“Tradizioni religiose e ordine sociale. Alle origini dell’immaginario giuridico” di Sergio Ferlito

Prof. Sergio Ferlito, Lei è autore del libro Tradizioni religiose e ordine sociale. Alle origini dell’immaginario giuridico, edito da Carocci: che ruolo svolgono le religioni nel modo di pensare e costruire l’ordine sociale?
Tradizioni religiose e ordine sociale. Alle origini dell’immaginario giuridico, Sergio FerlitoFra molte altre cose, le religioni sono innanzitutto archetipi culturali, matrici di senso che elaborano visioni complessive del mondo (un tempo si diceva Weltanschauung), cioè ideologie che includono regole sociali e norme di comportamento. Il loro sguardo sul mondo non è analitico e riduzionista, non frammenta e non separa le dimensioni dell’essere e dell’agire; è invece uno sguardo di tipo olistico, connettivo e comprendente (nel senso del termine inglese comprehensive), inteso come “con-prendere”, “prendere insieme”. Zarathustra, Mosè, Buddha, Laozi e Confucio, Gesù, Maometto non sono stati solo fondatori di grandi religioni; hanno tracciato le fondamenta dell’ordine sociale che ancor oggi ritroviamo, rispettivamente, in alcune regioni iraniche, nei paesi a prevalenza buddhista del sud-est asiatico, in Israele e nelle comunità ebraiche sparse per il mondo, in Cina e negli stati limitrofi, nei paesi di cultura e tradizione occidentale, nel vasto mondo islamico. Se ognuno di questi modelli giuridici e socio-normativi è diverso dagli altri, è perché ognuno di loro è il retaggio di una peculiare visione del mondo, di una specifica tradizione religiosa. Ho fatto i nomi di alcuni grandi fondatori di religioni, mentre non c’è un unico fondatore dell’induismo, una religione che oggi conta oltre un miliardo di seguaci; tuttavia, si comprenderebbe ben poco dell’assetto socio-normativo del subcontinente indiano se non si tenesse conto dei Veda e delle Upanishad.

Nel libro cerco di mettere in luce le interazioni fra tradizioni religiose e ordine sociale. Tuttavia, non do alcuna definizione né di “religione”, né di “ordine sociale”, perché le definizioni presentano un grave limite teoretico. Come dice la parola stessa, le de-finizioni costruiscono confini concettuali, (de)limitano l’oggetto che si sforzano di (de)finire, ne circoscrivono il campo d’indagine, tagliano i ponti che collegano cose e concetti. Le definizioni sono radicate sui tre principi della logica classica che ancora oggi sorreggono il nostro modo di pensare e di conoscere: il principio di identità [A = A], il principio di non contraddizione [A ≠ B], il principio del terzo escluso [o A, o B, tertium non datur]. Il fatto che non sia opportuno definire la religione, non significa però che non si possa dare una descrizione di cosa sono e come lavorano le religioni.

Nel libro Lei sostiene la tesi secondo la quale le religioni, lungi dall’essere “rivelazioni” che scendono dall’alto dei cieli, sono prodotti culturali umani, variabili nel tempo e nello spazio: quali caratteristiche specifiche presentano però, a differenza di altri prodotti culturali?
Gli antropologi sanno bene che è possibile individuare due distinte dimensioni culturali, benché intimamente connesse e ricche di reciproche interazioni. C’è una cultura “alta” – fatta di idee, pensieri e abiti mentali, di discorsi sui modelli culturali e sociali, di prodotti artistici letterari, musicali e ornamentali d’ogni genere e tipo. In questo senso la cultura è l’insieme di artifacts, mentifacts e socifacts. Alla cultura “ideale” si affianca però – e non certo in posizione subordinata – la cultura materiale, fatta non di alti prodotti ideali, ma di cose comuni e oggetti quotidiani: dai più svariati utensili e suppellettili di uso quotidiano, alle fogge dei vestiti e degli indumenti; dalle modalità di coltivazione e allevamento, alle pratiche alimentari. È la cultura materiale che arreda il mondo e lo riempie di cose e oggetti. Una caratteristica precipua delle religioni è che esse indirizzano e plasmano entrambe queste due dimensioni della cultura, quella ideale, quanto quella materiale. Ovviamente, anche le filosofie producono, analogamente alle religioni, visioni del mondo e cultura ideale. A differenza delle religioni, però, la filosofia ha una presa assai ridotta sulla cultura materiale; non si cura di erigere templi, chiese, sinagoghe o moschee, né di ricolmarle di ornamenti, suppellettili e paramenti sacri. La filosofia non ha liturgie e non pratica riti, mentre è proprio il rito che costituisce il ponte fra cultura “ideale” e cultura “materiale”. Basta dare uno sguardo agli assetti urbanistici e agli edifici di culto presenti in ogni angolo del mondo per cogliere l’impatto che le culture religiose hanno esercitato e continuano a esercitare tanto sulla cultura ideale, quanto su quella materiale: cose e oggetti veicolano idee e concetti, legano gli uni alle altre. E anche questo è un indice della capacità delle religioni di sviluppare un discorso “comprendente”. «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, che in tutta la tua filosofia» diceva Amleto.

Cos’è la teologia politica e quali sono i meriti e i limiti di questo approccio?
La locuzione “teologia politica” è stata lanciata nel dibattito giuspolitico dal giurista tedesco Carl Schmitt negli anni Trenta del secolo scorso. Da allora non ne è più uscita e si è anzi conquistata uno spazio via via crescente: gli studi che si occupano di teologia politica sono oggi innumerevoli. In verità, non è stato Schmitt a coniare il termine. Di teologia politica parlava già Marco Terenzio Varrone nel I secolo a.C. e molti secoli dopo Spinoza intitolava il suo lavoro più noto Trattato teologico-politico. Oltre a rilanciare il termine, Schmitt ne ha fornito una nozione lapidaria e perentoria: «Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati […] poiché sono passati dalla teologia alla dottrina dello Stato». Schmitt sostiene che la teologia ha avuto un impatto decisivo nel modellare le categorie giuridiche e politiche che stanno alla base dello stato moderno. È interessante notare che, negli stessi anni, Hans Kelsen – certamente il più influente filosofo del diritto del secolo scorso – affrontava la stessa tematica, sia pure in direzione e con intenti radicalmente diversi da quelli di Schmitt. In un saggio intitolato Dio e Stato, Kelsen metteva in luce tutta l’ampiezza del debito concettuale che giuristi e teorici dello stato avevano nei confronti di ideologie e categorie tipicamente teologiche. Intendiamoci: Schmitt e Kelsen miravano a obiettivi diametralmente opposti. Schmitt lamentava l’assenza di adeguate concezioni teologiche nella cultura giuridica e nel modo di pensare il diritto; Kelsen, al contrario, ne denunciava un’ingombrante presenza della quale liberarsi. Al di là di questa sostanziale differenza, entrambi hanno però avuto il merito di richiamare l’attenzione sui legami fra teologia e diritto o, meglio, fra teologia e politica. Il limite del loro approccio stava invece proprio nel circoscrivere l’attenzione alla teologia, senza andare oltre la teologia, cioè senza rendersi conto che la teologia non è altro che un epifenomeno della religione e, perdipiù, un epifenomeno proprio ed esclusivo del cristianesimo. Nemmeno per le altre due grandi religioni monoteistiche – l’ebraismo e l’islam – è corretto parlare di teologia, per non dire di religioni come l’induismo o il buddhismo per le quali una teologia, cioè un discorso su Dio, è un totale non-senso. La verità è che sia Schmitt sia Kelsen restano profondamente eurocentrici e perciò (mi si consenta il neologismo) cristianocentrici, prigionieri di un modo di pensare e concettualizzare la religione radicalmente intriso di cristianesimo. E questo è un limite riscontrabile in molti approcci allo studio della teologia politica.

Perché si può affermare che la laicità di cui noi occidentali andiamo fieri è stata il risultato non previsto e non intenzionale del cristianesimo?
“Laico” e “laicità” sono parole polisense; possono voler dire molte cose diverse. Quando si parla di Stato laico, di indirizzo politico laico o di diritto laico si intende dire che religione e politica occupano dominii separati, che sono – e devono essere – ordini distinti, anche se non necessariamente in conflitto. Questo è un tratto precipuo della cultura occidentale ed è una conquista della tarda età moderna. Ma quanto cristianesimo si cela in questa radicata convinzione? Il “date a Cesare” pronunciato da Gesù è rimasto un principio silente per più di mille e cinquecento anni.

Ho intitolato il libro “Tradizioni religiose o ordine sociale”, e non semplicemente “Religioni e ordine sociale”, perché le tradizioni culturali sono processi dinamici in continua trasformazione. Evolvono, così come evolvono i sistemi biologici; il che – sia detto per inciso – non significa affatto che migliorino e muovano verso un presunto “progresso”, come ritengono ancora molti teorici evoluzionisti che non hanno ben compreso Darwin. Come altri fenomeni culturali, anche le religioni vivono nella storia e sono sottoposte a incessanti dinamiche interpretative che ne rielaborano il messaggio originario fino a mutarne il volto e il senso. Non c’è un qualcosa che possiamo definire “cristianesimo” al di là o al di fuori delle interpretazioni che gli sono state date in tempi e luoghi diversi. In questo come in molti altri campi, non c’è una “cosa in sé” che determina l’“essenza” del cristianesimo. A un certo punto della sua storia culturale, politica e sociale e nell’intento di porre fine alle devastanti guerre di religione dei primi secoli dell’età moderna, l’Europa ha dovuto depoliticizzare la religione separandola dalla politica e dal diritto. L’ha fatto trasformando la religione dominante, cioè il cristianesimo, in un “sentimento del cuore”, per dirla con Pascal; ne ha fatto una “fede”, cioè una credenza individuale, intima e personale. Ha privatizzato la religione per espungerla dall’ordine politico-comunitario e così neutralizzare il conflitto religioso. È da qui che è scaturita la laicità dello Stato, dell’ordine pubblico e del diritto: nella sfera personale ognuno ha diritto di credere quel che vuole o, se preferisce, di non credere a nulla; ma questa possibilità vale finché e purché la religione resti confinata nel privato. Questo processo di depoliticizzazione della religione ha potuto realizzarsi nel mondo occidentale perché il cristianesimo si presta egregiamente a essere interpretato in questo modo. Vi sono religioni – come l’ebraismo, l’islam o l’induismo – che mirano alla salvezza e al benessere collettivo-comunitario più che individuale. Sono religioni ad alta intensità giuridica e sociale. Viceversa, il cristianesimo – o, per meglio dire, l’interpretazione che ne è prevalsa nel corso dell’età moderna – è una religione a bassa intensità giuridica: mira alla salvezza individuale più che a quella collettiva, alla perfezione dell’anima più che a plasmare l’ordine sociale. E non c’è nulla di più personale e individuale dell’anima. Che questa insistenza sulla dimensione individuale e privata fosse fin dall’inizio parte integrante della dottrina di Gesù di Nazareth è difficile dire. Gesù era un ebreo che predicava agli ebrei e lo sfondo culturale nel quale va collocato il suo insegnamento era l’ebraismo inteso come via di salvezza collettiva, non come “sentimento del cuore”. Personalmente ritengo che non rientrasse nelle intenzioni di Gesù nemmeno l’idea di dar vita a una “nuova” religione, a una religione radicalmente distinta dall’ebraismo. Se la cosa non suonasse vagamente blasfema, bisognerebbe dire che il vero fondatore del cristianesimo come lo intendiamo oggi non è stato Gesù, ma Paolo di Tarso: è lui che predica “il Cristo”.

Da quali figure teoriche trae origine la dottrina dei diritti umani?
Ho appena detto che il cristianesimo è (o è diventato) una religione a bassa intensità giuridica. Questo non significa che il suo impatto sull’elaborazione del modello sociopolitico e giuridico dei paesi occidentali sia stato modesto. Al contrario, il lascito del cristianesimo è stato enorme. Non solo perché ne è scaturita la laicità della nostra cultura e delle nostre istituzioni giuspolitiche, ma perché ne è derivata anche la dottrina dei diritti umani. In Occidente (e non solo là, ovviamente) il diritto ha una storia plurimillenaria, una storia che affonda le sue radici nel diritto romano. I diritti umani occupano invece uno degli ultimi capitoli della storia del diritto e, dal punto di vista tecnico-giuridico, sono strutturati come diritti soggettivi, cioè come rivendicazioni individuali alle quali il diritto oggettivo forniste la sua tutela. In altri termini, la figura teorica del diritto soggettivo è lo strumento tecnico mediante il quale vengono tutelati quei particolari beni e interessi che chiamiamo diritti umani. L’aspetto da evidenziare è che il diritto soggettivo non è una categoria concettuale necessaria per pensare l’ordinamento giuridico. Oggi occupa il proscenio dello strumentario concettuale del giurista occidentale e sembra quasi che non sia possibile pensare il diritto senza i diritti. Ma non è stato sempre così e non lo è nemmeno oggi. Il diritto romano, per esempio, non conosceva il diritto soggettivo e ancora nel XIII secolo San Tommaso ne ignorava il concetto. Vi sono tuttora culture giuridiche ben vive – come il diritto talmudico – che pongono al centro della scena il dovere (mitzvah, pl. mitzvot), anziché il diritto soggettivo; altre, come il diritto islamico, che lo collocano alla periferia del sistema integrandolo strettamente con la categoria giuridiche del dovere; altre ancora, come quelle di matrice confuciana, che lo additano come segno di “idiozia”, nel senso etimologico del termine. Queste riserve, e talora queste critiche esplicite nei confronti del diritto soggettivo, non sono infondate. Il diritto soggettivo non è un semplice strumento tecnico posto a tutela di certi interessi materiali e/o ideali. Gli strumenti non sono mai dispositivi neutri: veicolano essi stessi un messaggio di fondo, incarnano in sé precisi valori ideologici e il valore ideologico di cui il diritto soggettivo è portatore è l’individualismo. Il diritto soggettivo rispecchia una visione del mondo sociale che trasforma ogni relazione in competizione, che mette gli individui l’uno contro l’altro; è uno strumento che enfatizza la competizione e la concorrenza, anziché la solidarietà e la cooperazione. Le critiche mosse alla figura teorica del diritto soggettivo dalle culture non occidentali non riguardano i valori sociali ed etico-politici tutelati dei diritti umani; investono, piuttosto, proprio lo strumento tecnico teorizzato per tutelare quei valori; hanno di mira il sostantivo “diritti”, non l’aggettivo “umani”.

In che modo religioni e filosofie orientali si sono mostrate molto più attente alle valenze teoriche e pratiche delle relazioni?
Noi siamo figli di Aristotele e del pensiero greco; gli orientali sono figli del Tao e del confucianesimo. Ovviamente, oggi non pensiamo le stesse cose che pensavano i greci; ma pensiamo allo stesso modo, cioè servendoci delle stesse categorie alle quali ho accennato all’inizio della nostra intervista: i tre principii d’identità, non contraddizione e terzo escluso, ai quali occorre aggiungere il principio di causalità, che noi concepiamo come causalità lineare. Beninteso, neanche gli orientali oggi pensano le stesse cose che pensavano Laozi o Confucio; tuttavia, continuano anche loro a pensare secondo categorie che non si basano su nessuno dei principi logici che ho ricordato. Pensano per relazioni, non per opposizioni; per rapporti, non per identità o “essenze”. Scorgono forme di causalità circolare, anziché lineare, cioè rapporti nei quali l’effetto retroagisce sulla causa e la modifica, divenendo esso stesso causa, talché causa ed effetto non sono nettamente distinguibili ed entrambi cooperano nel produrre mutamento e trasformazione. Nel corso del Novecento e poi in modo accelerato negli anni più recenti, logiche multivalenti di questo tipo sono emerse anche in Occidente in due campi disciplinari apparentemente distanti dalle scienze sociali: la fisica quantistica, o delle particelle, e la scienza del vivente, cioè la biologia e le scienze a essa collegate come l’ecologia, in particolare la deep ecology. Oggi vi sono fisici come Fritjof Capra che scrivono libri dal titolo Il Tao della fisica; altri, come Carlo Rovelli, che scorgono nel monaco buddhista Nāgārjuna, vissuto nel II secolo d.C., sorprendenti risonanze con la logica sottesa alla meccanica quantistica, vale a dire che non ci sono “essenze” o cose che hanno esistenza in sé, indipendentemente da qualcos’altro; filosofi delle scienze biologiche, come Telmo Pievani, che additano modalità di funzionamento del vivente che non si lasciano piegare, e ancor meno si lasciano spiegare, alla luce delle categorie della logica classica. In Occidente, le sedicenti “scienze” sociali sono rimaste a lungo sorde a queste sollecitazioni e in larga misura lo sono ancora. L’«Io», vale a dire l’individuo in sé che costituisce la base sulla quale poggia la categoria teorica del diritto soggettivo, non è altro che l’insieme vasto e interconnesso delle relazioni che lo costituiscono. Se potessi concludere questa intervista con una battuta in stile biblico direi che quel che religioni e filosofie orientali ci dicono è: «In origine era la relazione».

Sergio Ferlito è professore ordinario di Diritto ecclesiastico e canonico presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Catania dove insegna “Religioni, istituzioni, politica. Una lettura comparata” e “Tradizioni giuridiche comparate”. È membro dell’International Academy of Comparative Law. Tra le pubblicazioni più recenti: Diritto soggettivo e libertà religiosa (2003); Le religioni, il giurista e l’antropologo (2005); Il volto beffardo del diritto. (2016). Ha curato l’edizione italiana di P. Glenn, Tradizioni giuridiche nel mondo (2011).

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