
Altri libertini venne definito, nel decreto di sequestro dell’opera su tutto il territorio nazionale, “opera luridamente blasfema”: quale lettura offre, nel Suo libro, del romanzo d’esordio di Pier Vittorio Tondelli?
Lo presento per ciò che è stato: un romanzo politico, ben più di quel Boccalone di Enrico Palandri cui viene spesso paragonato in difetto. Altri libertini è, come il suo autore, un romanzo figlio anomalo del Settantasette bolognese, in cui l’impegno tocca le corde sia del sociale che del politico. Per comprendere l’aspetto politico di Altri libertini, si deve infatti considerare la discriminazione sociale degli emarginati. Tondelli con questa opera d’esordio si pone come il loro poeta: il fuoco del libro è tutto spostato su chi si trova ai margini della società dell’epoca che li respinge disprezzandoli. Tutte persone di cui le sezioni della DC ma anche del PCI dell’epoca non si occupavano, se non per giudicarle sprezzantemente, così come accadeva contro i giovani sperimentalisti che mandavano in onda Radio Alice. Un atteggiamento di chiusura condiviso anche dai critici del Gruppo 63, che infatti stroncarono quel libro e i successivi di Tondelli senza mai capirci un tubo. È il manifesto di una gioventù di provincia non incasellata che ha il desiderio di essere libera, prima ancora che libertina. Sono giovani che hanno voglia di stupire, di viaggiare, di fuggire dal borgo, di amare liberamente in tempi pre-AIDS, di conoscere, di vivere, di pensare, ma anche poi di tornare a casa. Hanno bisogno di evadere e di esprimersi contro un contesto sociale percepito come limitante in quanto provinciale, borghese e conformista, anche quando si autoproclama “comunista”. Alla fine, approdano a un senso dell’umano che trascende l’aspetto religioso in favore di un misticismo umanista di stampo orientale. È quello che, per usare un termine caro del vocabolario tondelliano, in questo caso di derivazione buddista, è un satori.
In che modo, in Tondelli, vita e finzione narrativa si confondono?
L’importanza dell’elemento autobiografico riguarda tutti gli autori di narrativa, ma nel caso di Tondelli merita un discorso più articolato. Se è vero che questo genere di autobiografismo conduce dal privato all’impegno sociale, descrivendo situazioni e sensazioni che hanno valore universale e dunque letterario, è necessario distinguere almeno due livelli nel corpus tondelliano, uno “positivo” e uno “negativo”. Il primo è quello di cui parla anche Minardi, facendo riferimento in particolare ad Altri libertini, Pier a gennaio e Camere separate. In queste opere l’autore parte spesso dall’analisi di emozioni, situazioni, sentimenti da lui vissuti, per assegnare loro una valenza collettiva, per denunciarli al mondo. Questo genere di autobiografismo è ben lontano dalla cronaca diaristica e convince perché tende all’universalità e alla possibilità di condivisione con un pubblico vasto. Il secondo tipo di autobiografismo tondelliano, che a me convince meno, è quello che chiamo “fisico-pedissequo” ed è utilizzato ne Il diario del soldato Acci, in Dinner Party (si veda il protagonista Fredo Oldofredi), in Rimini (nell’inserto dello scrittore Bruno May con padre Ansèlme) e, anche se il discorso a riguardo è molto più complesso, anche in Pao Pao. In questi lavori l’autore tende a modellare la maschera dei suoi personaggi per farla aderire alla propria, rimanendo così prigioniero del proprio vissuto. Il suo quotidiano entra di prepotenza nella narrazione sotto forma di personaggi che risultano troppo simili fra loro e a loro volta tutti ricalcati sulla figura dell’autore stesso.
Rimini rappresenta per Tondelli il romanzo della maturità: in che modo lo scrittore emiliano vi supera la “generazionalità” dei suoi primi testi?
Tondelli quando approccia il romanzo Rimini ritiene di aver detto quello che doveva riguardo allo sperimentalismo linguistico con Altri libertini, Il diario del soldato Acci e Pao Pao. Con Rimini vuole misurarsi con ciò che lui percepisce come forma-romanzo classica, e per lui questo lavoro rappresenta un progetto più ambizioso dei precedenti. Il romanzo è dunque un tessuto di “voci”, di discorsi, provvisti ciascuno del proprio accento, di una propria intenzione. È possibile dire di una propria ideologia degli sconfitti, citando una famosa auto-analisi fatta da Tondelli stesso. In Rimini, il tentativo di mettere a punto questa dialettica, giustamente definita “polifonica” da vari critici è senza dubbio impostato. Tuttavia il risultato finale non è riuscito, proprio perché la voce di Tondelli soffoca quella di diversi personaggi a causa degli eccessivi riferimenti autobiografici. Uno stile linguistico impoverito da uno sciatto abuso di avverbi, aggettivi e frasi fatte dà il colpo di grazia a questo tentativo letterario. Non a caso Rimini fu stroncato dall’amico e editor francese di Tondelli, François Wahl, che salvava solo i monologhi di Renato. La cosa che molti non sanno, riguardo Rimini, è che il suo progetto fu impostato nel 1979, all’epoca dell’ur-testo di Altri libertini, per poi spaziare su vari livelli aggiunti a metà anni Ottanta, dal giallo alla critica agli anni della Milano da bere, un po’ come in Dinner Party. Un vero mosaico letterario, ma dall’esito incerto.
Da cosa nasce l’ossessione di parte cattolica, ma anche di esponenti del movimento Lgbtq+, per la figura e le parole di Pier Vittorio Tondelli? Come si è evoluta, negli anni, la sua ricerca di senso legata al religioso?
Tondelli con la critica ha sempre avuto un rapporto difficile e infelice. Il mio capitolo che tratta di questo argomento si apre non a caso con una denuncia di Tondelli: “Mi manca il confronto con una persona della mia stessa età in cui venga fuori il discorso di una letteratura militante, sul significato della contemporaneità. È assente la generazione dei giovani critici che seguono il nostro lavoro e propongono interpretazioni teoriche.” Si potrebbe dire che il correggese è stato una vittima della guerra fredda, nel senso che si è trovato in mezzo fra critici d’ispirazione marxista imbevuti di ideologia che ne dicevano peste e corna, in quanto accusavano i suoi libri di mancare di impianto ideologico-politico. Con ciò intendevano in realtà una mancanza di adesione partitica di Tondelli al PCI o al Movimento studentesco. Un PCI che nella rossa Correggio aveva tipo l’80% dei voti, ma non quello dello scrittore, che era un antiproibizionista radicale. Dall’altro lato c’erano i critici cattolici, che all’inizio lo accusarono di blasfemia e vilipendio della religione (vedasi gli articoli bigotti su Il Sabato di Gianni Baget Bozzo) per poi applicare quel detto “se non puoi abbatterlo, fattelo amico”. Così la critica cattolica ha adottato obtorto collo Tondelli, dopo il processo perso contro Altri libertini, ma ancor di più dopo la sua morte. Da quel momento in poi ci sono stati i libri e gli articoli del padre gesuita Antonio Spadaro, oggi direttore de La Civiltà Cattolica. Poi gli articoli del ciellino Fulvio Panzeri su L’Avvenire che addirittura lo collocavano “in cammino verso la santità”. Ancora: gli articoli di Luigi Mantuano su L’Osservatore Romano che attribuisce a Tondelli “un’attesa di salvezza teologicamente connotata”. È chiaro il tentativo – appoggiato dalla famiglia Tondelli, che non ha mai amato l’io gay di Pier Vittorio, e dal Comune di Correggio – di appropriarsi dell’eredità culturale di un autore che in realtà fu laico, radicale, ed esponente della controcultura gay italiana. Tondelli certo nacque e morì cattolico, ma dichiara di essersi “liberato dal giogo cattolico” dai sedici anni in poi, e vive la sua breve vita fino ai 36 anni scrivendo riflessioni di profonda critica della religione cattolica e del clero. Tondelli fu uno scrittore arrabbiato e insoddisfatto rispetto alla Chiesa. La sua spiritualità va letta nel senso di una ricerca costante attraverso diverse religioni, in particolare orientali, dal buddismo zen all’induismo, appreso da un altro grande scrittore che fu cattolico e dal cattolicesimo si allontanò con fare reciso: Carlo Coccioli. Panzeri, scomparso da poco, sarebbe poi diventato negli ultimi anni di malattia di Tondelli un suo curatore e infine il suo esecutore testamentario. Panzeri ha contribuito a edulcorare e manipolare la sua eredità culturale ingerendo in modo filologicamente scorretto nella ripubblicazione delle sue opere per i due volumi del classico Bompiani, così come ha individuato prima di me il grande critico Massimiliano Chiamenti, morto a sua volta troppo presto. Voglio dire, Panzeri arrivò a re-inserire la dedica “A Rosanna” in esergo alla ripubblicazione di Altri libertini, esplicitamente tolta dall’autore quando era ben lucido. Chiamenti parlò, a ragione, di una ingerenza che “si presta a indebite interpretazioni eterosessualistiche” e sono d’accordo con lui nel dire che “andrà certamente tolta dalle future edizioni di Altri libertini, nel rispetto, questa volta sì e davvero, delle volontà dell’autore”. Credo sia questo il motivo per cui la Bompiani di Massimo Turchetta intendeva pubblicare nel 2015 il mio volume su Tondelli: per ricollocare la casa editrice su un piano di maggiore rispetto filologico del correggese. Purtroppo la nuova Bompiani di Beatrice Masini ha invece inteso confermare l’interpretazione faziosa di Panzeri. Un’operazione filologicamente scorretta e molto, molto miope, che sta producendo una vulgata offensiva e distorta portata avanti in particolare da documentari ipocriti che evitano accuratamente di pronunciare la parola “gay” parlando dell’opera tondelliana. Per altro tutta questa appropriazione della critica cattolica su Tondelli suscitò anche una diatriba in seno a quel mondo. Mi riferisco all’intervento sempre su La Civiltà Cattolica di padre Carlo Cremona del 1996, intitolato “Tra punzecchiature e botti di fine anno”, che accusava gli articoli di Spadaro di “creare confusione” per le persone semplici e considerava l’opera di Tondelli “fango” in mezzo a cui si potevano trovare “pezzi luccicanti di bottiglia” scambiate per “reliquie di morale cristiana”. Sul piano invece LGBTQ+, la polemica si restringe alla delusione di Giovanni Dall’Orto, un militante omosessuale della prima ora dalla mentalità molto chiusa verso qualunque fluidità postmoderna, che all’inizio aveva visto in Tondelli “un busone da sbarco” per poi rimanere deluso che quella sua immagine non corrispondesse al vero. Poi ci furono le ignobili polemiche e le calunnie post-mortem di Aldo Busi, incentrate sul concetto iper-ombelicale e ridicolo che Busi sarebbe l’unico scrittore esistito in Italia. Peccato che quando Busi scrisse la sua tristemente famosa lettera a Babilonia per calunniare il correggese, Tondelli fosse un po’ troppo cadavere per poter replicare. La realtà è che Tondelli, al contrario di Busi, è stato uno scrittore totale e poliedrico: non lo si può incasellare a modino nel canone cattolico né in quello marxista, come nemmeno in quello omosessuale, sempre che ce ne sia uno.
In che modo, nella sua scrittura, Tondelli si incarica di “dare voce a chi non ha voce”?
Presentando come protagonisti dei personaggi che, per via della loro caratterizzazione socio-politica e personale, sono di solito rimasti ai margini della letteratura italiana. Parliamo di transessuali, travestiti, prostitute, lenoni, gay post-Stonewall (non semplici “omosessuali”: e i Queer Studies ci spiegano la differenza) fieri e spavaldi di essere gay. Ancora: senzatetto, barboni, alcolizzati, coppie dello stesso sesso prive di qualunque diritto civile, artisti eccentrici, mimi, malati di AIDS, eroinomani in astinenza che possono “farsi” solo iniettando l’eroina nella vena del cazzo, l’unica rimasta integra. Sono tutti personaggi anti-borghesi, sovversivi senza – di solito – rendersi conto di esserlo. E sono presentati attraverso le lenti arcobaleno del camp, dell’ironia, dell’autoironia. Sono giovani gay divertiti e divertenti, che sovvertono gli ambienti archetipici della eteronormatività sociale, come per esempio la caserma militare di Pao Pao. Quando leggiamo Tondelli dobbiamo fare un po’ di contesto storico-sociale per capirlo appieno: scriveva negli anni Ottanta, anni per niente liquidi, quando lo stigma contro l’omosessualità, l’eroina e l’AIDS era ancora maestoso. Erano gli anni di San Patrignano. Ricordo a tutti che poche settimane prima di Tondelli, a fine novembre 1991, muore di AIDS anche una rock star quale Freddie Mercury, che farà coming out riguardo la sua malattia appena 24 ore prima di morire… ditemi voi se poteva essere realistico (come gli chiederanno post-mortem Dall’Orto e Aldo Busi) che Tondelli, dal piccolo borgo tradizionalista di Correggio, assumesse sul tema dell’AIDS un atteggiamento più spavaldo di quello di una rock star internazionale! Eppure, se Mercury canta The Show Must Go On come inno alla resilienza contro le avversità e la malattia, Tondelli pubblica il primo romanzo italiano incentrato sull’AIDS, Camere separate. E affronta il tema anche nei suoi articoli da giornalista, accusando tutti: la società, la Chiesa cattolica, lo Stato di non fare nulla o di non fare abbastanza.
Qual è l’eredita dello scrittore emiliano?
Tondelli non fu uno “scrittore delle pianure e delle nebbie” come lo fa passare qualche documentario peloso degli ultimi tempi, che vorrebbe essere edificante nelle intenzioni. Non fu nemmeno solo uno scrittore di costume, un descrittore dell’edonismo degli anni Ottanta. Fu un osservatore sociologico delle giovani generazioni dei due decenni: i Settanta e gli Ottanta. Vive negli anni del riflusso e li descrive, ma non vi aderisce mai. Anzi: attua in proposito l’insegnamento di Fassbinder: “ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo”. In relazione alla sua eredità, molti hanno parlato degli esiti di successo del suo progetto Under 25. Per carità: fu un’impresa culturale importante, quasi unica nel panorama dell’epoca. Io tuttavia penso che la sua eredità principale sia quella, tutta culturale, di aver applicato le teorie dei Queer Studies in un’Italia ancora ignorante e a digiuno di tutto ciò. Di aver utilizzato il camp in Pao Pao, di aver presentato per primo dei personaggi gay post-Stonewall che vivono il loro orientamento sessuale con leggerezza e non curanza, starei per dire con “normalità”. E poi molto dobbiamo ai due “zibaldoni”, Un weekend postmoderno e L’abbandono, ancora troppo poco studiati dalla critica. Nel complesso Tondelli ha messo in evidenza la totale inadeguatezza della critica letteraria degli anni Ottanta e Novanta, composta da vecchi parrucconi marxisti o cattolici, a saper interpretare la sua opera. E, forse, non solo la sua.
Sciltian Gastaldi (Roma, 1974) è docente, giornalista professionista e romanziere. Ha conseguito un Ph.D. in Italianistica presso la University of Toronto ed è stato adjunct professor in diverse università dell’Ontario. Dal 2015 è tornato in Italia come professore di ruolo in Storia e Filosofia per il Miur. Il suo blog “Anelli di fumo”, online dal 2004, è stato ospitato sul «Fatto quotidiano» dal 2011 al 2018, sull’«Espresso» dal 2016 al 2021 e attualmente si può leggere su «Linkiesta».