“Tutte storie di maschi bianchi morti…” di Alice Borgna

Prof.ssa Alice Borgna, Lei è autrice del libro Tutte storie di maschi bianchi morti…, edito da Laterza: in che modo la cancel culture ha rivolto la sua furia iconoclasta nei confronti dei Classics, l’antichità greco-latina?
Tutte storie di maschi bianchi morti..., Alice BorgnaIniziamo a dire in che modo la cosiddetta cancel culture NON ha rivolto le sue gigantesche gomme contro i classici. Pensare che nelle università statunitensi al posto dell’Iliade o delle Catilinarie ora ci sia un grande buco, come quando a scuola usavamo la gomma rossa-blu dall’inutile lato blu, è un falso. Neppure è vero che – sempre prendendo le nostre metafore dal bancone di una cartoleria – la cancel culture stia passando il bianchetto (il puzzolente modello a pennellino) sui grandi nomi della letteratura per sostituirli con autori mediocri, ammessi al gotha degli imprescindibili in virtù del genere o del colore della loro pelle. Eppure, a leggere certi strilli, soprattutto sui social, sembra che stia avvenendo proprio questo. Cosa c’è, dunque, di vero? Che cosa è finito nel mirino della cancel culture? Semplificando moltissimo, una risposta ragionevole potrebbe essere: le ragioni per cui gli autori antichi vengono proposti alla lettura e allo studio scolastico. Proviamo a pensarci: perché leggiamo e studiamo i classici? Una delle risposte standard è: perché sono il fondamento della civiltà occidentale e alla civiltà occidentale noi dobbiamo valori come la libertà e la democrazia. Qui, però, c’è un problema. Il concetto di “civiltà occidentale”, infatti, soprattutto nel dibattito statunitense ha assunto una connotazione decisamente politica e da molti è ritenuto il punto di partenza di un piano inclinato verso il suprematismo bianco, così come – dicono – i cosiddetti «valori occidentali» nei secoli sono stati lo strumento di oppressione di popoli la cui conquista, sottomissione e sterminio è stata fatta passare come «civilizzazione». Di conseguenza, dagli USA non viene la richiesta di rigettare Omero e Cicerone perché tutte storie di maschi bianchi morti, ma di riflettere sulle ragioni per cui li studiamo e li facciamo studiare. In altre parole, se le lettere classiche sono la disciplina che serve ad inculcare l’idea di una supremazia bianca ed europea, allora no grazie. Le cancelliamo, quindi? Siamo di nuovo tornati alla grande gomma rossa e blu? Non proprio: nel libro si cerca di illustrare come – secondo chi sostiene queste istanze di riforma – dovrà evolversi il campo di studi che noi conosciamo come Lettere classiche. Come si potrà leggere, si tratta di una riforma senz’altro radicale, che le trasformerebbe in una disciplina ben diversa da come è stata storicamente intesa, così come totalmente nuovi sarebbero l’identità dei suoi professionisti, le loro competenze e gli esiti delle loro ricerche. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di una prospettiva entusiasmante, altri potrebbero storcere decisamente il naso. La parola ai lettori.

Come dimostra il Suo libro, quello degli attacchi agli studi classici non rappresenta affatto una novità: come si è articolato il dibattito sull’utilità e l’opportunità di studiare greco e latino?
Impossibile sintetizzare il dibattito, acceso e articolatissimo, che si è sviluppato intorno alla domanda a che cosa serve studiare il greco e il latino, in modo particolare quando questa domanda è stata calata nella realtà dell’istruzione. Tanto per limitarci a citare alcune delle tappe più note, si pensi alla “battaglia del latino” che accompagnò la nascita della scuola media unica o al dibattito intorno alla riforma Berlinguer e alla proposta di un biennio unificato anche per le superiori. Pensiamo poi alla progressiva sparizione del latino dagli eredi dell’istituto magistrale, il cui esame di abilitazione fino al 2000 prevedeva una versione: oggi al Liceo delle scienze umane il latino è presente in un solo indirizzo e per sole due ore a settimana. Discorso non diverso va fatto per il liceo scientifico, che a seguito della riforma Gelmini ha visto il latino non solo ridotto drasticamente come ore di insegnamento, ma soprattutto diventare – nei fatti – opzionale in quanto limitato ai soli indirizzi tradizionali, un nome che già puzza di stantio. Poco più che la guarnigione delle Termopili sono poi le due ore – limitate al biennio – rimaste nel liceo linguistico. Anche nel post Gelmini i venti di riforma non si sono placati e hanno investito il liceo classico, dove è stata riformata la seconda prova dell’esame di stato, che nel 2019 (ultima maturità pre-pandemia) è passata dalla tradizionale versione secca ad una traduzione corredata da quesiti di comprensione e interpretazione del brano. Il passaggio non è stato indolore, ma ha suscitato accese polemiche nate dalla preoccupazione che questo sia il primo passo verso la marginalizzazione dello studio delle lingue antiche anche nell’indirizzo scolastico a loro dedicato.

Cercando di riassumere, è innegabile che ci sia stata una progressiva riduzione del latino dalle scuole, che da materia studiata da più della metà degli studenti superiori (epoca pre-Gelmini) è rimasto materia di base solo al classico, mentre in tutti gli altri licei è pressoché opzionale, presente in un indirizzo tra molti e neppure in quello più à la page. Altra tendenza che sembra inarrestabile – e qui si può parlare tanto del latino quanto del greco – è la spinta verso una limitazione dello studio della grammatica latina e greca, che non poche voci vorrebbero drasticamente ridotto e riservato solo a chi sia interessato o mostri particolare attitudine.

Limitandoci però al solo latino, proprio in virtù della sua (attuale) diffusione anche fuori dalle mura del liceo classico, ogni volta che si prepara una riforma della scuola la domanda è sempre: “perché lo dovremmo far studiare a tutti?”. A questa si aggiunge un corollario: “perché dovremmo fare studiare la lingua latina? È davvero necessario? Non potremmo limitarci a civiltà, cultura materiale e letteratura in traduzione?” Due, le risposte: quella di chi pensa che il latino – lingua compresa – sia utile e quindi andrebbe offerto allo studio di quanti più studenti possibili, e quella di chi pensa che il latino (inteso soprattutto come lingua) non sia poi così utile e chiede che questa supposta utilità venga dimostrata una volta per tutte con dati e fatti, al di là di quella che viene definita una cortina fumogena di luoghi comuni (“il latino apre la mente” “chi va bene in latino va bene anche in matematica” “il latino forma il carattere”). Non solo: secondo alcuni, lo studio della lingua latina e greca sarebbe il filo spinato teso intorno ad una particolare scuola (il liceo classico), affinché resti il fortino delle élite. Le minoranze etniche o i ceti economicamente più svantaggiati, infatti, pur avendo sulla carta la possibilità di accedervi (essendo una scuola pubblica), nei fatti verrebbero opportunamente tenuti lontani, non solo dalla natura non immediatamente professionalizzante di questa scuola, ma anche dall’oscurità delle materie curricolari e dal “regolismo logicistico” sotteso al loro studio. Insomma, come direbbero a Paperopoli, sapere il latino (e il greco) sarebbe una disgustosa ostentazione di plutocratica sicumera. Allo stesso modo, il luogo deputato a questi studi – il liceo classico – sarebbe una scuola in cui lo studente di buona famiglia va avanti anche se mediocre (perché ha i mezzi economici per prendere lezioni private, ad esempio), mentre quello povero ce la fa solo se bravo, anzi bravissimo. In questo modo i ceti economicamente più forti hanno la loro cittadella, a cui sporadicamente viene ammessa qualche punta di diamante proveniente dai ceti svantaggiati, il buon poverello o il buon immigrato da cui trarre una storia edificante e di riscatto. Chi ha ragione, chi ha torto? Per rispondere è interessante tornare agli USA, culla di questo dibattito, dove ci viene mostrato in modo molto chiaro che cosa accade ad una disciplina quando la si toglie dall’istruzione pubblica e finisce per essere appannaggio pressoché esclusivo del sistema privato. E questo piccolo particolare andrebbe sempre tenuto in mente quando si parla del futuro dell’antichistica, al pari se non più di tutti gli spunti legati alla cancel culture.

Cosa si nasconde, in realtà, dietro la messa in discussione dello studio del mondo antico?
Oggi, chi lavora nel campo dell’istruzione, dall’asilo nido all’università, opera a Utilopoli, un regno dove vige la più stretta utilocrazia, il governo di ciò che è utile, un aggettivo con cui si intende ciò che è percepito come capace di generare denaro nel più breve tempo possibile. Chi non soddisfa questo requisito, non può essere cittadino di Utilopoli, ma viene cacciato, anzi: cancellato. Ecco, questa è la vera cancel culture di cui dobbiamo avere paura.

Di conseguenza, il dibattito sulla decolonizzazione non può prescindere dal contesto socio-economico in cui ci troviamo a vivere, in cui il finanziamento alle discipline umanistiche conosce una contrazione importante (al punto che si è contenti quando un bando non le esclude in modo esplicito!) e dove c’è una spinta forte a indirizzare gli studenti verso facoltà scientifiche, spaventandoli con lo spauracchio della disoccupazione o delle “patatine da friggere” che li attenderebbero il giorno dopo la laurea. Non solo: ancora una volta, queste profezie di sventura suonano a volume più alto nelle orecchie di chi proviene da contesti socio-economici non avvantaggiati, che – anche in presenza di una vocazione o di un’attitudine spiccata nel confronti dei saperi umanistici – viene fortemente spinto a orientarsi altrove “…prima di finire a friggere patatine”. Di conseguenza, bisognerà vigilare affinché quando noi diciamo «decolonizzare» e «democratizzare», a Utilopoli non si intenda «tagliare e ridurre». Democratizzare costa, e costa tantissimo. Ci vanno risorse, più laboratori di base, più corsi di nuova impostazione, più sinergie tra discipline diverse. Per queste ragioni, il dibattito sulla decolonizzazione dei Classici va gestito cum grano salis e, soprattutto, senza indulgere nell’illusione che a Utilopoli la decolonizzazione si risolverà nell’auspicata destrutturazione di curricula, sillabi e ribaltamento demografico del corpo docente degli antichisti, studenti e docenti, con messa ai margini del bianco a favore di esponenti delle minoranze, come si augurano i riformatori. Questo, forse, avverrà solo in alcuni atenei statunitensi di élite, che continueranno ad avere le risorse economiche per trasformarsi. Altrove, invece, lo smantellamento delle discipline umanistiche (perché questo meccanismo non riguarda solo l’antichistica, ma le discipline umanistiche nel loro complesso) è probabile che non porterà tanto alla creazione di nuove humanities, tanto per fare gli anglofili, ma alla sostanziale allocazione delle risorse economiche altrove. E pazienza se queste discipline usciranno dalle possibilità a cui tutti possono accedere e sempre di più si isoleranno nella riserva di ciò che è possibile solo a pochi. Bastino due esempi, di cui parlo ampiamente nel libro: la chiusura del dipartimento di Classics dalla Howard University e il supposto sostegno che si ipotizzava sarebbe arrivato agli studi classici dall’amministrazione Trump.

Perché studiare i classici, dunque, in una società come la nostra?
Studiare il passato è un antidoto alla superbia della contemporaneità, che non di rado pensa di vivere tutto per la prima volta nella storia. Forse oggi stiamo mettendo in atto – grazie alla scienza e alla tecnica – molti sogni e molti incubi dell’uomo di tutti i tempi, mentre è improbabile che quel pensiero, quel sogno, quell’idea, quel sentimento e quella paura siano stati elaborati per primi da noi. Certo, l’antico va studiato per quello che è, non per quello che noi vorremmo che fosse e in questo ambito sono certamente legittime le richieste di chi vorrebbe questo studio allargato anzitutto in senso geografico e linguistico, così come arricchito da prassi didattiche e di ricerca nuove. Anche l’istanza che ci proviene dalla società, ovvero: spiegateci a cosa serve davvero il latino nelle scuole, quali sono i benefici in termini – ad esempio – di maggiore competenza nell’italiano, numeri e dati alla mano, senza nascondervi dietro a luoghi comuni e craniotomie, non può essere liquidata, ma necessita di risposte targate 2023, ovvero nell’epoca di Google, degli e-book, delle biblioteche digitali sempre aperte e – punto dolentissimo – dei siti che offrono qualsiasi versione o esercizio già svolto. Bisogna però fare attenzione – da entrambi i lati – a non cadere nel pregiudizio. Mi spiego: l’affermazione “bisogna guardare l’antico per quello che è, non per quello che vorremmo che fosse”, vale anche per i suoi professionisti, i professori di latino e greco di tutti i livelli, che è tempo di guardare per quello che sono e non secondo una visione stereotipata e spesso ingiusta. Esiste infatti una sorta di professore di latino e greco collettivo, spesso deriso anche dalle serie tv, in cui è sempre il più antipatico, lontano dalla contemporaneità, uno sfigato, provinciale, frustrato sia professionalmente sia nella vita privata, che quando va a votare si stupisce di non trovare sulla scheda elettorale il simbolo degli optimates, che barrerebbe con entusiasmo (perché nel segreto della cabina elettorale Cicerone vi vede e Clodio no). Ugualmente esiste anche uno studente di latino collettivo: disinteressato, in conflitto perenne col docente sfigato di cui sopra, svogliato, apatico, deluso, sempre pronto a copiare la versione da Internet e che non vede l’ora di diplomarsi o passare l’esame per vendere dizionario e Tantucci e ave atque vale. Siamo poi sicuri che sia sempre così? Il libro racconta una storia americana, ma pone domande italiane. Le risposte? Sarà compito di tutti trovarne di condivise.

Alice Borgna è professore associato di Lingua e Letteratura latina all’università del Piemonte orientale

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