“Tra umano e divino. Forme e limiti del culto degli imperatori nel mondo romano” di Cesare Letta

Prof. Cesare Letta, Lei è autore del libro Tra umano e divino. Forme e limiti del culto degli imperatori nel mondo romano, edito da Agorà & Co. Sul cosiddetto “culto imperiale” sono state fornite le più diverse interpretazioni: gli imperatori romani venivano adorati come dei anche in vita?
Tra umano e divino. Forme e limiti del culto degli imperatori nel mondo romano, Cesare LettaSul cosiddetto culto imperiale sono state espresse opinioni molto diverse. A un estremo c’è la posizione di chi sminuisce drasticamente la portata del fenomeno, riducendolo a una dimensione puramente politica come strumentale espressione di lealismo concretizzata in frigidi rituali, piuttosto simili a mascherate in cui nessuno credeva.

All’altro estremo troviamo, ancora di recente, studiosi assolutamente convinti che l’imperatore romano, sin dall’inizio del principato, fosse considerato un dio e adorato come tale senza difficoltà, sia da vivo che da morto, non solo nell’Oriente di tradizione ellenistica, ma anche nelle province occidentali, in Italia e nella stessa Roma.

Sostanzialmente su questa linea è l’opinione comune generalmente diffusa tra le persone di media cultura, secondo cui gli imperatori romani avrebbero preteso di essere adorati come dèi già da vivi e questa pretesa, inaccettabile per i cristiani, sarebbe stata alla base delle persecuzioni.

Questa varietà di opinioni e i molti equivoci che ne sono derivati, dipendono in buona parte dall’ambiguità dell’espressione “culto imperiale”, un’etichetta di comodo che in realtà riunisce pratiche religiose diverse e anche contraddittorie, che mutarono nel tempo e nello spazio e assunsero aspetti assai diversi a seconda dei luoghi, dei contesti culturali e delle parti coinvolte. Soprattutto è importante saper distinguere accuratamente tra la domanda che veniva dal centro del potere (ciò che pretendeva l’imperatore) e la risposta dei diversi soggetti di volta in volta coinvolti.

Questo ci permette di dare con chiarezza una prima risposta alla prima domanda: gli imperatori romani, anche quelli che la tradizione storiografica antica ci presenta come i peggiori tiranni, non pretesero mai di essere ufficialmente adorati come dei in vita.

Quali forme assumeva il “culto imperiale”?
Le linee fondamentali del culto imperiale furono stabilite una volta per tutte da Augusto fin dai primissimi tempi del suo lungo principato.

Cesare aveva commesso l’errore di accettare di essere considerato dio da vivo, quando aveva permesso che il senato lo proclamasse ufficialmente “Giove Giulio” (Cassio Dione 44, 6, 4), e questa sua scelta fu decisiva nel determinare il suo assassinio.

Augusto mostrò di aver imparato bene la lezione e dopo aver ottenuto, probabilmente già nel 44 a.C., l’istituzione di un culto ufficiale di Cesare morto col nuovo nome di Divo Giulio, stabilì per il culto di stato due principi fondamentali: 1) Il principe può essere riconosciuto ufficialmente come dio a pieno titolo e ricevere un culto diretto, con proprie immagini di culto, templi, altari e sacerdoti, solo da morto e solo se tutto questo è stato stabilito ufficialmente da una delibera del senato. Molte allusioni dei poeti augustei mostrano che questo esito era previsto come sicuro anche per Augusto quando era ancora in vita e d’altra parte alla sua morte il suo successore Tiberio lo realizzò, certamente sulla base di precise istruzioni lasciate dallo stesso Augusto. 2) Per il principe vivo possono esserci solo atti di culto che lo abbiano come beneficiario privilegiato e non come destinatario diretto. Questo significa che si offrono preghiere e sacrifici a varie divinità per l’imperatore, cioè per invocare la sua incolumità e preservazione (pro salute), ma non a lui medesimo come dio.

In concreto, per incanalare in questa direzione il culto di stato, già nel 30 a.C., all’indomani della vittoria definitiva su Antonio e Cleopatra, prima ancora di assumere il titolo di Augusto, Ottaviano fece approvare un decreto del senato che stabiliva due cose: 1) in occasione di ogni banchetto, sia pubblico che privato, tutti dovevano offrire una libazione con vino e incenso al genius dell’imperatore; 2) all’inizio di ogni anno, ai tradizionali voti offerti agli dei per la salvezza dello stato e del popolo romano, dovevano essere aggiunti voti per la salvezza del principe e doveva essere pronunciato un solenne giuramento di fedeltà a lui, che come ricaviamo dagli sviluppi successivi doveva essere fatto per il genius del principe.

In questo modo Ottaviano restava formalmente nel solco delle più antiche tradizioni religiose romane, che da sempre prevedevano il culto del genius come vaga entità divina garante della vita di ogni uomo, ma introduceva una novità macroscopica, trasferendo il culto del proprio genius dalla sfera puramente privata e familiare a quella pubblica.

Il culto pubblico e generalizzato del suo genius non faceva di lui un dio, ma dal punto di vista religioso lo poneva su un piano più elevato, incomparabilmente più vicino al mondo divino rispetto ai comuni mortali. Questo era particolarmente evidente nei vota pro salute, perché solo per l’imperatore s’invocavano espressamente e pubblicamente le principali divinità dello stato.

La centralità della figura dell’imperatore nella prassi religiosa della comunità risulta ancora più chiara se riflettiamo alle implicazioni della norma che stabiliva una libazione al suo genius in occasione di ogni banchetto pubblico: questo significa che non solo per i sacrifici celebrati in occasione dei vota annuali, ma anche per qualunque sacrificio cruento, in qualunque luogo, in qualunque tempo e a qualunque divinità indirizzato, era prevista sempre una libazione al genius del principe, per la sua salus, perché esso implicava un pasto rituale (epulum) in cui si consumavano le carni delle vittime sacrificali.

Uno sviluppo altrettanto importante fu che l’uso di giurare per il genius del principe, introdotto nella cerimonia annuale del giuramento di fedeltà al principe, ben presto si estese anche alla prassi quotidiana dei giuramenti privati (nella stipula di contratti) e di quelli giudiziari (nelle testimonianze rese davanti al giudice, di norma suggellati da una libazione al genius dell’imperatore).

A queste forme di omaggio religioso all’imperatore si aggiunsero già nel corso del lungo regno di Augusto altre forme di culto indiretto, nel solco della tradizione di età repubblicana del culto di astrazioni divinizzate. Vediamo così apparire Victoria Augusta nel 27 a.C., Pax Augusta nel 13 a.C. (quando fu votata l’ara Pacis), i Lares Augusti nel 12 a.C., Concordia Augusta nel 10 d.C., Iustitia Augusta nel 13 d.C.; sappiamo poi che nel 6 d.C. fu dedicato un altare al numen Augusti (o numen Augustum), personificazione della volontà sovrana o del potere dell’imperatore.

Anche in questo caso, pur con un’evidente ambiguità, non si tratta di un culto diretto dell’imperatore come dio, ma del culto di vaghe entità divine da cui ci si aspetta che ispirino, guidino e sorreggano l’imperatore sulla via della vittoria e della virtù.

Queste direttive, stabilite da Augusto per il culto di stato, furono in realtà determinanti anche per le innumerevoli forme decentrate del culto imperiale (a livello provinciale, cittadino e privato), anche se, come ho già detto, per comprenderle correttamente, è fondamentale distinguere tra richieste del centro, rimaste sempre fedeli al modello augusteo, e risposte delle periferie, spesso “più realiste del re”.

Quali differenze esistevano tra il culto di stato e i culti provinciali, cittadini e privati?
Ad Augusto risalgono anche i primi culti provinciali: quelli dell’Asia e della Bitinia in Oriente, quello delle tre Gallie in Occidente: i primi sorti su iniziativa dei provinciali e con l’approvazione di Augusto, il terzo promosso dallo stesso Augusto sulla loro falsariga. Sul loro modello, in seguito, sorsero via via un po’ in tutte le province culti analoghi, con un proprio clero e propri luoghi di culto in cui si riunivano annualmente assemblee di rappresentanti delle città o delle tribù di una provincia o di un gruppo di province vicine.

Ma anche alle province per l’imperatore vivente si chiedevano solo due cose: 1) dei vota annuali pro salute, che lo presupponevano uomo e non dio e che implicavano libazioni al suo genius in occasione dei pasti rituali in cui si consumavano le carni delle vittime sacrificali; 2) il giuramento di fedeltà all’imperatore, pronunciato per il suo genius ed egualmente suggellato da una libazione al suo genius. È quanto proclamava ancora nel 180 d.C. il proconsole d’Africa Vigellio negli Atti dei Martiri Scillitani: «Noi giuriamo per il genio del nostro signore, l’imperatore, e offriamo libazioni per la sua salvezza».

Rispetto a queste attese da parte delle autorità imperiali, la risposta delle diverse assemblee provinciali appare significativamente diversa: mentre nell’Oriente grecofono di tradizione ellenistica si tende a scivolare verso un culto diretto dell’imperatore come dio già in vita, le province occidentali sembrano attenersi sostanzialmente al modello augusteo.

La stessa varietà di reazioni si registra a livello cittadino e a livello privato. Soprattutto nelle città dell’Oriente sono numerosi i segni di un culto diretto.

Va però sottolineata anche l’ambiguità di fondo di molte testimonianze. I molti “altari di Augusto”, “templi di Augusto”, Cesarei, Augustei o Sebastei, disseminati in tutto l’impero non sono necessariamente da intendere come altari, templi o santuari dedicati al culto dell’imperatore vivente come dio; per lo più credo che essi siano da intendere piuttosto come luoghi riservati ad atti di culto pro salute dell’imperatore, diretti non a lui, bensì a una serie di divinità. Come ho già detto, in questo modo l’imperatore veniva a trovarsi al centro degli atti di culto, ma come loro beneficiario privilegiato, in questi casi addirittura esclusivo, non come destinatario diretto totalmente equiparato agli dèi tradizionali.

Per quanto riguarda il culto privato, da parte di singoli, di famiglie o di associazioni, in linea di principio il margine di libertà era ancora più ampio, anche se poi in concreto non sono molti i casi in cui si può essere certi di un culto diretto dell’imperatore vivente. Quello che va sottolineato è che il decreto senatorio del 30 a.C. incise profondamente anche sull’ambito privato, introducendo la prassi della libazione al genius dell’imperatore anche nei banchetti privati; come mostrano passi di Orazio, di Ovidio e di Petronio, quest’uso si radicò profondamente e stabilmente e questo mostra che anche a livello privato prevaleva il culto indiretto.

Quali principi regolavano il culto di stato?
Per il culto di stato, che riguardava in primo luogo Roma coi suoi templi e i suoi collegi sacerdotali tradizionali, ma anche le comunità di cittadini romani (municipi e colonie) sparse in tutto l’impero e soprattutto le formazioni dell’esercito, dovunque dislocate, la risposta l’ho già data al punto 2: 1) culto diretto solo per l’imperatore defunto se ufficialmente proclamato divus; 2) solo riti pro salute per l’imperatore vivente, sia nell’ambito dei culti tradizionali, sia attraverso il culto del suo genius, del suo numen o di varie astrazioni divinizzate caratterizzate dall’epiteto Auguste.

Quali sono le principali testimonianze letterarie, epigrafiche e archeologiche al riguardo?
La documentazione sul culto imperiale è sterminata in ogni tipo di fonti. Oltre alle testimonianze presenti in opere storiografiche e letterarie in genere o nei testi giuridici, abbiamo migliaia di iscrizioni latine e greche di tutte le località dell’impero, papiri e tavolette cerate, un’enorme quantità di monete, statue, rilievi, e ancora altari, templi e monumenti di vario tipo.

Volendo scegliere poche testimonianze particolarmente significative, tra le fonti letterarie ricorderei innanzi tutto il passo in cui lo storico Cassio Dione, intellettuale greco e senatore romano autore di una Storia Romana dalle origini al 229 d.C., parla del decreto qui più volte ricordato con cui il senato, nel 30 a.C., introdusse i vota annuali per la salvezza del principe, la libazione al suo genius in occasione di ogni banchetto e il giuramento di fedeltà a lui pronunciato per il suo genius (51, 19.7).

Ricorderei poi la celebre lettera di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano (ep. 96, 5-6), da cui ricaviamo che ai cristiani non si chiedeva di adorare l’imperatore vivo come se fosse un dio, ma di offrire una libazione sia agli dei tradizionali, davanti alle loro statue di culto (simulacra), sia al genius dell’imperatore vivente, davanti al suo ritratto, definito non a caso imago come il ritratto di qualsiasi uomo, e non simulacrum, come l’immagine di un dio. È quanto confermano le parole del proconsole d’Africa Vigellio nei già ricordati Atti dei Martiri di Scilli, messi a morte nel 180 d.C.

È chiaro, dunque, che la base giuridica della condanna dei cristiani non era un loro rifiuto di adorare come un dio l’imperatore vivente, ma il loro rifiuto di sacrificare agli dèi tradizionali e al suo genius per la sua salvezza.

Tra le fonti epigrafiche ricorderei soprattutto un’iscrizione trovata a Forum Clodii, presso l’odierna Bracciano, da cui ricaviamo che nel 18 d.C., a quattro anni dalla morte di Augusto, le autorità cittadine nell’anniversario della sua nascita e in quello della nascita del suo successore Tiberio offrivano sacrifici cruenti su un altare dedicato al numen Augustum e nel corso del banchetto che seguiva al sacrificio offrivano libazioni ai genii di entrambi, secondo un rituale istituito quando Augusto era ancora vivo.

Tra le fonti archeologiche mi limito a ricordare le tante monete che celebrano la divinizzazione ufficiale (consecratio) di un imperatore defunto raffigurandolo in atto di ascendere al cielo sulla quadriga del Sole. In questo modo è rappresentato il defunto Traiano nei rilievi di un grande altare monumentale eretto ad Efeso in età antonina.

Si potrebbero citare ancora moltissimi esempi, ma già così mi pare di aver dato un’idea sufficiente della complessità di un fenomeno così pervasivo, grandioso e interessante che caratterizza tutta la storia dell’impero, con significative permanenze anche dopo la svolta costantiniana.

Cesare Letta è Professore emerito di Storia romana nell’Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi studi di epigrafia (Marsi, Alpi Cozie), storiografia antica (Catone, Seneca, Cassio Dione), storia politica (età dei Severi) e storia religiosa (Sol Invictus, culto imperiale). Dal 2005 è direttore della rivista “Studi Classici e Orientali”.

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