“Testimoniare il conflitto. Letteratura, verità, impegno nelle memorie della Grande Guerra” di Giorgio Nisini

Prof. Giorgio Nisini, Lei è autore del libro Testimoniare il conflitto. Letteratura, verità, impegno nelle memorie della Grande Guerra edito da ETS: come si è sviluppato il dibattito circa la credibilità documentaria delle memorie della Prima guerra mondiale?
Testimoniare il conflitto. Letteratura, verità, impegno nelle memorie della Grande Guerra, Giorgio NisiniÈ un dibattito di lunga data che pone questioni storiografiche molto importanti e complesse. Già alla fine degli anni Venti uno storico francese, Jean Norton Cru, aveva denunciato le inesattezze contenute nei ricordi di guerra francesi editi tra il 1915 e il 1928, inaugurando un più generale dibattito sull’attendibilità dei resoconti personali che coinvolse storici e filosofi di mezza Europa, da Marc Bloch a Maurice Halbwachs. Ancora negli anni Settanta Paul Fussell, in una sua celebre opera dal titolo The Great War and Modern Memory, aveva evidenziato in alcuni memorialisti anglosassoni come Sassoon, Graves, Blunden, Gibbs, Graham ecc. la presenza di una pregressa memoria letteraria che interferiva nel ricordo personale. Celebre la sua osservazione sui campi di battaglia tra Fiandre e Piccardia: perché, si chiedeva Fussell, nella descrizione di questi campi i memorialisti li descrivono come luoghi pieni solo di rose e papaveri, quando nella realtà sono caratterizzati da una varietà botanica molto più ampia? Semplice: perché ad essere pieni di rose e papaveri non è la realtà, ma la letteratura inglese. Del resto la questione va ben oltre la Grande Guerra: la memoria, il ricordo, il punto di vista soggettivo manipolano sempre il ricordo del fatto vissuto. Lo storico ha il compito di trattare le fonti autobiografiche per quelle che sono, narrazioni soggettive, cercando riscontri di altra natura. Anche un’opera classica come Un anno sull’Altipiano di Lussu è piena di imprecisioni e forzature interpretative. Se però guardiamo le cose dal punto di vista della letteratura le cose cambiano: la credibilità delle memorie in termini di documento storico resta un problema marginale, o quantomeno non di primo piano. Molto più rilevante è piuttosto la capacità interpretativa e rappresentativa di un libro di questo genere, la sua qualità espressiva. Per questo l’opera di Lussu, al di là dei difetti storiografici, resta una rilevante opera letteraria.

Come si articola il corpus della memorialistica della Grande Guerra e quali tipologie testuali lo compongono?
Si tratta di un corpus molto ampio ed eterogeneo, con una varietà di soluzioni formali molto diverse. È infatti riduttivo fare una semplice distinzione tra diari e memorie, perché tra i primi (trascrizioni di fatti accaduti giorno dopo giorno) e le seconde (libri autobiografici redatti a distanza di mesi o di anni da chi visse gli eventi in prima persona) esiste una vasta gamma di testi ibridi che fanno caso a parte: dal diario perduto e riscritto a freddo al rientro in patria, alla memoria redatta a ridosso della guerra con l’integrazione di brani diaristici, fino alla riscrittura in chiave ideologica di un precedente testo già apparso a stampa. Ma la casistica è ancora più numerosa, oltreché caratterizzata da esempi di slittamento verso altri generi, tanto da rendere inadeguata una semplice classificazione binaria (diario/memoria) e da aver reso più volte necessario il ricorso a criteri più estensivi, ma in quanto tali anche meno precisi. La difficoltà di proporre una tassonomia complessiva deriva, del resto, anche da un altro problema: e cioè quello di stabilire il grado di rielaborazione narrativa operata dall’autore della sua esperienza privata. Se questa è chiara, in senso romanzesco, in Vent’anni di Corrado Alvaro – e qui soccorre la nozione di patto autobiografico proposta da Lejeune – lo è molto meno in una memoria di prigionia di un autore pressoché dimenticato come La città effimera di Giuseppe Scortecci, in cui gli elementi destoricizzanti (assenza di date, luoghi, nomi di personaggi) e una modalità di scrittura stilisticamente elaborata, lasciano il lettore nel dubbio sulla vera natura del libro, che a partire dalla seconda edizione, pubblicata dalla milanese Alpes nel 1931, viene proposto in copertina come “romanzo di prigionia” (e ancora romanzo viene definito, insieme alle memorie di Frescura e Stanghellini, nell’edizione Longanesi del 1966). Possiamo comunque considerare valida – pur consapevoli delle tante eccezioni e dei tanti casi cross-over – la classificazione suggerita qualche anno fa da Giovanni Capecchi, che ai diari e le memorie aggiunge i taccuini, caratterizzati da una scrittura scheletrica ed essenziale annotata giorno per giorno su supporti di fortuna (si pensi a quelli di Slataper, Stuparich o D’Annunzio) e i diari-memorie, cioè testi che mantengono una forma diaristica, ma che sono stati riscritti a distanza – più o meno lunga – dagli eventi raccontati (Introduzione alla vita mediocre di Stanghellini, Kobilek di Ardengo Soffici, Diario di un imboscato di Attilio Frescura).

Quale rilevanza assumono, in tale ambito, i ricordi di prigionia?
Un’importanza centrale, perché raccontano una pagina della Grande Guerra per anni rimossa. Per comprendere a pieno la portata e i caratteri di questo ampio e disorganico insieme di testi bisogna risalire all’origine del fatto storico, e cioè la cattura e la reclusione di circa seicentomila soldati italiani nei campi di concentramento tedeschi e austro-ungarici. Si tratta di un imponente numero di militari – corrispondente a circa un settimo dell’intero esercito operante al fronte – che documenta la dimensione collettiva e reticolare dell’esperienza di prigionia; numero che si dilata ulteriormente se si considerano anche i casi dei civili internati dall’Impero Asburgico e degli italiani delle terre irredente detenuti in Russia. Di questa massa di prigionieri moltissimi scrissero una propria memoria o un diario, di cui solo una parte microscopica ha raggiunto un’attenzione da parte della critica letteraria e della storiografia (Gadda e Tecchi su tutti). Eppure sono delle vere e proprie scatole nera della guerra, per riadattare una definizione di Caffarena, sebbene condizionate spesso dall’anatema che il Comando Supremo prima, e la retorica della vittoria del fascismo poi, pose sul reduce dalla prigionia, ora sospettato di codardia o diserzione – “l’imboscato d’oltralpe” che D’Annunzio dileggiava dalle pagine dei quotidiani e che Cadorna considerava il principale responsabile della disfatta di Caporetto – ora visto come il perdente contrapposto all’eroe che sacrifica la propria vita al fronte.

Quale rilettura offre, della memorialistica degli scrittori italiani che vissero l’esperienza al fronte, il Suo studio e in che modo esso si inserisce all’interno del più ampio dibattito sul valore ideologico della testimonianza?
Il mio studio vuole rileggere la memorialistica in linea prospettica; quindi, valutarla in ordine alla memorialistica successiva, quella della Seconda Guerra mondiale, per mettere a fuoco una vera e propria rivoluzione copernicana che si venne attuando, con la Grande Guerra, anche nel mondo letterario: è lì che si entra davvero nel Novecento, come ci dice Hobsbawm. Mi interessava inoltre portare avanti una prima grande campionatura di un corpus dimenticato come quello delle memorie di prigionia e insistere sull’importanza di uno studio integrato, tra storico e storico-letterario, ovvero un’analisi “ponte” che ponga l’approccio storico di fronte all’oggetto letterario, ora per valutarne la portata documentaria, ora l’incidenza nella costruzione dell’immaginario del tempo; o, viceversa, quello letterario di fronte al materiale di principale competenza dello storico, cioè l’insieme di testi di bassa provenienza socio-culturale e di scarso valore artistico che tuttavia concorsero, nel quadro di una più ampia messa in discussione della cultura ufficiale e propagandistica del tempo, a una ridefinizione delle funzioni della letteratura (e in tal senso va inteso anche il più generale interesse per la “cultura letteraria della Grande Guerra” piuttosto che per una specifica “letteratura della Grande Guerra”).

Quale evoluzione caratterizzò la successiva produzione letteraria della Seconda Guerra Mondiale?
Una delle mie tesi, in linea con un orientamento della storiografia che tende a vedere la Grande Guerra come la matrice ideologica, psicologica, intellettuale ecc., del successivo trentennio, se non addirittura di tutto il Novecento e oltre, è che proprio in questi anni si sviluppi una nuova idea di letteratura centrata sui temi di verità, documento, testimonianza che si manifestò più compiutamente nella produzione nata dalla seconda guerra mondiale; e, dunque, negli anni del neorealismo. Basti pensare a come diventi centrale il tema dell’impegno, dell’uso della letteratura come strumento demistificatorio e civile, prima che estetico. Non penso alle pompose strumentazioni retoriche degli interventisti, ma all’opera di autori come Palazzeschi, per esempio, o un’ampia schiera di memorialisti che cercarono di restituire una versione del conflitto molto meno stereotipata ed edulcorata, dai più noti (Lussu, Carlo Salsa ecc.) a autori dimenticati o semidimenticati come Sironi o Noè Grassi, che con un’inquietante sentimento di presagio scriveva così, nel 1920, dei propri aguzzini tedeschi: «la loro rappresaglia fu barbara, perché dannando i prigionieri italiani a morire di fame, li prostrarono nel corpo e nell’anima, anche per seguire il loro iniquo programma dello sterminio o dell’indebolimento di una intera razza».

Giorgio Nisini è ricercatore in Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha pubblicato numerosi studi sulla narrativa italiana del Novecento e sui rapporti tra letteratura, editoria ed industria culturale. Si è occupato, tra l’altro, dell’opera narrativa di Pier Paolo Pasolini (L’unità impossibile, Carocci, 2008) e del neorealismo (Il neorealismo italiano, Perrone, 2012). Per Laterza ha curato l’edizione di un carteggio inedito tra Corrado Alvaro e Vito Laterza (Carteggio, 1952-1956, Laterza, 2019). Come scrittore ha pubblicato diversi romanzi, tra cui La città di Adamo (Fazi, selezione Premio Strega 2011) e Il Tempo umano (HarperCollins, 2020).

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