“Tigri con le ali. La politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare” di Lorenzo Termine

Dott. Lorenzo Termine, Lei è autore del libro Tigri con le ali. La politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare edito da Aracne: quando e come nasce la dottrina nucleare cinese?
Tigri con le ali. La politica di difesa post-maoista e l’arma nucleare, Lorenzo TermineI primi semi di una dottrina nucleare cinese risalgono all’esperienza traumatica degli eventi in Corea e nello stretto di Taiwan durante gli anni Cinquanta. Dall’osservazione di questi, Mao concluse, infatti, che la bomba modificava l’equilibrio delle forze attraverso l’effetto della deterrenza, in quello che definì il “ricatto nucleare”. Tuttavia, il pensiero maoista sull’arma nucleare manteneva anche tratti distintivi. Tra questi spiccava la convinzione che il valore tattico del nucleare nemico potesse essere neutralizzato conducendo una “guerra popolare” di notte e facendo ricorso alla guerriglia, con tanto di dispersione e ricerca di combattimenti serrati con il nemico. I comunicati successivi alle detonazioni chiarirono alcuni concetti centrali dell’approccio cinese alle armi nucleari. La sfiducia seguita all’abbandono sovietico della cooperazione e, più in generale, il crescente disaccordo tra i due paesi era alla base dei continui richiami alla “auto-sufficienza” ovvero alla capacità cinese di essere una potenza autonoma, come sottolineato anche da Zhou nel gennaio 1965. Secondo tali comunicati, lo scopo unico dell’arma nucleare era “difendere e proteggere il popolo cinese dalla minaccia di una guerra nucleare lanciata dagli USA”. Nel primo comunicato emesso all’indomani dell’esplosione della bomba atomica, è contenuta anche una caratteristica distintiva della politica nucleare cinese: il principio del “nucleare di sola difesa”, ovvero l’impegno a non ricorrere all’arma atomica per primi in caso di conflitto. In questo modo, la RPC negava logicamente l’utilizzo della bomba atomica e ogni possibile minaccia nucleare a scopi coercitivi contro tutti i paesi che non fossero dotati di capacità nucleari.

La teorizzazione dei leader cinesi era rivolta, quindi, alla seconda mossa in caso di confronto. La priorità era di garantire a Pechino la capacità di un “secondo colpo” ossia la possibilità di rappresaglia contro-città in seguito ad un attacco nemico, in quella che la letteratura definisce deterrenza tramite punizione. Questi sono i rudimenti della dottrina nucleare cinese durante tutta l’epoca maoista.

In quale contesto storico-politico maturano il programma nucleare e la politica di difesa cinesi durante la Rivoluzione culturale e fino alla morte di Mao Zedong?
Il programma nucleare di Pechino matura in seguito al trauma degli anni Cinquanta già menzionato ma tra il Grande balzo in avanti e l’inizio degli anni Settanta sperimenta una serie di battute d’arresto ed intoppi. In primis, l’Unione Sovietica abbandona la Cina, terminando la cooperazione tecnologica che era stata cruciale per l’avvio del programma nucleare cinese. La proposta di una moratoria internazionale dei test nucleari da parte dell’Unione Sovietica, infatti, aveva messo Mosca in difficoltà nel continuare il sostegno al programma nucleare cinese. L’epilogo della relazione nucleare sino-sovietica si consumò in una lettera datata 20 giugno 1959 e destinata al Comitato Centrale cinese. Inoltre, il groviglio di istituzioni e organismi che nella Cina popolare sovrintendevano al programma nucleare si dimostrò all’inizio degli anni Sessanta una pesante zavorra per i progressi necessari.

I successi del 1964 – l’esplosione della prima bomba atomica cinese – e del 1966-7 – quando Pechino detonò i primi ordigni termonucleari – non risolsero gli innumerevoli problemi. La Rivoluzione culturale, infatti, aveva contribuito ad una estrema polarizzazione del sistema politico cinese in cui si distinguevano in maniera netta due orientamenti fondamentali: uno più ortodosso e ultra-maoista, l’altro più moderato e vicino alle posizioni di Zhou Enlai. Anche il dibattito militare rifletteva questa spaccatura e in questo settore le divisioni compromisero profondamente la capacità decisionale della leadership cinese.

In che modo la morte di Mao rappresenta uno spartiacque della storia della Repubblica Popolare Cinese?
La dipartita del Grande timoniere ha impresso una svolta radicale al corso della storia cinese contemporanea per una serie di motivi.

In primo luogo, tra il 1976 e il 1985 il successo arrise ad un nuovo gruppo dirigente che si assicurò il potere sul Partito e sullo Stato. Senza alcuna ombra di dubbio, si può affermare che a partire dalla morte di Mao, la competizione tra le fazioni del Partito si risolse a favore della corrente riformista guidata da Deng Xiaoping. Gradualmente, Deng fu in grado di estromettere dal vertice del Partito e dello Stato gli esponenti più radicali e ortodossi, ovvero quelli che in passato erano stati più legati a Mao, per sostituirli con i propri collaboratori prima soltanto in alcuni ruoli chiave e, in seguito, in tutte le maggiori cariche politiche.

Inoltre, da un’economia a totale pianificazione centralizzata da parte dello Stato e del Partito, la Cina comunista passò ad essere un’economia socialista con elementi di mercato mostrando, come risultato delle riforme denghiste avviate nel 1978, una crescente apertura al commercio internazionale. Ciò consentì a Pechino seppur in maniera limitata, di acquisire dall’estero le tecnologie e le piattaforme di cui l’Esercito Popolare di Liberazione aveva bisogno e di comprendere quale fosse il livello della tecnologia militare e dei progressi scientifici raggiunti all’estero e di acquisire piena consapevolezza della propria arretratezza.

In terzo luogo, il periodo 1976-1985 conobbe una graduale istituzionalizzazione e formalizzazione dei processi decisionali nella RPC con il risultato di determinare importanti cambiamenti nella governance del Paese. Per quanto riguarda la politica estera, tra il 1977 e il 1985, la competenza passò da un gruppo ristretto di funzionari subordinato al placet di Mao Zedong ad alcuni organi e strutture amministrative specificatamente designate a tale compito.

Quali eventi segnano il periodo che va dalla scomparsa del “Grande timoniere” alla primavera del 1985?
La nuova dirigenza cinese guidata da Deng Xiaoping avviò una “transizione strategica” seguendo prima un percorso prudente e poi sempre più risoluto a mano a mano che guadagnava il controllo sull’apparato politico-amministrativo cinese. Tra il 1976 e il 1985, le fondamenta stesse della politica estera e di difesa della RPC vennero scosse da un processo di revisione. Dall’allineamento con gli Stati Uniti per fronteggiare il comune nemico sovietico, Pechino passò alla “politica estera indipendente per la pace” nel 1982 e, infine, al “binario dello sviluppo pacifico” nella primavera del 1985. Alla base di questa transizione strategica, vi era una diversa valutazione del contesto internazionale e dello scontro tra le due superpotenze: secondo Deng e la sua leadership nessuna guerra di larga scala era all’orizzonte. Di conseguenza, Pechino doveva spostare la priorità del bilancio pubblico dalla preparazione militare per quella che Mao considerava la “guerra imminente”, alla promozione dello sviluppo economico e tecnologico del paese.

Come si è evoluta la politica di difesa e nucleare di Pechino in seguito alla morte di Mao Zedong?
L’evoluzione della visione del mondo della leadership cinese determinò una trasformazione anche a livello più strettamente militare. Nel clima di critica all’ortodossia maoista e alle posizioni radicali che erano state della Banda dei quattro, figure chiave come Su Yu, Song Shilun, Xu Xiangqian studiarono l’impatto che le nuove tecnologie avevano sulla guerra e conclusero che la Cina avrebbe dovuto aggiornare la propria dottrina militare per far fronte ai nuovi scenari e alle nuove minacce. Ciò comportava un necessario distacco dai dogmi e dai precetti del pensiero militare maoista. Di conseguenza, da una dottrina militare di “guerra popolare”, i cui principi centrali erano stati elaborati da Mao durante la guerra civile e la guerra partigiana contro il Giappone, l’EPL passò a adottare una dottrina di “guerra popolare in condizioni moderne” (approvata tra il 1977 e il 1980) e, infine, una dottrina di “guerra locale” (sancita a partire dal 1985).

In questo contesto, la politica nucleare cinese nel primo decennio dalla morte di Mao e durante l’epoca delle riforme volute dalla nuova leadership di Deng Xiaoping mostra sia elementi di continuità sia di discontinuità con l’era maoista. Per quanto riguarda l’acquisizione di capacità strategiche, è evidente che, tra il 1977 e il 1980, la priorità della Commissione Militare Centrale presieduta da Deng fosse stata di ultimare i due missili balistici rimanenti del piano di otto anni di ricerca e sviluppo approvato nel 1963 con il placet di Mao Zedong e Zhou Enlai. Dopo il 1980, la politica nucleare cinese tra il fu il prodotto delle impellenti esigenze economiche propugnate dalla fazione in ascesa, ovvero quella denghista, che aveva fatto dello sviluppo nazionale la massima priorità politica. Pertanto, una postura nucleare coerente con il passato maoista e che prediligeva il second strike, l’occultamento e la mobilità dei vettori dovette apparire come una scelta decisamente più conveniente rispetto all’imbarcarsi in costosi programmi di ricerca e sviluppo di capacità di primo colpo o di difesa da missili balistici nemici. Tuttavia, la stessa esigenza economicistica rese possibili due sviluppi che rappresentano una cesura rispetto al passato maoista. Le due principali innovazioni rilevate nella ricerca, ovvero gli ordigni nucleari tattici e le bombe al neutrone, infatti, comportavano una spesa estremamente contenuta. Per ottenere tali capacità, infatti, Pechino poté agevolmente riadattare le tecnologie nucleari e missilistiche che aveva già sviluppato e che erano già diventate pienamente operative. Gli unici due documenti sulle armi nucleari prodotti durante il periodo 1955-1976 e pervenuti agli studiosi, infatti, negavano esplicitamente la possibilità che Pechino si dotasse di armi nucleari non strategiche la cui efficacia militare veniva, anzi, minimizzata e dileggiata da Mao e dagli strateghi maoisti. La seconda innovazione dottrinale significativa introdotta durante il primo decennio dell’era post-maoista era la bomba al neutrone. Secondo i vertici strategici cinesi, infatti, l’ordigno si sarebbe dimostrata utile a livello tattico per contrastare l’avanzata sovietica sul confine settentrionale, in caso di conflitto con Mosca. Nel 1984, Pechino riuscì a detonare un ordigno al neutrone perfettamente funzionante.

Le due innovazioni dimostrano che la teoria dell’immutabilità della strategia nucleare cinese nasconda, in realtà, un quadro più complesso e che merita maggiore approfondimento. La leadership di Deng Xiaoping, infatti, si fece promotrice di un approccio pragmatico ed economicistico alle armi nucleari che non mancò di innovare parzialmente la postura atomica della Repubblica popolare cinese.

Lorenzo Termine è dottorando in Relazioni internazionali presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Sapienza Università di Roma dove sta conducendo un progetto di ricerca sulle strategie incrementali di revisionismo degli ordini internazionali. È, inoltre, ricercatore del Centro Studi Geopolitica.info per cui coordina le attività dell’area Cina e Indo-Pacifico. I suoi interessi di ricerca includono la politica di difesa e la postura nucleare della Repubblica Popolare Cinese.

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