
Come ha ben spiegato nelle conclusioni del volume Francesco La Torre, recuperando l’etimologia e la sfera semantica racchiusa nel verbo theaomai, titolo del Convegno di cui abbiamo curato gli Atti, per ‘theatron’ si intende un qualunque luogo sistemato in modo da favorire la visione e/o l’ascolto di una rappresentazione da parte di un gruppo cospicuo di persone appositamente radunatosi in quel luogo.
Il verbo theaomai definisce un’azione molto significativa del modo di vivere alla greca, fin dai primordi. La consuetudine di riunioni tra pari per assistere a funzioni religiose, a giuochi, ad assemblee politiche o militari, è una delle caratteristiche peculiari della società greca, come emerge già dai poemi omerici e, prima ancora, dalle architetture dei palazzi minoici.
Theatron dapprima connota l’insieme degli spettatori, il pubblico, e poi il luogo stesso nel quale l’azione si svolge. Tale passaggio semantico è avvenuto nel corso del V secolo a.C., proprio quando l’architettura greca comincia a sperimentare la realizzazione di appositi edifici in pietra, che sostituiscono le strutture precarie delle origini. Certamente l’andare a teatro è strettamente legato alla vita religiosa della polis ed in particolare al culto di Dioniso. A partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. grandi teatri in muratura vengono costruiti nei principali santuari panellenici – Delfi, Epidauro, Istmia, Dodona –, ma anche in santuari urbani. Anche in Sicilia, la cavea teatrale sorge spesso ai piedi di un edificio sacro, mentre in ambiente italico articolate e scenografiche architetture collegano le strutture teatrali al tempio.
Il teatro è allo stesso tempo un evento religioso, letterario ed agonistico, con un altissimo valore civile, paideutico e, secondo quanto osserva Aristotele, catartico. È un’esperienza collettiva visiva e contemplativa vissuta nella dimensione comunitaria della partecipazione al drama.
La funzione politica del teatro, già presente sin dalle origini, si rafforza in età ellenistica con la crisi della produzione drammatica. Il teatro diventa luogo privilegiato per la manifestazione del potere.
Qual era la posizione dell’edificio teatrale greco in età ellenistica e la sua relazione con la città?
Il teatro in pietra, nato dalla sperimentazione architettonica che segna l’abbandono degli apprestamenti lignei, è strettamente legato al paesaggio, sul piano strutturale, in quanto il koilon si appoggia ad un declivio naturale, sul piano urbanistico, nella misura in cui si inserisce nella maglia urbana, consentendo a volte, come nel caso di Agrigento, il raccordo tra salti di quota o terrazze, e sul piano scenografico, in quanto la cornice naturale è parte integrante della concezione architettonica dell’edificio aperto. Il teatro di età romana si distacca dal modello greco innanzitutto proprio perché è chiuso e perché si svincola dal paesaggio, ricreando un pendio artificiale attraverso l’uso di concamerazioni a volta, su cui appoggiare la cavea, introducendo, nel contempo, un sistema efficiente di corridoi coperti per l’afflusso ed il deflusso degli spettatori. Preludono a questa svolta strutturale del “teatro costruito” le soluzioni adottate negli edifici teatrali ellenistici di Metaponto, di Agrigento, di Solunto e di Segesta, dove camere trapezoidali cieche piene di terra e di materiale sciolto costituiscono le sostruzioni delle gradinate. Certamente lo spazio privilegiato per la realizzazione di un teatro è quasi sempre l’area pubblica. Nel libro V del De Architectura Vitruvio dedica ampia attenzione alla costruzione dell’edificio nel foro, indugiando con dovizia di dettagli sull’opportunità della scelta di un sito adatto ad una buona diffusione del suono.
Quale ubicazione e quali funzioni aveva il teatro nelle poleis della Sicilia ellenistica?
Anche in Sicilia è forte il legame tra agorà/foro e teatro. L’evidenza archeologica testimonia, dopo il teatro di Siracusa, il più grande edificio da spettacolo siciliano, importanti esempi di architettura teatrale in pietra nel corso del IV secolo, eretti probabilmente nel periodo di Timoleonte, ricordato dalle fonti come momento di rinascita delle città. Tra questi il teatro di Eraclea Minoa e di Montagna di Cavalli, l’antica Hipana, mentre di poco più tarda dovrebbe essere la prima fase costruttiva del teatro di Akragas.
La maggior parte dei teatri noti, compreso quello di Agrigento, subisce modifiche ed interventi in età romana. Anzi, proprio all’indomani della conquista dell’Isola dopo la seconda guerra punica, la realizzazione di edifici teatrali si accompagna a significative opere di monumentalizzazione degli spazi pubblici, a cui contribuisce anche l’evergetismo delle élites cittadine. Il teatro, divenuto spazio di integrazione tra i vincitori ed i vinti, riveste sempre di più il ruolo di luogo di riunione del corpo civico, sebbene ormai privato sostanzialmente della sua facoltà di autodeterminarsi.
L’undicesima edizione delle Giornate Gregoriane, organizzate dal Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi nel 2017, avviene un anno dopo la scoperta del teatro antico di Agrigento: quali vicende hanno segnato la storia del teatro agrigentino?
Nell’estate del 2016 un team di ricercatori composto dagli archeologi del Parco Valle dei Templi, del Politecnico di Bari e dell’Università di Catania, ha finalmente identificato il sito del teatro antico di Agrigento. Una scoperta indubbiamente fortunata, che giunge dopo secoli di vane ricerche, ma non fortuita, che nasce da un ristudio complessivo dell’urbanistica della città antica ed in particolare dell’area centrale dove nei secoli si avvicendarono l’agorà greca ed il foro della città romana, di cui Il Teatro, che probabilmente ebbe almeno due fasi costruttive, costituiva la quinta monumentale, nonché il punto di vista privilegiato con cui l’area pubblica si affacciava verso la Collina dei Templi. È lo storico Fazello nel XVI secolo a dare l’unica fugace notizia dell’esistenza del teatro antico di Agrigento. Lo studioso saccense afferma nella sua opera De rebus Siculis di aver visto i resti delle fondazioni appena riconoscibili dell’edificio teatrale, un tempo altissimo, non lontano dalla Chiesa di San Nicola (quae a templo Sancti Nicolai non procul absunt). L’indicazione topografica, seppure generica, documenta che la spoliazione del teatro nel ‘500 è già compiuta, e l’uso della litote “non lontano” esprime la prossimità, ma non l’immediata vicinanza alla Chiesa. Il racconto di Frontino, citato dal Fazello, sullo stratagemma di Alcibiade, durante la spedizione in Sicilia, che avrebbe radunato i cittadini di Akragas nel teatro per potersi impadronire della città, erroneo in quanto l’episodio va storicamente riferito a Catania, testimonia, comunque, che all’erudito romano, vissuto nel I secolo d.C., non sembrò per nulla strano che anche Agrigento dovesse avere un teatro. È questa la stessa considerazione di D’Orville, che, nell’opera Sicula del 1764, afferma che una città così magnifica non poteva, al pari delle altre città greche, non avere un edificio teatrale. Il viaggiatore olandese crede di individuare i resti segnalati dal Fazello presso il cosiddetto Oratorio di Falaride. Negli anni successivi fu proprio questa l’area più indiziata. Il Muenter ritenne che il Convento dei Cistercensi accanto alla Chiesa di San Nicola avesse obliterato le strutture, il Pancrazi, invece, già nel 1751, confessava di non aver rintracciato il punto esatto. Non è escluso che il D’Orville abbia visto i resti affioranti dell’ekklesiasterion (ex reliquis ruderibus et parietinarum circuitu), che sarà portato in luce solo negli anni Sessanta del secolo scorso, quando, gli scavi, prima della realizzazione del Museo, riveleranno l’articolata stratigrafia archeologica di quest’area nevralgica della città antica. Altre ipotesi nacquero dall’osservazione della morfologia naturale del territorio, come quella del Saint Non (1785), che collocò il teatro in una conca più a Nord, ovvero quella del Rezzonico (1793), che propose il colle detto Poggio Meta, da altri indicato, sulla base del toponimo, come sito di un ippodromo.
Sotto i migliori auspici, negli anni Venti del secolo scorso, iniziarono le ricerche sul poggio di San Nicola, finanziate dal mecenate Alexander Hardcastle, che votò i suoi beni e la sua vita all’archeologia agrigentina. Per il gentiluomo inglese il teatro fu un vero e proprio chiodo fisso. Malgrado lo scetticismo di Pirro Marconi, che condusse le indagini, ben cinquanta operai furono ingaggiati per scavare nel predio Vella, dove una conca naturale faceva ben sperare, ma non emerse alcuna traccia. Eppure, così pensava Hardcastle, la città più importante dell’antichità, dopo Atene e Roma, non poteva non avere un teatro!
Successivamente, a partire dagli anni Quaranta del secolo scorso, più volte, il Griffo, il Soprintendente di allora, si pose il problema del sito, oscillando tra la piazza Ravanusella nella città moderna, dalla “sospetta” forma semicircolare e digradante, e il colle detto Poggio Meta, sulla base dell’aerofotogrammetria. Questi non mancava di osservare con un certo stupore: È commovente, se di commozione può parlarsi, quest’ansia, quest’idea fissa che occupa il cervello dei moderni agrigentini.
Era prevedibile, dunque, la reazione entusiasta della città di fronte ad una scoperta così agognata, quasi una sorta di rivalsa su un destino capriccioso che aveva relegato sinora Agrigento ad un ruolo inferiore rispetto a Siracusa e persino rispetto alla “piccola” Eraclea Minoa. Perché, citiamo sempre le riflessioni argute di Griffo, un problema come questo dell’antico teatro agrigentino è di quelli che non dà pace non tanto alla imperturbabile serenità dell’uomo di mestiere quanto all’irrequieta curiosità della gente comune, di quella che potrebbe dirsi l’opinione pubblica corrente, nonché l’accesa passionalità del campanilista ad ogni costo.
La grande attenzione riservata dai media nazionali alla notizia ha naturalmente risvegliato proprio la fierezza locale per il rinvenimento, che sin dai primi istanti è stato percepito come condiviso, una sorta di premio per chi ha scoperto il teatro, ma anche per chi ha sempre sperato che venisse trovato. La scoperta ha anche accresciuto- e questo è l’aspetto più importante- l’interesse per la città antica e le sue vestigia, guardate, forse per la prima volta, con solidale simpatia e non più come freno allo sviluppo urbano verso Sud.
Di fronte a questa inversione di tendenza nel modo di pensare comune, il Parco, nel solco ideale dell’Archeologia pubblica, ha provveduto a coinvolgere la comunità nella ricerca attraverso varie iniziative ed una costante attività di comunicazione. L’esperienza del cantiere aperto ha permesso al vasto pubblico di seguire da vicino i saggi archeologici in corso, mentre ogni giorno, in diretta Facebook, gli archeologi a turno raccontavano le novità della giornata e le strategie di indagine adottate di volta in volta.
Grazie al progetto di educazione al patrimonio Nea Akragas, lo scavo si è trasformato anche in una straordinaria opportunità formativa e in un emozionante incontro con la storia per gli studenti degli Istituti Superiori. I ragazzi, nell’ambito dei progetti di alternanza scuola lavoro, hanno affiancato gli archeologi nello scavo, nel lavaggio e nella precatalogazione dei reperti, sperimentando potenziali percorsi formativi e lavorativi. La didattica laboratoriale, su cui si fonda l’alternanza, incoraggia un atteggiamento attivo dello studente, che, confrontandosi con le professionalità, esprime le sue capacità e potenzialità. Il contatto diretto con il passato, e non mediato dai libri, offre, inoltre, l’occasione di toccare con mano l’importanza e la fragilità di un contesto archeologico, contribuendo alla maturazione dei valori di cittadinanza attiva e consapevole e alla sensibilizzazione delle giovani generazioni verso il patrimonio culturale.