Perché è malattia pure spera’. Malattia.»
Gianluca, giocato dal disturbo bipolare, annichilito nella quotidianità dalla donna che lo ha messo al mondo, vive l’internamento coatto come una settimana di vacanza. Difficoltà differenti hanno invece gli altri quattro. Giorgio, autolesionista e suscettibile di pericolose esplosioni di rabbia, non riesce a emanciparsi dalla scomparsa della madre, avvenuta in un giorno qualunque. Lui non l’ha mai più potuta rivedere perché, in ospedale, un medico gli ha negato la possibilità di farle l’ultimo saluto; da allora, per ogni visione di lei, un taglio. Mario, ex professore della materna, distrutto da anni di depressione, un tentato omicidio della moglie e della figlia alle spalle, condivide con i compagni articolati pensieri esistenziali e nozioni su scienza e poesia, ordinando i loro pensieri. Madonnina, l’uomo che parla solo per urlare un’invocazione di salvezza alla Madonna, senza un presente, un passato e un futuro; nessuno sa qualcosa su di lui e lui sembra non avere nessuno che possa prendersene cura. Alessandro, ritrovato catatonico dal padre sul posto di lavoro davanti a un incarico svolto in modo scorretto, giorno e notte, da allora, fissa lo stesso punto e non riprende moto o parola; per sette giorni rimane steso fra loro.
Infine Daniele, dapprima spaventato, poi cosciente di essere tra persone estremamente buone. Con loro condivide ogni giorno la stanza afosa e odorosa, il bagno minuscolo e disgustoso, gli stessi pasti posticci, il coprifuoco a un’ora troppo presta che non lena la sua insonnia.
La vergogna per le infime azioni che hanno compiuto o per le aberranti ossessioni che li caratterizzano viene completamente neutralizzata dal contesto in cui non possono nascondersi di essere. Tra i cinque nasce un legame profondo: le loro nature, indicibili al mondo esterno, svelate nello stesso solo dagli atti sconsiderati che non possono esimersi dal compiere, possono qui esternarsi, non trovare censure, essere accolte. Daniele non uscirà dal reparto psichiatrico con una cura né con un punto fermo che leni la sua angoscia, ma avendo però guadagnato un importante legame:
«Se i miei amici sapessero il vero luogo in cui mi trovo, e il motivo, sarei semplicemente rovinato. Perderei tutto. (…) A parte la mia famiglia, che conosce, e subisce, nessun altro è al corrente della mia vera natura. I medici non fanno testo, ovviamente. In realtà, c’è anche qualcun altro. (…) sono i cinque pazzi con cui ho condiviso la stanza e questa settimana della mia vita. Con loro non ho avuto possibilità di mentire, di recitare la parte del perfetto, mi hanno accolto per quello che sono, per la mia natura così simile alla loro. Con loro ho parlato di malattia, di Dio e di morte, del tempo e della bellezza, senza dovermi sentire giudicato, analizzato. (…) Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita (…).»
Ed è anche a loro cinque, uscito dalla struttura sette giorni dopo il suo ingresso, che Daniele rivolge la sua premurosa ossessione di sempre:
«Tutto mi chiede salvezza.
Per i vivi e i morti, salvezza.
Salvezza per Mario, Gianluca, Giorgio, Alessandro e Madonnina.
Per i pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia.»
Chiara Vallini