
Eppure, neanche questo è in grado di esaurire il senso di un testo che, nelle sue tre parti, pare sfuggire a ogni possibile definizione, somigliando a quelle Opere Aperte di cui tanto parlava Eco nel 1962. Narrazioni artistiche e letterarie il cui significato non è mai definitivo, e anzi delega al fruitore l’arduo compito di spostare lo sguardo al di là dell’opera: nel vasto campo dell’indeterminatezza, in cui tutto, rinunciando a Parmenide, può essere e non essere contemporaneamente.
Trilogia della città di K. è allora un libro inafferrabile, ed è nel suo profondo dolore e turbamento, tanto insopportabile da sembrare irreale, che riposa il suo fascino, sebbene per tutto il tempo non si faccia altro che rincorrere la verità: nei protagonisti, nelle vicende, in noi che leggiamo persino. Finendo per diventare tutti, lettore compreso, viandanti erranti, esseri disuniti, per dirla con Sorrentino: non soli, ma abbandonati, se è vero che anche «un libro, per triste che sia, non può essere triste come una vita».
In un Est Europa divorato dalla guerra, Agota Kristof non racconta solo una storia che fa male, ma si fa portavoce del problema filosofico per eccellenza: la ricerca di un confine tra la realtà e l’illusione; tra ciò che vediamo e crediamo, e ciò che dobbiamo credere e vedere, o vedere per credere. Tutto sfuma, dunque, e pagina dopo pagina, la crisi in cui getta lettore e protagonisti diventa una voragine: una somma di corto circuiti necessari, per descrivere le cose «non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero».
L’uso di una prosa asciutta, veloce e magnetica fa il resto, e il risultato è un tessuto intricato di capitoli brevi, dai toni quasi fiabeschi ma crudi, in cui nessuno si salva. Una trama di cui comprendiamo tutto e niente. Nulla rassicura, neanche il capovolgimento finale che anzi, pur rimescolando i termini e dando l’impressione di una qualche soluzione, rende ancora più evidente la natura profonda di ognuno: l’angoscia dello spaesamento. La mancanza di un’identità, di un luogo, di una casa, e la separazione incolmabile del singolo col mondo, il suo non sentirsi appartenere a nient’altro se non a sé.
E, infatti, se la prima parte, Il quaderno rosso, narra l’inizio della storia in prima persona plurale, attraverso la voce di due gemelli, trapiantati ai margini di un paese in stato di guerra, la circostanza del binomio è presto destinata a concludersi. Perché i due, metafora di duplicità e simbiosi, dovranno, dopo svariate peripezie e prove al limite dell’assurdo, a cui ripetutamente si sottopongono, affrontare la scelta più ardua: quella di dividersi. Quindi, diventare uno.
Ma si può diventare uno al cospetto dell’assenza dell’Altro? Altro per eccellenza, nel caso dei gemelli. È con questa domanda che si accede alla seconda parte, La prova.
Il protagonista ora è Lucas, ed è qui che la comprensione del lettore comincia a vacillare e i primi dubbi si annidano, mettendo in discussione il sistema di realtà finora costruito. Se sacrificare una parte di sé, e dai pezzi rimettersi insieme, comporta sempre una perdita di terreno, come è possibile ricucire una vita che del doppio ha fatto la sua premessa? La risposta si dispiega nella vita del bambino, ormai maggiorenne, e nella sua ricerca di qualcosa che riesca a colmare il vuoto. Il dolore dell’assenza si trasforma, così, nel bisogno di prendersi cura delle solitudini altrui: del curato, di Mathias, della madre Yasmine e di Clara. Barlume, questo, di un’umanità che, completamente perduta nella prima parte del romanzo, sembra pervaderlo in questa seconda. Non si elimina del tutto la crudeltà in queste pagine, ma certamente se ne attenua la portata rispetto all’inizio.
Infine, con un colpo di scena e un verbale “redatto dalle autorità della città di K.” su un rimpatrio del cittadino Claus, nome che salta subito all’occhio in quanto anagramma di Lucas, si scivola nell’ultima parte, La terza menzogna. Ci si arriva pensando che tutto si chiuderà in un circolo perfetto, e invece è proprio in questo momento che tutti i punti di sutura del racconto, che il lettore ha legato, saltano.
Ci si aspetta lo svelamento sotteso dalla trama, il punto di contatto, ma non c’è niente di tutto questo. Non c’è il filo di Montale da disbrogliare, quello “che finalmente ci metta nel mezzo di una verità”. Il racconto diventa un gioco di sponde tra le informazioni, ma nonostante lo sforzo, si resta come in uno stato di perenne interrogazione e attesa. Adesso, Claus e Lucas si alternano e, insieme a loro, si altera tutto ciò che si credeva di sapere. Il finale è una superficie a crepe, sotto cui si cela un sostrato sottile di verità ineffabile.
È bello pensare che sia questo il culmine del romanzo, che il climax della narrazione sia tutto alla fine. Nella concessione sottotesto che Agota Kristof fa della sua interpretazione di verità, e del rapporto di questa con l’umano.
In definitiva, il senso del romanzo Trilogia della città di K. è forse tutto nelle sue ultime battute, e nel nostro continuo sforzo di avvicinamento, sebbene maldestro, alla totalità. È in questo costante tentativo, fallimentare, di afferrarla. In questo movimento, in cui letteratura e vita non sono poi così lontane, e anzi è più facile sopportare la miseria dell’esistenza umana se riscritta dall’immaginazione. Allora, la verità non è che Aletheia, come dicevano i greci. Qualcosa che dal nascondimento portiamo fuori e che, continuamente, nell’oblio del nascondimento e della dimenticanza, del fiume Lete, tornerà.
Francesca Rossi