
Nonostante i riferimenti diretti nel lavoro heideggeriano alla Grande guerra siano pochissimi, lo squarcio che la guerra rappresenta è talmente profondo che essa non è il tema, l’oggetto, il problema di Heidegger, ma, se possibile, anche di più; direi così: il presupposto stesso del suo esercizio filosofico. Nei primi seminari universitari organizzati appena terminato il conflitto (siamo quindi nel 1919), Heidegger pensa che, anche per la filosofia, dopo la catastrofe della guerra, nulla sarà più come prima, perché l’intera struttura della cultura moderna è andata in frantumi.
La Grande guerra anche per Heidegger rappresenta una rottura brutale, uno spartiacque della storia moderna, scoperchiando l’ampiezza vertiginosa della crisi: la sua filosofia è il tentativo di individuare una via d’uscita da questa lacerazione assumendo sino in fondo la tragedia, ma allo stesso la chance, offerta dalla catastrofe delle trincee. Per intenderci: se non è possibile neanche avvicinarsi alla Fenomenologia dello Spirito senza tenere presente che cosa rappresenta la Rivoluzione francese per la definizione della posizione hegeliana, allo stesso modo è ragionevole sostenere che il grande cantiere heideggeriano degli anni Venti, se non viene filtrato attraverso l’esperienza della Grande guerra, gli assi essenziali del sovvertimento heideggeriano dell’ontologia occidentale perderebbero una tessera fondamentale. Attenzione, il peso del primo conflitto mondiale non ha rilevanza in Heidegger perché rappresenterebbe un avvenimento militare e culturale speciale nella storia d’Europa; forse è pure vero, ma non è questo il punto. Bisogna scavare più a fondo e provare a comprendere che la questione sprigiona un vero e proprio spessore concettuale e riguarda innanzitutto il tipo di esistenza che i soldati conoscono nelle trincee del fronte occidentale.
Heidegger interroga il destino della filosofia dopo la catastrofe per prendere di petto la questione nel momento in cui la cultura moderna nel suo insieme, frantumata nei campi di battaglia della Grande guerra, dimostra la sua carica distruttrice. Come se la filosofia, con Heidegger, si calasse nelle trincee, per auscultare il tipo di esperienza che si è consumata in quei dirupi di senso e di fango. Si tratta, per compiere questo salto nell’esistenza da parte della filosofia di lasciarsi alle spalle quella che Heidegger considera una falsa alternativa tra realismo e idealismo dando contemporaneamente avvio a un’inedita meditazione del ruolo dell’esperienza nell’architettura della filosofia moderna
Quali riflessioni, in particolare, maturano in Heidegger in seguito alla catastrofe della Grande guerra?
Prima di ogni altra cosa si può dire che la Grande guerra svela che l’essenziale nell’esistenza è ciò che viene chiamato, in un ciclo di lezioni del 1923, “essere-adesso”. Heidegger, cioè, mette a fuoco l’idea che una comprensione non teoretica dell’esistenza può avvenire soltanto come un evento qualora questa stessa esistenza sia materialmente collocata ed esposta, come accade nelle trincee della prima guerra mondiale, alla propria radicale finitezza. Ma c’è probabilmente anche di più: se è possibile rintracciare nel giovane Heidegger un filo rosso in grado di contrassegnare i corsi universitari successivi alla guerra, esso si trova, in qualche caso dietro le quinte, nel problema dell’uomo. La Grande guerra fa dell’uomo un essere estremamente equivoco scagliato fuori l’orbita di ciò che tradizionalmente si considera umano; d’altronde in trincea, pur perdendo la propria umanità, nondimeno è in grado di resistere alla propria (auto)distruzione.
Che posizioni assume così, il pensiero del filosofo tedesco, nei suoi “primi corsi friburghesi”?
La sciagura della Grande guerra prescrive alla filosofia sia lo smantellamento dei residui dell’intero apparato categoriale moderno sia il tentativo di esplorare un’inedita costellazione analitica per orientarsi tra le macerie lasciate in eredità dai campi di battaglia. Il compito che diventerebbe prioritario per la filosofia, in questo senso, è una riformulazione – o meglio: distruzione – del programma umanistico, quando diventa evidente che l’ecatombe di una generazione si realizza perché nella storia della cultura moderna del XIX secolo si consuma uno scarto incommensurabile tra l’idea di uomo, i suoi valori e virtù, e la sua realtà in carne ed ossa che, collocata in tutt’altro emisfero rispetto a quello spirituale, può essere brutalmente sacrificata. Chi osa sostenere che dopo la Grande guerra nulla sarà più come prima, lo fa perché sa che non può più affidarsi né alla dignità della natura umana né concepire un generico riferimento alla cultura – radicalmente compromessa nell’esaltazione e preparazione della guerra – per pensare l’impensabile della morte di massa.
La domanda che guida le prime lezioni heideggeriane dopo la conclusione del conflitto può essere schematizzata in questa maniera: che accade alla filosofia quando il suo universo consolidato di referenze va letteralmente in frantumi, dal momento che non fornisce alcuna indicazione efficace per orientarsi di fronte all’orrore distruttivo della guerra? La risposta di Heidegger è netta: bisogna abbandonare ogni tipo di esercizio trascendentale, qualsiasi forma di datità e pre-esistenza teoretica del pensiero, qualsiasi idea regolativa, in modo da riconoscere d’essere penetrati in un universo di relazioni che implica la degradazione di qualsiasi dotazione concettuale del passato. Heidegger nel 1919 apre un cantiere per liberare la vita da qualsiasi forma di destoricizzazione e a tutto ciò che ostacola la sua auto-comprensione esistenziale. Siamo proiettati in un ambito in cui la comprensione della vita a sé stessa tende a marginalizzare il contributo della coscienza, di ciò che può essere considerato oggettivo, dal momento che, molto semplicemente, non decido volontariamente di conoscere ciò che sono.
Per il giovane Heidegger, come è possibile appurare maneggiando i materiali delle sue lezioni universitarie negli anni appena successivi alla fine del primo conflitto mondiale, parlare dell’uomo significa interrogarsi sulle strutture fondamentali della vita. Ma in un senso assai preciso e circostanziato: la vita dell’uomo per Heidegger, qualsiasi sia la situazione in cui si trova, non è semplicemente un’espressione di una datità biologico-naturale. Vale a dire, la vita umana, pure quando appare del tutto compromessa con la propria falda animale, come effettivamente accade nelle trincee della Grande guerra, non si riduce mai alla propria animalità; permane nonostante tutto uno scarto che costituisce, però, l’essenziale. Un resto, attenzione, che non presenta nulla di aulico e spirituale; anzi, lo potremmo considerare una forma di indeterminata storicità. Perdurerebbe, in altre parole, un fondo naturale non inerte, che si rivela il più proprio dell’umano ma che non ha a che fare con una dimensione antropologica in generale (né con la biologia né con la cultura). L’uomo, certo, ha esigenze organiche incondizionate; tuttavia proprio il luogo dove mai come in precedenza nella modernità la prossimità tra l’uomo e l’animale – non tra un individuo e un animale ma la nostra specie in quanto tale – si è fatta pressoché assoluta, ossia, nelle trincea della prima guerra mondiale, Heidegger riconosce la soglia di una differenza abissale, quasi pascaliana: l’uomo sguscia continuamente via da sé stesso; la sua esistenza rimane la permanente evocazione di un altrove inscritto nella sua stessa esistenza. La storicità umana, in questo senso, non è ancorata a nulla di stabile, neanche di storicamente determinato, perché appare irriducibile alla sua storia pur essendo fatta di quella.
Pierandrea Amato vive a Napoli e insegna Estetica all’Università di Messina. Tra i suoi ultimi volumi pubblicati ricordiamo Trincee della Filosofia. Heidegger e la Grande guerra (Mimesis, 2022); Filosofia del sottosuolo. Ipotesi sull’ultimo Foucault (Ets, 2020; traduzione francese 2022); La rivolta (Cronopio, 2019; prima edizione 2010; traduzione francese 2011); Politica e tragedia. La filosofia del giovane Nietzsche (il Melangolo, 2016); In Posa. Abu Grhaib 10 anni dopo (Cronopio, 2014; traduzione francese 2015); Il nichilismo e le forme (Mimesis, 2014). Dirige, con Luca Salza, “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”; e, con Nicola Russo, “Mechane. Rivista di filosofia e antropologia della tecnica”.