
Io non sono uno specialista di questi campi: sono un semiotico teorico attento alla storia delle idee (o uno storico delle idee linguistico-semiotiche che cerca di fare teoria – il che è lo stesso). Nell’urgenza di provare a ragionare su questi temi – che mi toccano come utente prima che come osservatore – non volevo riproporre quello che si trova in giro in questo periodo (c’è una massa crescente di lavori – alcuni piuttosto buoni – su cui è difficile tenersi aggiornati), e mi serviva una chiave di lettura originale. La cosa curiosa è che la prima idea mi è venuta dalla letteratura – e in particolare da alcune osservazioni di Brancati (tratte non dai romanzi, ma dagli scritti giornalistici – che consiglio a tutti di leggere, perché sono oggi più attuali di allora). Poi, mano a mano che leggevo i libri degli altri, mi sono accorto di svariate consonanze, che mi davano coraggio rispetto alle mie intuizioni (le quali, dunque, non sono poi così originali, in fondo), e mi hanno permesso di organizzare l’esposizione delle categorie altrui (Floridi, Carr, Ferraris, Mead, Goffman, Barthes, Lakoff…) rispetto al mio piano di lavoro. (Quando scrivo, parto sempre con un piano di lavoro abbastanza rigido – se no, mi bloccherei.)
Veniamo dunque alla prossemica, che è – lo ricordo, ad ogni buon conto – la disciplina che studia la gestione del corpo e delle distanze nell’interazione interpersonale. Mi si è imposto con grande chiarezza un paradosso molto istruttivo: il fatto di stare lontani fisicamente non rende la prossemica meno urgente, o inutile. È tutto il contrario. In realtà, quando siamo sui social (ma non solo), passiamo un sacco di tempo a definire limiti, a negoziare “fin dove si può arrivare”, a decidere cosa esporre e cosa no, cosa non vogliamo far vedere e cosa non vogliamo vedere. Il problema è che non vi sono prassi consolidate, non vi sono “galatei” interiorizzati, e dunque, per forza di cose, siamo tutti – persino gli utenti più avvertiti – un po’ cafoni.
Quali evidenze si ottengono dall’impiego di un modello prossemico nella comunicazione via web?
Non so se si possa parlare di “evidenze”, ma certamente disponiamo di uno dei “motori euristici” più potenti cui si possa pensare: una buona metafora, più un paradosso. Una volta creato il quadro, i fenomeni e le tendenze vi si dispongono praticamente da soli: le distanze, l’ambiente, il corpo, i bisogni diventano dimensioni della comunicazione – di ogni comunicazione. E se noi assumiamo che interagire sui social comporta l’essere costretti in una prossemica stretta, tutti i problemi e i pericoli della prossemica stretta (e dunque l’attentato costante all’incolumità simbolica e psichica – se non anche a quella fisica, come conseguenza) ci si ripresentano puntualmente, e persino quella che Edward Hall (l’inventore della prossemica) chiamava “fogna del comportamento” (sostanzialmente: un comportamento autodistruttivo di gruppo, che si arresta solo quando vengono ripristinate condizioni di convivenza accettabili) diventa una prospettiva plausibile.
Il modello prossemico, però, non può funzionare se non si mette a punto anzitutto un’idea di spazialità, di luogo virtuale.
Quali caratteristiche possiedono i luoghi virtuali?
Sono affollatissimi e non danno riparo. L’espressione scherzosa “gabbia di matti” si rivela qui particolarmente pertinente. Non a caso ho preso come guida il sociologo canadese Erving Goffman, che studiò l’interazione sociale (anche) a partire dalle dinamiche che aveva osservato nei manicomi. La nozione di ‘istituzione totale’ – che Goffman intendeva in modo molto più ampio di quanto la si sia intesa poi – si applica abbastanza bene ai luoghi virtuali. La sorveglianza di tutti su tutti (Floridi la chiama “sotto-veglianza”) è perfino più temibile della sorveglianza di alcuni su tutti gli altri (comunque sempre potenzialmente reversibile). Le reazioni possono essere diverse. Spesso si sceglie di dare-a-vedere solo ciò che si suppone essere approvabile e ammirabile dagli altri (e si approva e ammira ostentatamente ciò che gli altri danno-a-vedere); talvolta, al contrario, si sceglie lo scontro permanente, la rissa generalizzata (si cerca cioè la disapprovazione costante, disapprovando sistematicamente per parte propria ciò che gli altri commendano). Ma comunque si accetta questo regime di mutua visibilità generalizzata (e tanto più quando ci si ostina pateticamente a negarlo, in nome di un’intimità inaccessibile al prossimo).
Alle medie ricordo due compagni più grandi, ripetenti – più grossi di noi. Nelle ore buche, in cui il supplente non arrivava, giocavano allo schiaffo del soldato (nella parlata di Cagliari si chiama “zacca e poni”) in due, senza dover indovinare nulla, per il puro piacere di menarsi, esibito davanti agli altri compagni. Ecco, a volte i social sono così: si accetta la vulnerabilità totale in cambio della possibilità di sfogare l’aggressività – e tanto l’una quanto l’altra sono totalmente pubbliche.
Cosa apprendiamo dalla primatologia riguardo alle interazioni online?
La prossemica umana ha alcune basi “naturali” (mi richiamo all’opposizione consueta natura-cultura solo in via di prima, rozza approssimazione) che concernono la gestione dell’aggressività e della soddisfazione dei bisogni fisici dell’organismo. Per questo gettare un occhio dalle parti dei primati non umani è istruttivo. Nei branchi di scimmie, la dimensione sociale si costituisce come sommatoria di rapporti individuali, caratterizzati comunque da una prossemica stretta (accudimento, sesso, lotta). Dunque non vi sono “semplici conoscenti”. Questo tipo di rapporti interindividuali richiede tempo e attenzione protratti, da aumentare quanto più aumenta l’importanza del rapporto. Sennonché, i branchi di scimmie hanno dimensioni che rendono una “politica” di questo genere praticabile ed efficace, mentre i numeri dei contatti social (anche contando il fatto che alcuni sono solo nominali) sono ben più alti.
Certamente, io vado sul social forte delle mie connotazioni nella vita “di fuori”, e dunque non sono solo quella-persona-lì, ma anche: il docente universitario, l’ex insegnante di liceo, il tifoso del Cagliari, il pianista dilettante, il genitore che passa il tempo ad osservare i propri figli, ecc. Tutto questo – cioè: il mondo sociale ordinario, come “funziona” fuori dall’onlife – complica, ma non scalfisce il nucleo fondamentale. Quando parliamo, parliamo sempre per tutti, e tutti possono intervenire. Le operazioni che Goffman chiamava di backstage (quelle “interne” alle categorie: per esempio gli insegnanti che parlano tra loro in un modo che con gli studenti non adopererebbero) si possono compiere con fatica (p. es. attraverso messaggi privati contemporanei alla conversazione pubblica), e solo fino a un certo punto. Alla fine, le relazioni sui social restano di natura individuale, e il potere sociale (come quello dei cosiddetti influencer) si traduce in una misura meramente quantitativa.
Quali caratteristiche presentano i segni nell’interazione virtuale?
Hanno una sostanziale mancanza di stabilità, un peculiare cedimento del lato conservativo della tradizione (ciò che Saussure chiamava in linguistica “immutabilità del segno”). La famosa e fortunatissima metafora baumaniana della “liquidità” esprime (anche) questo.
Questa instabilità si può solo in prima battuta paragonare a quella della moda, che ha la sua propria ciclicità, dettata in primo luogo dalle stagioni, e poi dal ritornare periodico di certi elementi (per i pantaloni, p. es.: vita alta o bassa, scampanature, risvolti, scolorimenti, strappi) per reazione all’elemento opposto; la sua temporalità è invece quella degli “sparapalle” con cui s’allenano i tennisti: tutta l’attenzione è concentrata su un qui-ed-ora momentaneo, e poi si passa al successivo.
Una cosa del genere implica un sovraccarico costante della memoria di lavoro, a discapito di quella a lungo termine. Non si fa a tempo a immagazzinare nei ricordi, perché c’è già da fare i conti con qualcosa d’altro. Nicholas Carr ha spiegato meglio di altri questa forma di Attention Deficit Disorder. Vi è anche – lo sappiamo bene – un uso politico dell’ADD, cui ci si riferisce talvolta con l’espressione scherzosa “Armi di distrazione di massa”: si tratta di “bombardare” costantemente l’elettorato (attuale o potenziale) con messaggi che da una parte sono irrelati (ogni giorno “salta fuori” una nuova questione, che poi sparisce nel dimenticatoio in un batter d’occhio), e dall’altra sono connessi attraverso semplici slogan o parole d’ordine (la semiotica testuale classica parlerebbe forse di “isotopie”), in modo che il destinatario non abbia tempo di ragionare, e comunque si disabitui (se mai si era abituato) a farlo – sicché alla fine resta solo lo slogan/parola d’ordine, vuoto e acriticamente accettato.
Emanuele Fadda è Professore di Semiotica e Linguistica all’Università della Calabria