
Come si svolse l’affannosa ricerca di affinità occulte tra le scuole e tra le fedi del Mirandolano?
La domanda è formulata in termini quanto mai opportuni. Se consideriamo i tempi, infatti, la rapidità di lettura e di assimilazione è impressionante. Dalla prima formazione aristotelica, che è avvenuta a Padova e poi a Pavia, e l’assolutamente famelica immersione nel platonismo cui si affiancano lo studio dell’averroismo e della Cabala, passano meno di sei anni. E contestualmente Pico apprende il greco, l’arabo, l’ebraico, l’aramaico (anche se non di tutte queste lingue ha la medesima padronanza). La questione dell’affinità dei principi, delle res, piuttosto che delle parole, i verba, è altresì posta in modo corretto. Se si guarda alle parole, nulla appare più conflittuale; se si guarda ai principi, nulla appare più concorde, scrive in una lettera a Ficino. Per chi sappia ben guardare dunque, vi sono affinità. Più ancora che affinità, v’è la stessa verità espressa ogni volta in un modo unico. Come si ricerca questa verità? In questo caso, il presupposto è neoplatonico: non esistono i molti, se non esiste l’Uno. Ancora più radicalmente, con il Parmenide di Platone: se non esiste l’Uno, allora nulla esiste. Ebbene, dunque: se esiste, una qualsiasi posizione filosofica e religiosa, deve essere vera. Come si è cercato di dimostrare nel libro a più riprese, il falso non esiste in senso assoluto, perché coinciderebbe con il non-essere. Si tratta, allora, in primo luogo, di leggere, leggere tutto e con estrema competenza. Si coglierà che tutti i principi non possono che affondare le radici nel Vero, onnipresente. Certo, è chiaro che molte delle operazioni concordistiche di Pico, teoreticamente prima ancora che storicamente, sono molto ardite e possono apparire forzate. Si pensi, per esempio, all’affermazione per cui la psicologia dell’averroismo e di Alessandro di Afrodisia non siano incompatibili con l’immortalità dell’anima individuale. La stessa concordia radicale di Platone e Aristotele (che Pico tenta di mostrare, in modo più circostanziato, nel De ente et Uno) è più visionaria, più sfolgorante che praticabile. Quel che conta, tuttavia, è il pensiero più profondo di Pico. Nessuno può pretendere di esprimere la verità tutta intera. Nessun filosofo, nessuna religione, neppure il cristianesimo storico. In ciascuna manifestazione v’è qualche cosa di insigne che è sfuggito alle altre. L’atteggiamento, dunque, degli intellettuali deve essere di analisi felice e rispettosa, mai di conflitto. Ecco perché oratio de pace.
Che riflessioni condivise, Pico, con Poliziano?
Grazie per la domanda, perché il capitolo su Poliziano è forse quello cui tengo di più. Il rapporto fra i due è qualcosa di meraviglioso, totale. Un legame talmente forte che probabilmente scatena il loro assassinio (si ricordi che entrambi muoiono avvelenati con l’arsenico). La storiografia ha sempre insistito sull’influenza che Pico ha esercitato su Poliziano, in particolare sui corsi aristotelici che quest’ultimo ha tenuto presso lo studium fiorentino attirandosi molteplici inimicizie, come si legge nel Lamia. Pur non mettendo in discussione queste acquisizioni, il libro cerca di capovolgere la prospettiva e di sottolineare una prima, fortissima influenza di Poliziano sul giovane Pico. Poliziano è un intellettuale onnivoro e un linguista straordinario. Quel che fa nei Miscellanea è un unicum nella letteratura italiana. Egli non pensa filosoficamente. Non fonda la sua attività, la pratica. Sempre, con attenzione a tutti gli autori, anche i più negletti come gli esponenti della letteratura latina dell’età argentea. A Pico comunica due motivi fondamentali: il rifiuto di un’autorità o di un canone esclusivo di autorità (non soltanto la pluralità, dunque, bensì il pluralismo); la concezione iper-realistica del linguaggio, per cui la poesia è costruzione della realtà stessa e Omero il primo teologo nel senso che Proclo attribuisce a questo termine, vale a dire di descrizione completa e razionale dell’essere. Se il primo motivo agisce ovunque in Pico, è il rifiuto del principio di imitazione, il secondo, più difficile da cogliere, traluce in particolare nel Commento sopra una canzona d’amore di Girolamo Benivieni, al quale si è dedicato molto spazio. Non siamo di fronte al mero recupero della mitologia antica, se così fosse, i due sarebbero ben poco originali, bensì di fronte all’affermazione di un’identità profonda fra filosofia, poesia e teologia (nell’accezione dei prisci theologi). Comprendere, leggere, proferire e costituire sono differenti volti di un’unica attività. Molta influenza rivestono qui Giamblico e Giuliano, che Pico si vanta di aver letto prima di Ficino. Pico più ragionatore, Poliziano più amante del particolare, del tassello. Eppure convinto che la meraviglia possa scaturire soltanto dalla liberazione dei tasselli dall’oblio, nonché dal loro culto. Così come Pico convinto che chi rinunci a una filosofia, in fondo, rinunci a tutte.
Quale fortuna ha conosciuto la concordia pichiana?
Questa è la domanda più insidiosa. Di lì a poco, infatti, sarebbero scoppiate le guerre di religione. Soprattutto, agli inizi del XVII secolo, sarebbe gradualmente scemata la centralità del rapporto fra Platone e Aristotele, nonché l’amore incondizionato per il mondo antico. Si pensi a Bacon o a Descartes. Certamente questa idea non scompare. C’è, anche se declinata in senso più operativo, in Erasmo, che però si nutre principalmente dell’opera di Giovanni Francesco Pico. C’è, nell’idea della religione naturale cara agli illuministi, pur senza il sostrato neoplatonico. Torna, invece, prepotentemente, nei terribili anni Trenta del Novecento. Studiare Pico era un grido di libertà, soltanto apparentemente dissimulato. Dedico qualche considerazione al tema nel capitolo su Cusano. Garin la recupera contro Heidegger. Croce nel 1928 ripubblica il Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto. Un antidoto contro la violenza del pensiero, contro la sua pretesa di chiudere i conti con la sua stessa vitalità. Un antidoto, che, mi auguro, siamo sempre in grado di utilizzare. Proprio per questo ho scritto il libro. Viviamo, in fondo, per non dimenticarci.
Pietro Secchi (1974) è Dottore di Ricerca in Filosofia. Collabora da anni con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, in qualità di Cultore della Materia. È in possesso dell’ASN fascia II nel settore disciplinare 11 C/5. Tra i suoi lavori, le monografie: “Del mar più che del ciel amante”. Bruno e Cusano, con prefazione di Michele Ciliberto, Storia e Letteratura, 2006; La conoscenza possibile: tre saggi su Cusano, Lithos, 2017; Studi cusaniani, Olschki, 2018; Tra le fonti di Pico: strumenti per la concordia, premessa di Stéphane Toussaint, Storia e Letteratura, 2023. Si dedica da anni all’attività poetica e letteraria, come scrittore e relatore. Ha pubblicato le seguenti raccolte: L’altro emisfero, LietoColle, 2007; Le arance dormono ancora, Lepisma, 2008; Solo gli occhi ci possono salvare, Puntoacapo, 2010; Modernità d’amore, Progetto Cultura, 2011; Nelle lamiere sporche, Polimata, 2012; Un milione di occhi, Lietocolle, 2013; Le navi blu, Lietocolle, 2013; Er piccione sfracellato, FusibiliaLibri, 2017; O meu ainda. Poemas, FusibiliaLibri, 2019; Atomi e tosse; Poemas portugueses. Poesie portoghesi, Fusibilia, 2022.