
Quando e come si sviluppa il pensiero politico conservatore?
La genesi del pensiero politico conservatore è comunemente fatta risalire alla rivoluzione francese, o per dir meglio al rifiuto più o meno radicale di quest’ultima e dei suoi effetti duraturi. Le Riflessioni di Burke del 1790 valgono per molti, specie nel mondo anglosassone, come testo canonico del conservatorismo e poco ha importanza se il loro autore amava definirsi un vecchio whig e per gran parte della sua vita politica era stato un avversario di qualsiasi temuta prevaricazione della corona a scapito delle prerogative del parlamento britannico consacrate dalla Rivoluzione Gloriosa del 1688. Questa semplice constatazione basta a far intendere come il giudizio convenzionale sulla genesi del conservatorismo richieda almeno uno sforzo di contestualizzazione storica, senza il quale il rischio è quello di indulgere a certa compiaciuta raffigurazione di se stessi da parte dei conservatori che faccia di loro i depositari di un sistema di valori senza tempo, cui la rivoluzione del 1789 abbia avuto la pretesa di muovere una sfida mai veduta in precedenza e tale da richiedere per la prima volta ai loro difensori uno sforzo eccezionale di sistemazione teorica. Il conservatorismo si presta piuttosto a esser meglio letto in chiave storica alla stregua di una corrente del pensiero politico e filosofico moderno impegnata via via a rispondere sul piano intellettuale a una serie di attentati alla società europea tradizionale che a partire dalla rivoluzione francese abbiano infine assunto il carattere eccezionale di un tentato capovolgimento radicale. Sebbene i teorici della Restaurazione fossero profondamente persuasi che la rivoluzione avesse segnato un salto di qualità irreversibile nel partito avverso, essi stessi inclinavano ad anticipare di decenni, se non addirittura di secoli, il cominciamento del processo rivoluzionario, tanto che l’idolo polemico dei rivoluzionari del 1789, ossia l’assolutismo regio, poteva figurare agli occhi della controparte alla stregua di un travisamento della nozione tramandata di monarchia europea dovuto all’ambizione personale di detentori del trono mal consigliati e incauti. Di qui la possibilità per i pensatori della Restaurazione di descrivere una sorta di galleria degli antenati della propria miglior scuola di pensiero. Se la rivoluzione era stata in gestazione per così lungo tempo, tutto lasciava immaginare che, pur senza poterla presagire fino in fondo, uomini fedeli all’antico ordine sociale (l’invenzione della categoria di Antico Regime, strettamente parlando, fu solo un effetto della rivoluzione) avessero potuto almeno denunciare questo o quel sintomo preliminare della futura disgregazione a venire. Ecco perché già negli esponenti stessi del pensiero politico conservatore all’altezza della Restaurazione si lasciano rinvenire le tracce di una prima consapevole raffigurazione di una sorta di preludio del conservatorismo politico, quale i successivi studi novecenteschi sul fenomeno – concepito come fatto storico piuttosto che come attitudine antropologica (come naturale attaccamento degli uomini all’esistente) – sono giunti sempre più a identificare con la resistenza opposta per secoli dall’aristocrazia fondiaria, militare e togata al processo di accentramento del potere statale nelle mani del re e alla propria riduzione ad aristocrazia di corte e ad apparato burocratico.
Quali furono i maggiori esponenti della riflessione filosofica e politica, soprattutto di area tedesca, fra il 1815 e il 1848?
Se parliamo di riflessione filosofica e politica senz’altri aggettivi, è evidente che lo spettro degli autori da considerare è amplissimo, perfino qualora ci si voglia limitare a una fra le maggiori culture nazionali di riferimento in Europa, com’è il caso di quella tedesca. Se però l’attenzione si orienta verso il pensiero politico della Restaurazione, inteso come quello che la rivoluzione francese e i suoi sviluppi volle contrastare a fondo, e se all’interno di esso ci si sofferma in special modo su quegli scrittori ai quali riusciva impossibile accettare un’autentica conciliazione con le conquiste rivoluzionarie sopravvissute alla rovina di Napoleone (una conciliazione quale in Germania fu patrocinata con particolare efficacia da Hegel), ecco che il quadro si semplifica e che diviene più agevole dare un volto almeno alle figure principali. Sebbene la prevalente attenzione rivolta alla Francia, considerata come teatro elettivo dei maggiori scoppi rivoluzionari, porti spesso a far coincidere l’età della Restaurazione con la stagione del ritorno del ramo più antico dei Borboni sul trono di Parigi, dunque a far ricominciare il corso della rivoluzione già all’altezza del 1830 con la creazione della monarchia orleanista, vero è il fatto che nel resto del continente europeo (sola eccezione il Belgio, che nel 1830 si sciolse dalla sottomissione alla casa reale olandese) il vero scossone all’ordine politico fissato dal Congresso di Vienna si ebbe soltanto con i moti democratici del 1848, che per quanto sfociati in un insuccesso modificarono in profondità l’assetto politico internazionale grazie all’esplosione della questione sociale e alla riproposizione di forme di bonapartismo (o cesarismo) aggiornate ai tempi nuovi. Fra il 1815 e il 1848 il pensiero politico della Restaurazione trovò dunque in area tedesca un terreno di cultura particolarmente fertile, poiché la miscela di istituzioni feudali residue, assolutismo regio di matrice fridericiana, persistente legame fra Stato e Chiesa (specie in ambito protestante), sentimenti antifrancesi congiunti all’assenza di un’unità politica nazionale, tensioni religiose intercristiane e verso l’ebraismo, estraneità al movimento di espansione coloniale oltremarina e relativa arretratezza industriale, faceva di quel mondo quasi un serbatoio naturale di ideali e spinte avverse al cosiddetto spirito del tempo. A dispetto della varietà e complessità delle personalità coinvolte (da Friedrich Schlegel a Gentz, Adam Müller, Baader, ma per altri versi fino anche a Niebuhr e Savigny) è lecito affermare che all’inizio e al termine di questo periodo il politico e trattatista svizzero convertito al cattolicesimo Haller e il giurista ebreo bavarese convertito al luteranesimo e poi migrato a Berlino Stahl abbiano saputo dare l’espressione teorica più compiuta al bisogno di salvaguardare l’ordine sociale minacciato. Il primo, a partire da una radicale contestazione del carattere pubblico dell’autorità statale; il secondo, a partire da un’originale riaffermazione del carattere cristiano dello Stato. All’indomani del 1848, mentre Haller doveva ridursi a una ripetizione ormai senile del grido già appartenuto a Maistre contro la rivoluzione satanica, Stahl volle impegnarsi in una difficile mediazione fra le istanze in Prussia non sempre convergenti dell’aristocrazia, del trono e del corpo dei funzionari pubblici e qui ebbe a fronteggiare la crescente diffusione di pulsioni fra i conservatori connotate da una sospetta matrice rivoluzionaria, quali l’ammirazione per l’imperialismo francese, per la dittatura, per il dispositivo giuridico dello stato d’assedio, il richiamo alla nazione tedesca intesa come massa di popolo su base etnica, la politica di potenza espansionistica, l’iniziativa statale in economia, destinate di lì a breve a modificare in profondità il panorama politico in Germania sotto la regia di Bismarck e a favorire l’arruolamento, tra le file dei conservatori, di paladini dell’ordine costituito del tutto implausibili fino al giorno prima, in mezzo ai quali il teologo ateo ed ex-hegeliano Bruno Bauer spicca per la sua bizzarra eccezionalità e pretesa a un acume profetico che ben gli meritò un rigurgito di ambigua notorietà durante il Novecento (per esempio presso un autore come Schmitt). Perfino un personaggio oggi quasi del tutto dimenticato come il sedicente barone d’Eckstein, antico sodale di Lamennais nella Parigi di Luigi XVIII e bersaglio occasionale della polemica di Hegel, potè ancora dopo il 1848 con le sue fantasie teocratiche orientaleggianti ispirare i fermenti di un certo cattolicesimo politico che anche in Germania soleva mescolare la fedeltà ultramontana al papa e il gesuitismo alle spinte del giorno verso sia pur mitigate forme di sovranità popolare. La matura riflessione di Stahl sulla storia dei partiti politici ed ecclesiastici nacque proprio dall’avvertita necessità di rendere ragione di questi mutamenti, che ormai non più permettevano di dar fiducia a rappresentazioni convenzionali degli opposti schieramenti in lotta.
Quali sensibilità e consapevolezza animavano la loro determinazione a contrapporsi al secolo della rivoluzione e fino a che punto era radicato il sentimento di continuità con il passato?
Sensibilità e consapevolezza differivano da un autore all’altro, pur se elementi comuni esistevano. Nel caso di Haller, Eckstein, Stahl e Bauer, ma i nomi potrebbero moltiplicarsi, comune era l’esperienza di una vera e propria conversione insieme religiosa e politica. Nessuno di costoro rimase legato alla professione di fede nella quale era stato allevato, sia che dal protestantesimo fosse passato al cattolicesimo (Haller ed Eckstein), sia che dall’ebraismo fosse passato al protestantesimo (Stahl, ma anche Eckstein almeno per parte di padre), sia che dal protestantesimo fosse passato all’ateismo, salvo poi assumere le sembianze di quel che oggi chiameremmo un ateo devoto (Bauer). Vista su questo sfondo, peculiare fu soprattutto la condizione di quei protestanti, come Stahl, che in anni di conversioni anche politiche al cattolicesimo sentirono il bisogno di difendere la Riforma dal rimprovero di essere stata la prima grande rivoluzione dell’età moderna e di aver preparato con l’attacco all’autorità papale il successivo assalto al potere regio. Anche sul piano politico nessuno di questi uomini si presentò fin dall’inizio al modo di un avversario dichiarato della rivoluzione, ma fu spinto piuttosto a divenirlo da esperienze personali decisive: Haller dall’occupazione militare francese della repubblica di Berna, Eckstein dal movimento insurrezionale antinapoleonico in Germania, Stahl dalla propria adesione personale a quella nazione tedesca della quale aveva scelto di abbracciare la fede cristiana sotto lo scudo dell’autorità regia, Bauer dalla delusione per essersi visto presto emarginato dallo schieramento democratico a causa del suo tenace aristocratismo spirituale. L’esperienza dell’emigrazione o dell’isolamento favorì in questi autori lo sviluppo di una sensibilità orientata alla deprecazione dei tempi nei quali era toccato loro vivere e uno spiccato orgoglio per la propria irriducibilità a compromessi. Se questa era la loro sensibilità comune, la consapevolezza di esser chiamati a opporsi non soltanto con la penna alla rivoluzione veniva loro dalla diffusa nozione che dopo il 1789 nulla più sarebbe tornato come prima e dall’acquisita certezza che l’albero della rivoluzione avesse radici profonde nel passato e protendesse i suoi rami verso l’avvenire, che il mondo cristiano-germanico generato dalla dissoluzione dell’antico impero romano fosse ormai minacciato a sua volta da barbari nascosti nelle viscere della società e animati da una nuova religione, quella dell’umanità e dei suoi pretesi diritti imprescrittibili. La controrivoluzione, la restaurazione, la reazione – termini solo in parte interscambiabili – rappresentava pertanto un’impresa originale anch’essa, della quale si poteva tentare tutt’al più di individuare qualche precedente storico approssimativo, ma che avrebbe richiesto ai suoi ispiratori e attuatori un ardimento non inferiore a quello dimostrato dai loro antagonisti. In questo senso la continuità con il passato formava non tanto l’oggetto di un’esperienza immediata, vissuta in prima persona, quanto piuttosto il contenuto di un vagheggiamento insieme intellettuale e sentimentale di un traguardo che bisognasse raggiungere attraverso il superamento di tutti quegli ostacoli sparsi dalla rivoluzione sul cammino di chiunque avesse voluto ripercorrerne all’indietro i passi e che ormai imponevano anche ai custodi della tradizione di aprire nuove strade.
Quale dimensione assume, nella riflessione della prima metà del secolo XIX, la figura di Giuliano l’Apostata?
L’imperatore Giuliano, detto l’Apostata dai suoi detrattori cristiani, aveva rappresentato durante il Settecento un modello di quel reggimento filosofico dello scettro che un certo pensiero illuministico era venuto raccomandando ai detentori del trono in polemica con le ingerenze ecclesiastiche nella vita politica e con il carattere cristiano della società europea stessa. Il platonismo di Giuliano e il suo disegno di rinsaldare l’impero romano decadente attraverso la promozione di una religiosità tutta terrena, quale quella che si tendeva ad attribuire come suo carattere all’antico politeismo greco-romano, erano parsi meritare approvazione in quanto tentativo, frustrato solo dalla morte sul campo di battaglia, di contrastare le spinte cristiane al ritiro dalla vita attiva e alla remissione del governo della cosa pubblica a un clero intrigante e nemico del sapere. All’indomani della rivoluzione francese il modello del roi-philosophe finì quasi subito per perdere fascino e Giuliano o per trovarsi esposto a una facile ripresa della sua tradizionale raffigurazione negativa come persecutore coronato del cristianesimo, insomma come antesignano della propaganda rivoluzionaria anticristiana, o per dare adito a una più sottile rivisitazione del suo ruolo incentrata sul significato epocale della sua apostasia, che da opzione personale discutibile avesse a divenire l’emblema di una più antica lotta occorsa al tempo suo fra rivoluzione e restaurazione. Senonché la causa della rivoluzione era rappresentata allora dal cristianesimo, laddove quella della restaurazione dal paganesimo. A partire di qui potè assistersi nella prima metà del secolo XIX allo spettacolo in apparenza paradossale che critici di parte filosofica del cristianesimo e dell’ordine ristabilito dal Congresso di Vienna, così per esempio Saint-Simon e i suoi seguaci in Francia oppure il giovane-hegeliano Strauss in Germania, facessero di Giuliano il prototipo di un fosco eroe del regresso storico, assimilato dai primi niente meno che a Napoleone laddove dal secondo al monarca prussiano romantico e retrivo Federico Guglielmo IV, mentre critici di parte cristiana della rivoluzione francese e dei suoi sviluppi, così per esempio Chateaubriand o Vigny in Francia, i teologi Neander e Ullmann in Germania, simpatizzassero con Giuliano interpretato come restauratore della religione avita, come fustigatore dello spirito del tempo e a dispetto dei propri sentimenti religiosi avvertissero il bisogno di rivalutare la sua figura proprio in quanto uomo profondamente turbato dagli eccessi rivoluzionari di parte cristiana e dall’attitudine prevaricatoria della neonata Chiesa di Stato. Dopo il 1848 la politica di conciliazione di Napoleone III verso il cattolicesimo determinò un ulteriore sviluppo di questo frequente ricorso al precedente storico costituito da Giuliano, il quale assurse allora a riprovevole antenato del nuovo padrone della Francia sia agli occhi di chi, come Proudhon, aveva in orrore il compromesso napoleonico con la vecchia religione e ammirava semmai nel cristianesimo lo slancio rivoluzionario delle origini, sia agli occhi di chi, come il duca de Broglie, guardava con preoccupazione al tentativo imperiale di rifare del cattolicesimo il sostegno del trono e temeva di veder guastato lo sforzo nel frattempo compiuto almeno da una parte della cattolicità in Europa di rivisitare il liberalismo e forse perfino la democrazia come sistemi politici che, una volta purgati dell’ideologia, potessero meglio garantire l’indispensabile autonomia della Chiesa dallo Stato e così salvaguardare la religione cristiana dalla sorte niente affatto ineluttabile di dover condividere la rovina del vecchio ordine politico-sociale minacciato e del suo improvvisato difensore del 2 dicembre 1851. Libero infine da queste ipoteche politiche del giorno, Giuliano era destinato solo nella seconda parte dell’Ottocento a rientrare nel puro ambito di competenza degli studiosi professionali del mondo antico e a tollerare semmai di costituire tutt’al più l’oggetto di riprese letterarie della sua vicenda più o meno brillanti, come quella di Ibsen.
Giovanni Bonacina insegna Storia della filosofia all’Università di Urbino. È autore delle seguenti monografie: Storia universale e filosofia del diritto (1989); Hegel il mondo romano e la storiografia (1991); Filosofia ellenistica e cultura moderna (1996); La scuola hegeliana e gli «Annali per la critica scientifica»(1997); Eretici e riformatori d’Arabia (2011; in inglese: The Wahhabis Seen through European Eyes, 2015). Fra le sue curatele e traduzioni: Aristofane (1998) e Sommario di istorica (2014, secondo la versione di Delio Cantimori) di Droysen, Lezioni sulla filosofia della storia di Hegel (2003, con Livio Sichirollo), Memorie di Gibbon (2014) e Questione ebraica di Bauer (2019).