“Tradurre: una prospettiva interculturale” di Pierangela Diadori

Prof.ssa Pierangela Diadori, Lei è autrice del libro Tradurre: una prospettiva interculturale edito da Carocci: come nasce e si sviluppa l’abilità traduttiva?
Tradurre: una prospettiva interculturale, Pierangela DiadoriIl volume nasce dall’esigenza di collegare lo studio universitario e professionalizzante delle lingue straniere a quelle competenze linguistiche che i ragazzi sviluppano oggi già nella scuola primaria e secondaria e nei propri personali contatti con le altre culture, attraverso i viaggi reali e quelli virtuali in rete. Non basta conoscere abbastanza bene una lingua straniera per essere capaci di tradurre: l’abilità traduttiva si sviluppa attraverso un lavoro fine sulle proprie competenze, in primo luogo attraverso una consapevolezza interlinguistica e interculturale che solo con l’età e con l’esperienza può maturare e manifestarsi. Con questo libro mi rivolgo in particolare ai giovani adulti, usciti dalla scuola con competenze già buone in una lingua non materna, che vogliono mettere a frutto le loro passioni e i loro saperi linguistici in vista di una possibile attività come traduttori, interpreti, mediatori linguistico-culturali. L’università può accompagnarli in questo percorso non facile, come facciamo per esempio nella nostra laurea triennale in mediazione dell’Università per Stranieri di Siena. Fra i tanti, uno degli aspetti cruciali su cui riflettere insieme a loro è la prospettiva interculturale, insita di ogni attività traduttiva.

«Traduttore, traditore» recita un vecchio adagio: è realmente così?
La parola fedeltà, ormai quasi un tabù nella vita sociale, lo è oggi a maggior ragione in ambito traduttivo. Basta con questo binomio fedeltà/traduzione e ancor peggio traduttore/traditore! Fedele a chi? O a cosa? E in che modo? Fedeltà alla parola o al senso? Non se ne esce. E il dibattito occidentale che si è sviluppato nei secoli intorno a questo concetto applicato alla traduzione del testo sacro e letterario ha creato generazioni di traduttori frustrati e pieni di sensi di colpa, qualunque scelta traduttiva facessero. Che ne dite di abbandonare questa metafora, che ha perfino portato ad apprezzare in Francia nel 700 le cosiddette traduzioni “belle e infedeli”? Che ne direste di adottare piuttosto concetti come “equivalenza traduttiva”, adeguatezza traduttiva” o addirittura “lealtà traduttiva”? E basta anche con l’inutile ambizione di tradurre un romanzo, per esempio, per dare al lettore l’impressione di leggerlo come se fosse un originale! Il traduttore c’è e deve farsi vedere, come direbbe il famoso traduttologo italo-americano Lawrence Venuti. La lealtà verso il lettore sta anche in questo. La lealtà verso il testo sta nel cercare la migliore soluzione (che non sarà mai l’unica possibile) alle mille difficoltà che si incontrano nel rendere un testo – scritto in una lingua – in un testo non solo scritto in un’altra, ma anche destinato a un’altra cultura, a un altro luogo, e in certi casi perfino a un’altra epoca.

Che differenze vi sono tra traduzione e mediazione?
Fino a qualche decennio fa il mediatore in Italia era solo un sensale di matrimoni o un intermediario di affari. Nessuno avrebbe immaginato la fortuna di questa parola associata al campo della traduzione, eppure è successo, più o meno dalla metà degli anni Novanta. Nel 1996, infatti, il Quadro comune europeo per le lingue, documento realizzato dal Consiglio d’Europa per fornire ai docenti di lingue straniere delle linee guida per costruire le future generazioni di cittadini europei plurilingui, indica la mediazione (mediation in inglese) come una delle attività da sviluppare nella classe di lingua straniera, al pari della di ricezione, produzione e interazione, orali e scritte. Per mediazione si intende qui la capacità di rendere possibile la comunicazione fra coloro che non si capiscono a causa delle barriere linguistiche, sia usando la stessa lingua (attraverso semplificazioni e riformulazioni), sia usando lingue diverse (attraverso la traduzione scritta e l’interpretazione orale). La mediazione dunque intesa come capacità sociale, orientata all’azione concreta in un contesto reale. La mediazione come metafora nuova sul tradurre: non più un “trasferimento” da una lingua all’altra, da un mondo culturale all’altro, ma uno “stare in mezzo”, con lo scopo di “mediare”, di rendere possibile il dialogo.

Da qui si sono poi moltiplicati gli usi del termine “mediazione” nei settori legati alle lingue: le “Scuole per interpreti e traduttori” che si sono ri-denominate SSML (“Scuole Superiori per Mediatori Linguistici”), così come molti percorsi di laurea triennale, che negli atenei italiani hanno sostituito (nei contenuti, oltre che nell’etichetta) i vecchi corsi di laurea in lingue, in corrispondenza con l’adozione del nuovo formato europeo del “3+2”, hanno preso il nome di “Corsi di laurea in Mediazione Linguistica e Culturale”.

La fortuna del binomio “mediazione/mediatore” è stata rafforzata anche dalla crescita dei flussi migratori che hanno trasformato l’Italia da paese di emigranti a meta di immigrazione e, in seguito, luogo di transito di migliaia di profughi e richiedenti asilo. Un nuovo scenario sociale ha fatto emergere la crescente richiesta di esperti plurilingui, competenti in arabo, cinese, spagnolo e altre lingue immigrate, ma anche profondi conoscitori delle culture di provenienza dei migranti, capaci di intervenire per risolvere i problemi di comunicazione negli ospedali, nelle scuole, negli uffici, nelle carceri. E come chiamare questi professionisti, se non “mediatori linguistici e culturali”?

In conclusione, “mediazione” oggi è un termine utilizzato sia come termine specifico (mediazione linguistico-culturale) laddove ci sia bisogno di professionisti per facilitare gli incontri fra persone di lingue e culture diverse (in contesto migratorio, ma anche aziendale), ma anche come iperonimo per indicare ogni azione che facilita la comunicazione, comprendendo anche la comunicazione interlinguistica e quindi la traduzione scritta e l’interpretazione orale.

Quali sono le principali teorie sulla traduzione?
La domanda è troppo generica per poter dare una risposta. Diversi scenari si aprono se si considerano le teorie sulla traduzione in senso diacronico o sincronico (cosa pensavano sulla traduzione gli antichi Greci, Cicerone o Sant’Ambrogio rispetto alle teorie della Francia del ‘700 o dell’epoca contemporanea) o in base alle aree geografiche (le teorie sulla traduzione in Occidente poggiano su basi molto diverse rispetto a quelle che nel corso dei secoli sono state elaborate in Oriente, per esempio in India o in Cina). E poi: esistono teorie prescrittive e teorie descrittive, teorie che si occupano principalmente del testo letterario e altre che abbracciano una ampia gamma di generi testuali, teorie che considerano gli effetti della letteratura tradotta sulle letterature nazionali. Ci basti dire che a partire dagli anni ’90 del secolo scorso si sono affermate in Occidente (Europa e Nord-America in primis) i Translation Studies, una corrente traduttologica di impianto fondamentalmente descrittivo, che considera degno di studio qualsiasi genere testuale (e non solo il testo letterario) e che si ispira a principi funzionalisti: detto in estrema sintesi, è la funzione del prototesto che va mantenuta nel testo tradotto, tutto il resto deve adattarsi.

Quali sfide pone la pragmatica interculturale?
La pragmatica interculturale studia i rapporti fra la lingua in uso e i suoi effetti. Una comunicazione efficace, in cui gli interlocutori riescono a raggiungere i propri scopi comunicativi, si basa su interazioni, verbali e non verbali, regolate da norme culturali per lo più implicite, quindi è un argomento cruciale per chi, esperto in più lingue e culture, agisce da ponte fra queste, attraverso la sua opera di traduzione scritta, di interpretariato congressuale, di mediazione in contesto migratorio, di mediazione aziendale e via dicendo. Le sfide riguardano per esempio l’uso dell’inglese lingua ponte: chi studia l’inglese oggi infatti non fa più riferimento a una cultura britannica o nord-americana o australiana, ciascuna con le proprie norme e i propri impliciti culturali. Si studia l’inglese per comunicare con tutti e chi usa l’inglese oggi, magari interagendo con altri parlanti non anglofoni, lo fa adottando questa lingua in superficie, ma ricorrendo alla propria pragmatica per tutto il resto. Riflettiamoci quando pensiamo di non capire il nostro interlocutore: non comunichiamo solo a parole, ma con tutto il nostro corpo, con i nostri silenzi, con il nostro modo di organizzare il discorso e di scegliere certi argomenti e non altri. C’è parecchio da fare in questo senso per raggiungere una buona consapevolezza traduttiva. Che è poi lo scopo primo che mi sono posta scrivendo il mio libro destinato ai giovani plurilingui che studiano, si incontrano, lavorano e si muovono in un mondo sempre più ibridato.

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