“Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni” di Maurizio Catino

Prof. Maurizio Catino, Lei è autore del libro Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni edito dal Mulino: quali strategie adottano sovente le organizzazioni per gestire la colpa?
Trovare il colpevole. La costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni, Maurizio CatinoDi fronte a eventi negativi, quali ad esempio incidenti, disastri, scandali e fallimenti organizzativi, le organizzazioni possono adottare due strategie per gestire o deviare la colpa. La prima è quella di riconoscere le responsabilità dell’evento e le sue conseguenze, mettendo in campo misure di miglioramento e di cambiamento: una strategia di apprendimento organizzativo e istituzionale. La seconda consiste nel cercare di trasferire la responsabilità sulle persone immediatamente coinvolte nell’evento ‒ le mele cattive, accusandole di negligenza in caso di incidenti o di essere rogue employees in caso di misconducts. È una strategia che produce inerzia organizzativa. Creando uno o più capri espiatori, quanto più questi saranno colpevoli, tanto più l’organizzazione, e la coalizione dominante in particolare, saranno salve ‒ e soprattutto, non dovranno attuare misure di rimedio, potenzialmente costose. La punizione esemplare del capro espiatorio sembra essere la soluzione individuata da un’organizzazione per superare uno stato di crisi. Incolpare qualcuno per ciò che è accaduto o sta accadendo produce la sensazione di aver risolto il problema che ha causato la crisi.

Nel libro analizzo in particolare questa seconda strategia, volta al trasferimento dello stigma e al processo di costruzione del capro espiatorio nelle organizzazioni. Esaminando un insieme di situazioni che favoriscono tale fenomeno (le crisi, gli scandali, gli incidenti e altri tipi di fallimenti organizzativi) e assumendo una prospettiva che considera il capro espiatorio come l’esito di un processo di costruzione da parte di più attori, interni ed esterni a un’organizzazione. L’incriminazione dei singoli e la loro trasformazione in capri espiatori diventa un utile espediente per ritardare o evitare cambiamenti strutturali, dal momento che l’opinione pubblica viene indotta a pensare che la punizione esemplare del soggetto responsabile dell’errore possa servire come deterrente in futuro.

In caso di eventi negativi, la creazione di un capro espiatorio politico o sociale sembra inevitabile: qualcuno deve essere colpevolizzato. In tali situazioni, il mito del fallimento dell’operatore individuale risulta utile in particolare alla leadership dell’organizzazione, che devia da sé l’attenzione e la colpa. Identificare in qualche modo un colpevole, un capro espiatorio, produce un senso di sollievo, una specie di catarsi che può aiutare a superare la tragicità dell’evento.

Quali forme può assumere il capro espiatorio?
Distinguo tre tipi differenti. Un primo tipo è costituito dalla “figura archetipa”, una sorta di vittima sacrificale, un essere animato (uomo o animale) o anche inanimato cui vengono attribuiti i mali e le colpe della comunità, la quale, attraverso questo processo di trasferimento, se ne libera. Un secondo tipo è costituito dal “capro espiatorio innocente”, ovvero da una persona totalmente estranea all’evento in questione per il quale viene incolpato e che paga per le colpe di qualcun altro. Come nell’affaire Dreyfus. In questo libro analizzo un terzo e diffuso tipo: il capro espiatorio nelle organizzazioni complesse. In questa accezione, tale figura perde la sua aura archetipa, per diventare uno strumento di razionalità organizzativa da parte di una serie di soggetti interni e anche esterni all’organizzazione, al fine di deviare le colpe verso altri individui in qualche modo coinvolti nell’evento, ma che finiscono per pagare anche per le colpe di altri. Il capro espiatorio nelle organizzazioni complesse, quindi, non è un estraneo, che paga al posto di altri, non sarebbe credibile e dunque non sarebbe possibile. È un individuo, o un gruppo di individui, coinvolto in qualche modo in un evento organizzativo negativo, rispetto al quale ha dunque un coefficiente di responsabilità, e che finisce per assumersi le colpe anche di altri soggetti e organizzazioni. In taluni casi il capro espiatorio assume tale ruolo in modo consenziente, per convenienza.

Nel libro Lei presenta il case study dell’incidente della Costa Concordia: di quale utilità è per comprendere i meccanismi di costruzione del capro espiatorio?
Una parte rilevante del libro è dedicata alla ricostruzione del caso dell’incidente della Costa Concordia, accaduto il 13 gennaio del 2012 all’Isola del Giglio, e all’analisi del processo di costruzione del capro espiatorio nella figura del suo comandante. Navigando molto vicino alla costa, la Costa Concordia urtò uno scoglio. L’impatto aprì una falla, con conseguente blackout dei motori. Dopo un breve percorso, la nave si arenò nei pressi dell’isola, adagiandosi su di un lato. Morirono 32 persone su oltre quattromila passeggeri. Secondo la visione dominante di questo caso – giudiziaria, dei media e dell’opinione pubblica – il comandante della nave venne ritenuto il principale e, di fatto, quasi il solo responsabile dell’incidente e dell’inadeguata gestione dell’emergenza. Questo libro contesta l’interpretazione convenzionale dell’evento, con l’obiettivo di fornirne una storia rivisitata, e al tempo stesso di dare una diversa spiegazione.

La ricostruzione dominante presenta tre limiti. Innanzitutto, l’assenza di una prospettiva organizzativa porta a considerare l’evento come un incidente isolato e non come l’esito inatteso, ma prevedibile, di una pratica rischiosa come quella dell’inchino ‒ come se l’evento fosse stato un fulmine a ciel sereno, causato dall’impazzimento improvviso di un comandante con un’eccellente biografia professionale, tanto da figurare in un post di encomio sul sito della compagnia proprio il giorno dell’incidente. Invece, è stata una “sorpresa prevedibile”, un disastro annunciato che ha avuto un lungo periodo di incubazione. Non si è trattato soltanto di errori e fallimenti a livello individuale. Tali eventi furono favoriti al contempo da criticità organizzative e dalla sottovalutazione dei rischi da parte dei controllori e dei regolatori.

Il secondo limite della ricostruzione dominante consiste nella prevalenza di una concezione basata sulla “storia breve” invece che sulla “storia lunga”. Il processo di decision-making delle tre ore che hanno preceduto il disastro ha avuto un lungo periodo di incubazione, ed è a questo che occorre guardare: una storia lunga che vede la progressiva neutralizzazione dei segnali di pericolo (come il passaggio di navi lunghe quasi trecento metri a poche decine di metri da ostacoli o dalla costa), visti come gesti da premiare e da encomiare invece che come dei potenziali pericoli, dei quasi incidenti. Al contrario, secondo le diverse investigazioni (giudiziaria, amministrativa, tecnica) così come secondo le perizie del tribunale, sembra che tutto sia iniziato alle 18:27, poco meno di tre ore prima del disastro, con la partenza della nave da crociera dall’ultimo porto.

Infine, il terzo limite consiste nella costruzione di un comodo capro espiatorio – il comandante della nave – da parte di diversi attori collettivi. Certamente il comandante ha avuto un ruolo, e anche rilevante, nella vicenda, ma su di lui precipitano anche colpe di altri. Sono stati commessi errori e vi sono stati comportamenti non adeguati alla situazione sia da parte del team in plancia di comando, durante la fase dell’emergenza seguita all’impatto con lo scoglio, sia da parte dell’organizzazione, nel selezionare e formare gli operatori e nel fornire le tecnologie appropriate, ad esempio. Mentre è stata utile per diversi attori organizzativi, la lettura semplicistica dell’evento ha segnato in modo irrimediabile la figura del comandante con uno stigma di immoralità, inquadrando la storia dell’incidente alla luce di esso. Il ritratto negativo del comandante è stato motivato dalla necessità di mostrare che il colpevole del disastro e dell’emergenza era tale anche sotto il profilo morale, e quindi la sua figura era del tutto compatibile con le accuse rivolte. Le persone socialmente stigmatizzate sono quelle che con maggiore probabilità diventano i capri espiatori di responsabilità più vaste. I processi di colpevolizzazione nelle organizzazioni tendono a ridefinire complessi problemi di natura sociotecnica in termini di moralità individuale, sostituendo in tal modo un giudizio sui fatti con un giudizio sulle persone.

Come si articola il processo di fabbricazione del capro espiatorio organizzativo?
Per essere credibile, un capro espiatorio nelle organizzazioni complesse deve aver rivestito un ruolo nella vicenda di cui è ritenuto responsabile, anche se su di lui ricadono, per convenienza, colpe di altri. Non si diventa capri espiatori all’improvviso, ma attraverso un processo di “fabbricazione”. Tale processo comporta lo sforzo intenzionale di uno o più individui di gestire l’azione in modo che una o più persone siano indotte ad avere una falsa percezione di ciò che è accaduto, per esempio affermando fatti screditanti e diffamanti. Affinché il processo di fabbricazione possa realizzarsi, occorrono alcune condizioni: ‒ degli attori promuovono o strumentalizzano fatti screditanti, ‒ uno o più fatti accaduti durante l’evento vengono “incorniciati” (framed), ‒ il pubblico in generale crede a tali fatti, rinforzando l’operato degli attori che li promuovono. Nel processo di fabbricazione del capro espiatorio nel caso Costa Concordia, gli attori rilevanti sono stati diversi, alcuni interni al sistema della navigazione, altri, esterni, come i mass media e la magistratura.

In che modo una diversa «epistemologia civica» può contribuire ad un cambio di paradigma?
Le organizzazioni e le istituzioni devono apprendere dai fallimenti, se vogliono evitare di ripeterli, e avviare processi di cambiamento basati su ciò che hanno appreso. Tuttavia, uno dei principali limiti all’apprendimento organizzativo e istituzionale consiste nell’affrontare problemi sistemici, di natura organizzativa, con metodi e soluzioni di tipo individuale. Tale approccio favorisce l’inerzia al cambiamento e la creazione di “capri espiatori organizzativi”. Perseguire dei capri espiatori, senza realizzare modifiche di sistema, assicura soltanto che gli attori continueranno a comportarsi come facevano in precedenza, senza che l’organizzazione apprenda in modo virtuoso dagli eventi occorsi.

Come con il recente scandalo del Consiglio superiore della magistratura che ha visto un suo componente, Luca Palamara, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, accusato aver favorito alcuni magistrati nelle rispettive progressioni di carriera, pilotando l’assegnazione degli incarichi direttivi. Le risultanze delle indagini invece di essere considerate come la spia di una serie di problemi organizzativi preesistenti, e relativi alla governance del sistema della magistratura, sono state lette dai media e dagli inquirenti come un episodio patologico conseguenza della degenerazione di comportamenti di un singolo magistrato, la “mela marcia”. Il risultato è l’inerzia organizzativa: invece di sradicare una prassi sistemica, la punizione esemplare del capro espiatorio, permetterà agli altri membri dell’organizzazione di continuare a fare le stesse cose, soltanto con maggiore discrezione ed attenzione.

Per far questo, occorre una diversa «epistemologia civica», come l’ha definita Sheila Jasanoff, intesa come il modo in cui si produce conoscenza pubblica su un determinato evento negativo, come ad esempio un disastro, un attentato terroristico o qualche altro fenomeno che genera significative conseguenze come la pandemia. L’ottica penalistica rischia di essere un’ottica parziale e basata su una visione ristretta e inadeguata per affrontare alcuni problemi sociali e organizzativi, contribuendo in tal modo a produrre, involontariamente, capri espiatori.

Emerge dunque la necessità di trovare altre risposte istituzionali per questi problemi, sia dal punto di vista della loro analisi che della soluzione. Ricorrere al processo penale per capire come sono andate le cose evidenzia certamente un limite, ma anche un’esigenza di conoscenza per l’azione. Conoscenza che potrebbe, anzi dovrebbe, essere sviluppata da altri attori e contesti istituzionali. Si rende necessario, quindi, pensare a uno sperimentalismo istituzionale per individuare luoghi, pratiche e meccanismi volti a favorire l’apprendimento organizzativo e istituzionale. Tale apprendimento va basato sull’analisi delle fonti del fallimento, definendo inferenze riguardo le cause e gli effetti al fine di trovare e implementare misure di rimedio. Si tratta di logiche di apprendimento non sempre seguite, come dimostrano i casi trattati in questo libro.

Maurizio Catino è professore ordinario di Sociologia dell’organizzazione all’Università di Milano-Bicocca e visiting scholar presso la New York University. Tra le sue pubblicazioni, Miopia organizzativa (il Mulino 2009; ediz. inglese Cambridge University Press 2013), Capire le organizzazioni (2012) e Mafia organizations. The visible hand of criminal enterprise (Cambridge University Press 2019; ediz. italiana il Mulino 2020).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link