
Venendo al volume curato da Paolo Tinti e da me, e contenente undici saggi di studiosi armeni e italiani, in esso è presentata solo una piccola parte di questo vasto patrimonio, che offre una notevole ricchezza non solo di “contenuti” (ci sono bibbie, vangeli, libri di storia e di geografia, dizionari, grammatiche, catechismi, traduzioni di antiche opere greche, italiane o europee, commentari ai libri sacri, preghiere, messali e molto altro ancora), ma anche di “forme”, perché alcuni di questi libri sono splendidamente rilegati e illustrati, con miniature nel caso di manoscritti e incisioni nel caso dei libri a stampa, testimoniando la cura riposta da questo popolo nella confezione del libro. Sotto questo aspetto voglio ricordare il piccolo e splendido Vangelo in pergamena conservato alla Biblioteca Universitaria di Bologna (ms. 3290), dalle vivide miniature e dalla legatura in metallo prezioso, frutto di un’arte orafa raffinata. Tra i “pezzi” più belli ci sono anche due Bibbie a stampa, dai tagli decorati, sempre conservate alla Biblioteca Universitaria di Bologna, da cui parte il nostro itinerario: la prima Bibbia armena a stampa, o “Bibbia di Oskan”, realizzata ad Amsterdam nel 1666 (di cui la Biblioteca Universitaria possiede una delle rarissime copie di lusso) e la “Bibbia di Mechitar”, stampata a Venezia tra il 1733 e il 1735 dall’Abate Mechitar, il fondatore dell’ordine monastico mechitarista, la cui sede-madre è tuttora nel monastero situato nell’isola di S. Lazzaro, in mezzo alla laguna.
Sulle opere presentate nel libro emerge, per le dimensioni monumentali (più di tre metri e mezzo di lunghezza, per un metro e venti di larghezza), la straordinaria “Mappa armena” del conte bolognese Luigi Ferdinando Marsili, realizzata a Costantinopoli nel 1691, un “unicum” all’interno della cartografia non solo armena.
Quale importanza ha la Mappa armena del conte bolognese Luigi Ferdinando Marsili?
Come accennavo, si tratta di una carta geografica che non ha uguali per dimensioni e forma, per ciò che significa in sé e per come i vari luoghi che include sono stati rappresentati. È una mappa tematica, dedicata ai luoghi sacri agli Armeni e, di conseguenza, alla cristianità tutta. Su sedici fogli di carta incollata su tela sono dipinti con la tecnica dell’acquerello più di ottocento disegni e didascalie di chiese, monasteri, santuari che risalgono alla prima predicazione apostolica in Armenia e che proseguono fino all’epoca in cui la Mappa è stata realizzata, nel 1691. Anche il luogo di origine del documento è significativo: Costantinopoli, città dove Europa e Asia si sfiorano, e dove è avvenuto l’incontro tra due personalità affini: il conte bolognese Luigi Ferdinando Marsili, uomo d’armi e scienziato allo stesso tempo, e il dotto armeno Eremia Čelebi Kʻēōmiwrčean, la figura più rappresentativa della comunità armena di Costantinopoli di allora. A lui si rivolse il Marsili per avere informazioni sui monasteri degli Armeni, e la Mappa conservata alla Biblioteca Universitaria di Bologna è la risposta concreta a questa sua domanda, il tentativo di Eremia “di soddisfare un tale desiderio del suo cuore”, come scrive lui stesso in uno dei due cartigli posti sul lato destro della mappa. Ma ci sono altri due significati legati alla Mappa che mi preme sottolineare. Il primo è il suo valore storico e simbolico, di testimonianza della profonda e antica fede cristiana del popolo armeno. La Mappa non ha coordinate geografiche né meridiani e paralleli né scala: i numerosi santuari e gli elementi geografici (soprattutto montagne, laghi e corsi d’acqua) vi sono riuniti per distanza approssimativa, l’uno dietro l’altro, a creare un continuum di luoghi sacri al di là dei confini politici (l’Armenia era allora divisa tra Impero Ottomano e Impero Persiano) e del tempo. Vi sono rappresentati i monasteri armeni perfino della lontana Crimea e anche quelli che ai tempi di Eremia non esistevano più, ma di cui trovava memoria nelle antiche fonti storiche da lui consultate. Insieme ai luoghi, sono rievocati personaggi e fatti dell’Antico e Nuovo Testamento, figure di apostoli e di santi risalenti all’epoca più antica della cristianizzazione del Paese, insieme a un numero davvero notevole di reliquie. E il secondo significato della Mappa è legato alla sua scoperta, avvenuta “casualmente” nel 1991, quando il personale della Biblioteca Universitaria di Bologna era impegnato nella ricerca di documenti cartografici da mostrare in una mostra in preparazione dal significativo titolo Esplorazioni in Biblioteca, svoltasi nei mesi di ottobre e novembre 1991. Fu allora che dai depositi emerse un grosso rotolo di tela, che recava scritto all’esterno Tabula Chorographica Armenica. Fu quindi chiamata per un consulto l’esperta di cultura armena dell’Università di Bologna, la prof.ssa Gabriella Uluhogian, la quale, quando vide svolgersi davanti ai suoi occhi la Mappa, provò la più grande emozione della sua vita di studiosa, come racconta in uno dei suoi due contributi inediti pubblicati nel libro, che è dedicato alla sua memoria. Si devono a lei l’accurato studio e l’edizione del documento (Un’antica Mappa dell’Armenia. Monasteri e Santuari dal I al XVII secolo, Ravenna, 2000), con la trascrizione delle didascalie armene accompagnata dalla corrispondente traduzione in italiano con commento e note. Grazie alle sue ricerche, al documento furono restituite identità e storia e, nel contempo, esso stesso fu restituito alla storia, esattamente dopo trecento anni di oblio. Il suo ritrovamento rafforzò ancor di più nella studiosa la convinzione, espressa nel libro, che “tutte le biblioteche storiche italiane, senza contare gli archivi dello Stato e della Chiesa […] in gran parte ancora inesplorati, conservano qualche documento “armeno”, sia esso tale per la lingua o perché documenta un legame con l’Armenia o con gli Armeni” (Tracce armene…, p. 42).
Quali altre «meraviglie» armene sono custodite nella Biblioteca Universitaria di Bologna e in altre biblioteche italiane?
Nel libro ne vengono passate in rassegna diverse. Oltre alla Mappa del Marsili, al Vangelo 3290 e alle due Bibbie cui si è accennato, tutte conservate alla BUB, ci sono altre “meraviglie” che documentano anch’esse le relazioni intercorse tra gli Armeni e l’Italia. Un esempio, al quale è dedicato uno dei saggi, è un breve scritto armeno, intitolato “Lettera dell’amicizia e della concordia”, la cui editio princeps – di cui un esemplare è custodito alla Biblioteca Universitaria di Bologna – vide la luce sempre a Venezia nel 1683, corredata della traduzione italiana. Non certo pregevole per qualità estetiche, il libello è tuttavia emblematico della volontà di avvicinamento all’Occidente latino da parte del Regno armeno di Cilicia, sorto sulle sponde orientali del Mar Mediterraneo tra i secoli XII e XIV. La “Lettera dell’amicizia e della concordia”, scritta allora, è per la verità un falso storico: essa conterrebbe l’alleanza tra il primo re armeno cristiano, Tiridate, e san Gregorio l’Illuminatore (il santo che convertì il popolo armeno nel 301 d.C.) con i loro “omologhi” in Occidente, Costantino il Grande e papa Silvestro. La pubblicazione del libello in Italia, cui seguirono altre edizioni successive sempre nel nostro Paese, aveva con sé delle implicazioni politiche, naturalmente, tuttavia la menzione di una tale alleanza (che sia esistita o meno) riprendeva una tradizione armena antica, presente già nella la celebre “Storia” di Agatangelo del V secolo. Altre “meraviglie” – alcune comuni alla BUB – si trovano tra i libri armeni appartenenti alla Biblioteca Palatina di Parma, molti dei quali appartenuti al duca Carlo Ludovico di Borbone, uno dei primi “europei armenisti”, che nel 1845 aveva appreso la lingua armena dai Padri Mechitaristi di Venezia. Tra di essi, troviamo i tre volumi della Storia degli Armeni dall’inizio del mondo al 1784 scritta dal Padre Mik‘ayēl Č‘amč‘ean, e l’edizione, risalente al 1818, della traduzione armena del Chronicon di Eusebio di Cesarea. Quest’ultima è un’opera perduta nell’originale greco e leggibile invece nella sua interezza solo nella sua antica versione in armeno. La stessa sorte è toccata a un altro grande scrittore dell’antichità, Filone Alessandrino: una buona parte dei suoi scritti, scomparsa in greco, è rimasta in lingua armena. Sia la Palatina che la BUB possiedono queste antiche edizioni.
Ma altre meraviglie restano ancora da scoprire perché, come si è accennato, l’antico patrimonio armeno a stampa conservato in Italia resta ancora, in larga parte, da censire. Ad oggi, a colmare i ritardi della catalogazione informatica, esistono solamente due cataloghi, usciti in questi ultimi anni, quello della Biblioteca Palatina di Parma e della Biblioteca Universitaria di Padova, mentre è in preparazione quello della Biblioteca Universitaria di Bologna, che costituirà il secondo volume di questo lavoro.
In che modo le numerose edizioni a stampa armene che dal Cinquecento all’Ottocento hanno visto la luce nel nostro Paese documentano i contatti tra il popolo armeno e l’Italia?
Questo aspetto delle relazioni con il nostro Paese è un dato che abbiamo tenuto molto ad evidenziare. Ognuna di queste opere prodotte in Italia rappresenta un segno concreto di una lunga consuetudine tra l’Italia e gli Armeni. A Venezia, ad esempio, centro tipografico italiano d’eccellenza, prima ancora che vi giungesse il primo stampatore armeno, Giacomo il Peccatore, si era stabilita già da secoli una comunità armena dedita soprattutto al commercio, che avrà molto probabilmente funto da riferimento per lui. La stessa città, due secoli più tardi, offrì l’ambiente ideale al fondatore dell’ordine armeno mechitarista, il già ricordato Abate Mechitar (1676-1749), per lo svolgimento della sua missione culturale e della sua attività editoriale, tra loro strettamente connesse. L’esperienza accumulata dai tipografi veneziani gli fu certamente di grande supporto, fino a quando, quarant’anni dopo la sua morte, nel 1789, i suoi monaci non decisero di impiantare una tipografia direttamente sull’isola, attiva fino al 1994 e capace di stampare in trentasei lingue diverse. A parte Venezia, ricordiamo che tra Cinque- e Seicento si stamparono in Italia libri armeni anche a Roma e, anche se in misura molto minore, a Milano, Livorno e Padova, senza contare Pavia, dove nel 1539, un pioniere degli studi orientalistici, Teseo Ambrogio degli Albonesi, compose ed editò una grammatica plurilingue che comprendeva anche l’armeno.
Mi permetta di concludere con un ultimo accenno al rapporto di amicizia tra l’Armenia e l’Italia: il libro stesso, se vogliamo, è un piccolo segno dell’amicizia tra i due Paesi, perché ad esso hanno collaborato studiosi armeni del Matenadaran di Erevan (la principale biblioteca al mondo di manoscritti armeni) e studiosi italiani dell’Università di Bologna, di Pisa e di altre istituzioni. A questo proposito, anche a nome del collega Paolo Tinti, desidero ringraziare tutti gli autori dei saggi, il direttore della Biblioteca Universitaria di Bologna, il dottor Giacomo Nerozzi, che ha accolto questo volume nella nuova collana della Biblioteca (“Biblioteca Universitaria di Bologna. Analisi e strumenti”), e la Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona, che ha finanziato la traduzione inglese che accompagna ogni pagina del libro.
Anna Sirinian è docente di Lingua e letteratura armena presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. I suoi interessi sono rivolti in particolare alle antiche traduzioni armene dal greco, ai manoscritti armeni, alla storia della presenza armena in Italia e ai documenti relativi agli Armeni conservati nelle biblioteche italiane. Tra i suoi ultimi lavori ricordiamo Una nuova tappa del Čašoc‘ (Lezionario armeno). Il manoscritto Arch. Cap. S. Pietro B 77, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2018 (Studi e testi, 524) [in collaborazione con P. Ch. Renoux].
Con contributi di Gabriella Uluhogian, Melania Zanetti, Khachik Harutyunyan, Nazenie Garibian, Davide Ruggerini, Manea Erna Shirinian, Alessandro Orengo, Paolo Tinti, Chiara Aimi, Anna Sirinian