
A trasformare la riforma in un mito – cedendo il passo a interventi di più modesta entità – è anche l’inadeguatezza del bilancio della Pubblica istruzione: l’Italia è sempre stata – e continua a esserlo – tra i paesi europei che spendono meno per l’istruzione, e le riforme costano. Invocata per tutta l’età liberale, la riforma organica è realizzata da Giovanni Gentile, ministro del primo governo Mussolini, e poi inseguita nel corso di tutta la cosiddetta prima Repubblica. In questo senso l’inizio del Novecento della scuola italiana non può essere che la riforma del 1923, tenendo però conto che essa comincia a prendere corpo almeno un quindicennio prima, con il convergere sulle posizioni gentiliane di un’area ampia e politicamente diversificata, che sarà la sua forza e la sua debolezza.
Qual è la condizione della scuola italiana nell’età giolittiana?
Tenendo conto dei gravi ritardi di partenza, l’Italia giolittiana non è affatto povera di risultati. La crescita delle spese per la Pubblica istruzione, la legge Orlando sulla scuola popolare, la Daneo Credaro sulla statalizzazione della scuola elementare, i lavori di numerose commissioni parlamentari riflettono il rafforzamento dell’istruzione, di cui non si attenuano però gli squilibri territoriali, nell’ambito di uno Stato che tenta di potenziare i servizi ritenuti essenziali per lo sviluppo economico e il decollo industriale. Eppure la scuola diventa il bersaglio polemico della variegata intellettualità antigiolittiana, oltre che del neoidealismo di Croce e soprattutto di Gentile, il quale le addebita le principali responsabilità delle carenze nazionali del paese. L’obiettivo è di farne il perno di una fede alternativa a quella cattolica, potenziando l’istruzione primaria e selezionando l’accesso a quella secondaria (la cui crescita tradisce una mobilità sociale sgradita a molti), nel momento in cui anche Giolitti si volge ai cattolici in funzione antisocialista. I quali, da parte loro, cercano di darsi nuovi strumenti, nonostante che la condanna del modernismo nel 1907 ostacoli qualsiasi apertura sostanziale. Ma solo dopo la cesura della grande guerra Gentile precisa la questione scolastica come problema di nazionalizzazione degli italiani.
Nasce nell’Italia giolittiana l’idea di un partito della scuola trasversale a ogni schieramento politico: una tentazione frequente nella storia del paese, che poggia su un equivoco di fondo, cioè che la scuola non sia un problema politico. Difatti le proposte di questi anni saranno realizzate dal fascismo, con l’avallo di molti che fascisti non sono.
Quali elementi caratterizzano la riforma Gentile nell’Italia fascista?
La posizione centrale occupata dalla riforma Gentile nella storia scolastica italiana, a cavallo tra liberalismo, fascismo e Repubblica, ha finito per mettere in secondo piano il ruolo che essa svolge nella società cui è in origine destinata. L’illusione di un intervento al di sopra delle parti, fascista solo nella forma ma liberale nella sostanza, si è dimostrata molto tenace e ha finito con l’influenzare il giudizio sulla scuola di tutto il ventennio, con effetti chiaramente assolutori e consolatori. In realtà la riforma si rivela funzionale alle esigenze del regime; e la sua applicazione coincide di fatto con la fascistizzazione della scuola (che diventa il cardine del progetto culturale totalitario), cui di fatto offre strumenti così efficaci da dover essere solo ritoccati nel corso del ventennio. La riforma Gentile è inoltre decisiva per avvicinare regime e Chiesa cattolica: l’introduzione dell’esame di Stato costituisce una sorta di pre-Concordato, perché trasforma il sistema scolastico in un duopolio, se pur sbilanciato a favore dello Stato, che consente anche di aggirare le ristrettezze di bilancio lasciando spazio alle scuole private, in maggioranza cattoliche. Questo non significa che si possa parlare di perfetta corrispondenza tra il progetto scolastico gentiliano e le realizzazioni del fascismo, perché su un punto essi rimangono divisi da una distanza incolmabile: il ruolo che Gentile vorrebbe attribuire alla Pubblica istruzione non corrisponde a quello marginale che essa continua (e che continuerà) a occupare nell’amministrazione e nel bilancio statale.
Come si manifesta l’egemonia cattolica nella scuola del Dopoguerra?
Nei governi presieduti da Alcide De Gasperi dal luglio 1946 al 1951 Guido Gonella inaugura la serie quasi ininterrotta di ministri democristiani della Pubblica istruzione che si protrae fino alla metà degli anni ’90, nel corso del quarantennio nel quale la società e la scuola italiane vivono il più profondo rivolgimento della loro storia. A lungo l’operato di Gonella è stato liquidato come la traduzione scolastica del centrismo degasperiano, organica alla Chiesa di Pio XII anche in funzione anticomunista, e veicolo di continuità sul piano della mentalità e della morale. Sicuramente Gonella, dopo la vittoria Dc alle elezioni del ’48, applica spregiudicatamente la strategia del doppio binario già collaudata negli anni del fascismo, il consolidamento della scuola cattolica da una parte e la penetrazione del cattolicesimo in quella pubblica dall’altra, in più senza le limitazioni poste dal totalitarismo. Tuttavia, nel clima della guerra fredda, egli svolge un ruolo importante nella ricostruzione della scuola, nel suo nesso con la democrazia, mediando le pressioni dell’oltranzismo clericale. È quindi necessario non appiattirsi sull’aspro scontro politico e ideologico di quegli anni, che non restituisce la complessità del disegno di Gonella, dei suoi obiettivi e dei suoi risultati, né rende completamente leggibile la realtà scolastica.
Quali trasformazioni segnano la scuola degli anni Settanta?
Ho dedicato ampio spazio agli anni ’70 perché a partire dal ’68 la scuola vive una svolta profonda, in corrispondenza di una cesura più generale, senza tuttavia tradursi in una riforma, il che ha confermato l’immagine fallace di una scuola immobile. In effetti per capire quanto e come cambi l’istruzione – dallo svecchiamento dei contenuti alla democratizzazione a tutti i livelli della vita scolastica – bisogna entrare dentro le scuole, in particolare le superiori, che vedono moltiplicano i loro iscritti e, come le fabbriche, diventano veri e propri luoghi di conflitto. Le lotte studentesche, cui si associano anche molti insegnanti della nuova leva, si estremizzano rapidamente: in un paese che sembra non aver fatto ancora i conti con il fascismo, l’antifascismo vi gioca un ruolo forte e per molti versi ambiguo, insieme alla tendenza della sinistra a ridurre la questione scolastica, comune a tutto il mondo sviluppato, a un capitolo della lotta di classe. E nella seconda metà del decennio, con l’insorgere del terrorismo di sinistra e di una nuova collera giovanile, il clima non migliora.
Mai come negli anni ’70 si arriva vicino a una riforma della media superiore, anche per l’esigenza di riformulare il rapporto tra formazione e occupazione a fronte della crisi del 1973 e della disoccupazione intellettuale in aumento, che smentisce l’ottimismo delle previsioni degli anni ’60. Sull’ipotesi di una scuola secondaria deprofessionalizzata si consuma l’illusione della riforma, che si infrange nella divisione delle forze politiche e nelle esigenze di una società sempre più complessa.
Qual è lo stato di salute della scuola italiana?
Ormai si parla di crisi da decenni, da sempre oserei dire, tanto da dubitare che la categoria di crisi sia di una qualche utilità per descrivere il caso italiano: in un’ottica storica rischia addirittura di confondere le acque. In parte le critiche rivolte alla scuola sono connaturate alla natura stessa dell’istituzione, perché è inevitabile uno scarto tra quello che da essa ci si aspetta e cosa effettivamente può dare e dà. Gli stessi dati forniti da indagini e rilevazioni risultano scarsamente leggibili se non sono inseriti in un’ottica di più lungo periodo, all’interno cioè del processo di scolarizzazione intenso anche se contraddittorio conosciuto dall’Italia nel Novecento; gli enormi squilibri di partenza, geografici, sociali e di genere, sono andati lentamente ricomponendosi, senza tuttavia sparire, non ultimo per il fatto che riflettono limiti e difetti dello sviluppo italiano. Il concetto di qualità dell’istruzione oggi di moda poggia sull’illusione di fondo che si possano eliminare disuguaglianze e disparità scolastiche all’interno di società attraversate da disuguaglianze e disparità; e si rivela intimamente contraddittorio, perché ripone una fiducia cieca nell’autonomia e nella flessibilità di sistemi per loro stessa natura più sensibili al ricatto del territorio.
Mi pare che in Italia anche il dibattito sulla crisi dell’istruzione si sia rivelato più vischioso che altrove, con un costante richiamo al passato, piegato però a fini diversi se non opposti. C’è chi attribuisce tutte le colpe alle sopravvivenze di un sistema selettivo, e chi rimpiange il passato lanciando grida di allarme sulla perdita di autorevolezza e di autorità della scuola. Ma dire cosa davvero essa sia diventata è molto difficile: anche per effetto della parziale autonomia degli istituti, il pianeta scuola tende a differenziarsi sempre più al suo interno; e, rispetto alla tradizione, non si può dire che ne sia totalmente risucchiato, né che l’abbia cancellata. Nonostante tutto, la scuola reale si è dimostrata assai più vitale e capace di rigenerarsi di quanto non traspaia dal dibattito pubblico.
Casomai si può dire è che il caso italiano sia caratterizzato dalla sovrapposizione di fasi che in altri paesi appaiono più distinte: negli anni ’50 e ’60 la scolarizzazione media e superiore è entrata in una accelerazione decisiva senza che si fosse consolidata quella di base né che fosse stato sconfitto l’analfabetismo; negli anni ’80 si è cominciato a parlare di dismissione dello Stato senza che lo Stato avesse mai pienamente svolto il suo compito.
Quale futuro per la scuola italiana?
Gli innegabili problemi della scuola non giustificano le frettolose sentenze – in Italia come altrove – con cui spesso si decreta il suo fallimento e l’esaurimento del suo ruolo. Le ombre che gravano oggi sull’istruzione non possono cancellare le conquiste del ’900, nel corso del quale l’analfabetismo si è ridotto drasticamente in tutto il mondo – senza tuttavia sparire – proprio per effetto del consolidamento dei sistemi scolastici. La scuola – i cui presupposti non sono affatto in discussione – appare ora il luogo di costruzione di un futuro dai contorni resi sempre più incerti dalla rapidità dei cambiamenti, che allentano ma non recidono il legame con la tradizione e con la memoria. Sui banchi le sfide del presente giungono prima che altrove e pongono problemi culturali ed educativi reali a individui in carne e ossa, colorando di nuove sfumature quell’incessante e disordinato laboratorio che è l’identità di un paese nell’età della globalizzazione.
La scuola non ha smesso e non smetterà di svolgere un ruolo decisivo nel destino degli italiani, ma mi pare che le si chieda troppo, o almeno più di quanto non sia in grado di dare, senza d’altra parte riconoscerle altrettanta importanza in termini di risorse.