“Trofei di viaggio. Per un’antropologia dei souvenir” di Duccio Canestrini

Dott. Duccio Canestrini, Lei è autore del libro Trofei di viaggio. Per un’antropologia dei souvenir edito da Bollati Boringhieri. I souvenir rientrano senza dubbio nella categoria del kitsch: perché essi spiccano per banalità e cattivo gusto?
Trofei di viaggio. Per un'antropologia dei souvenir, Duccio CanestriniHo visto palle di neve contenenti Babbi Natale, spogliarelliste, santi, sciatori, bagnanti, spazzacamini, Robin Hood, camosci, Topo Gigio, l’Omino Michelin, pesci tropicali, Frankenstein e cattedrali gotiche. Non esiste miniatura che non possa entrare in palla. Le famigerate palle di neve, appartengono a una categoria di souvenir che vende da secoli (nei miei Trofei ne racconto la storia). Dentro la sfera trasparente può stare l’universo mondo. Kitsch? Alcuni sì. Avendo antenati naturalisti, ho dovuto resistere alla tentazione di classificare gli oggetti ricordo. I souvenir sono una galassia di piccoli oggetti alieni. Sono mostri che si mettono in mostra, perlomeno quelli che teniamo sugli scaffali. Orrendi e sublimi. Da antropologo devo dire però che le categorie del bello e del brutto sono relative, storiche, culturali. Non credo siano tutti kitsch, anche se oggi tendiamo a considerarli tali. Si possono ordinare secondo molti criteri, ma la loro varietà sfugge alla classificazione, o meglio ne consente infinite.

A quali bisogni rispondono questi oggetti?
I souvenir sono piccoli totem territoriali, oggetti chiacchieroni. Vengono prodotti perché parlino della cultura che li produce. Vengono acquistati come simboli e memento di incontri e di esperienze. In era pre-industriale l’assunto era che l’artigianato turistico esprimesse una identità: “Ricordati di noi, siamo quelli che usano, o che costruiscono, queste cose. Tu, forestiero, sei stato qui a trovarci”. Ma un gattino di vetro comprato nel duty free di un aeroporto cosa può sovvenire? Ciò che la globalizzazione degli oggetti ricordo sembra minacciare è proprio la tipicità. Magari in diversi modi si cerca di evocarne il fantasma, per compiacere un turismo interessato alle genuine caratteristiche della destinazione. Ne è un esempio la pratica – un po’ patetica – di apporre una calcomania del paesaggio o il toponimo locale su oggetti di fabbricazione asiatica. A quale bisogno rispondano certi comportamenti d’acquisto è in parte misterioso. Echi culturali, fantasie e stereotipi tenaci… tanta roba.

I souvenir non sono in realtà un’invenzione recente: in qualche modo essi hanno sempre affascinato i viaggiatori, sin dall’antichità: quale evoluzione ne ha segnato l’esistenza?
Adoriamo le cose, siamo scimmie innamorate degli oggetti. Nei siti preistorici gli archeologi rinvengono talvolta oggetti d’uso indefinito, come sassi colorati, conchiglie, piccoli manufatti decorativi; il Gargano, in Puglia, ne è ricchissimo. A partire dal Paleolitico i fossili si trovano ovunque in Europa, anche a grandi distanze dal mare. Se ne deduce che tali suppellettili siano state portate nelle grotte intenzionalmente. Souvenir? Vero è che si realizzavano miniature del Colosseo anche per i viaggiatori nell’antichità. Credo che proprio questa sia la tappa più importante nell’evoluzione degli oggetti ricordo, cioè la loro miniaturizzazione: una canoa amazzonica a grandezza naturale non entra in valigia, la sua riproduzione in piccolo, sì.

I souvenir incarnano una concezione del viaggio che fa da sfondo alla nostra società e ne fa dei veri e propri trofei: cosa rappresenta l’esperienza del viaggio nell’immaginario collettivo?
La ricerca, l’uso, il gusto di cose forestiere è un anelito possente, tanto da non temere scollamenti geografici come il made in Italy prodotto a Taiwan o in Ungheria. L’esotismo è una tendenza innata dello spirito umano, chi più chi meno ne siamo tutti affetti. Diverse mitologie e molte letterature ne hanno narrato il fascino, idealizzando terre straniere e lontane come luoghi di abbondanza e di sorprendenti meraviglie. L’Eldorado, l’Eden, l’Arcadia, le Isole Felici, significano che un altrove utopico è possibile, che l’armonia da qualche parte esiste, che il mondo e la vita quotidiana non fanno quello schifo che spesso sembrano fare. Il paese di Cuccagna non è altro che la versione popolare di un filone narrativo che attraversa i millenni, radicato nella tendenza umana a immaginare felicità. Ovviamente in terre lontane, rispetto ai luoghi del nostro vissuto.

In che modo questi «prodotti mnemonici da asporto» parlano di noi?
Nel 1872 l’antropologo inglese Francis Galton pubblicò un manuale ad uso degli esploratori. Nell’introduzione scrisse: “Uno dei vantaggi del viaggiare è l’aura di distinzione che il viaggio conferisce. Se si compie il viaggio in un paese che desta l’interesse di coloro che sono rimasti a casa, si sarà invidiati da chi non ha avuto l’opportunità di fare altrettanto”. Per molti aspetti è ancora così. Viaggiare non “necessitati” (come debbono fare i profughi) ma per diletto, o per ragioni culturali, conferisce prestigio. Distingue. Arricchisce di esperienza e, per qualcuno, anche di comprensione del mondo. In ogni caso stiamo parlando di un bottino esistenziale. Il trofeo di viaggio che ci si porta a casa, come una maschera africana, e poi si mette in bella mostra per ospiti e amici, ne è la prova. Chiaramente se uno per esempio colleziona souvenir erotici (ai quali ho dedicato un capitolo del mio libro) attraverso questi oggetti comunica una parte di sé.

Come è cambiato, a vent’anni dalla prima edizione del Suo libro, lo scenario?
È cambiato il mondo ed è cambiato il modo di viaggiare. Ma questa non è una novità, la novità sta nell’accelerazione con cui cambiano gli scenari. Virus, guerre, la sorveglianza sociale e il controllo della mobilità. I turismi sono tanti: attenti o distruttivi, dipende dall’intelligenza e dalla sensibilità delle persone che si mettono in viaggio. Scrivere di un argomento apparentemente “frivolo” come i souvenir, come si è capito è in realtà un pretesto per parlare di Homo sapiens, di come ce la stiamo passando: i nostri meccanismi simbolici, la nostra mania di produrre roba, i nostri impatti sulla Terra. Sono ottimista, nonostante tutto. Nell’iconografia del libro ho inserito l’immagine di un Coronavirus portachiavi, venduto in rete. Tutto passa. Siamo una tribù globale, viviamo in un magnifico frittatone di culture scoppiettanti. Dobbiamo solo stare attenti a non allargarci troppo e a non premiare etologicamente i capibranco che per ingordigia di risorse ci porterebbero al disastro.

Duccio Canestrini, antropologo e giornalista, insegna nel corso di laurea in Scienze del turismo della Fondazione Campus di Lucca (Università di Pisa). Da inviato della rivista geografica “Airone”, ha viaggiato in tutti i continenti e diretto alcuni video e audio documentari. I suoi temi sono il viaggio, le relazioni tra uomo e ambiente, i riti della contemporaneità. Duccio Canestrini è autore di una decina di libri, tra cui Antropop. La tribù globale (Bollati Boringhieri, 2015), I misteri del monte di Venere (Rizzoli, 2010), Non sparate sul turista (Bollati Boringhieri, 2004), Andare a quel paese (Feltrinelli, 2003).

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