
Sul piano della comunicazione, sia gruppi jihadisti che di estrema destra hanno tratto vantaggio dall’emergenza sanitaria per diffondere messaggi propagandistici e promuovere la propria agenda politico-sociale. In Occidente, per esempio, la diffusione dell’epidemia si è accompagnata alla proliferazione di teorie complottistiche spesso fondate su sentimenti d’odio e retoriche antisemite e anti-migranti. In Medio Oriente, la propaganda dell’ISIS ha descritto il Coronavirus come un “soldato di Allah” che sta colpendo “i paesi degli infedeli e degli apostati”, mentre organizzazioni governative come Hezbollah (Libano) e i Talebani (Afghanistan) hanno colto le opportunità offerte dal Covid per dimostrare l’efficacia delle loro pratiche di gestione della pandemia e, più in generale, della loro governance.
Da una prospettiva strategica, invece, l’emergenza sanitaria ha contribuito a destabilizzare ulteriormente la tenuta politica e sociale di molti paesi africani e mediorientali, esacerbando condizioni contestuali particolarmente favorevoli ai terroristi. In Siria ed Iraq, per esempio, l’ISIS ha tratto vantaggio dal sostanziale ridimensionamento delle forze della coalizione per riorganizzarsi, mentre nell’Africa subsahariana movimenti jihadisti legati all’ISIS e ad al-Qaeda sono stati abili a sfruttare l’instabilità politica, il disagio economico, la marginalizzazione sociale e le tensioni etniche che affliggono buona parte della regione per accrescere la propria influenza in Paesi quali Niger, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Chad, Mozambico e Repubblica Democratica del Congo.
Quali diversi approcci e scuole di pensiero esistono sul tema del terrorismo?
Come ho avuto modo di spiegare nel mio libro, il terrorismo è un fenomeno complesso, dalle mille sfaccettature, che trascende i confini disciplinari tradizionali e si presta a molteplici interpretazioni e letture. Premesso ciò, è possibile individuare quattro approcci teorici principali nella letteratura esistente.
Il primo paradigma teorico è quello strumentale o strategico, che trova la sua principale spiegazione nell’idea che l’individuo, in quanto animale razionale, agisce secondo una logica di tipo utilitaristico mirata alla massimizzazione dell’interesse personale. Tale approccio suggerisce che l’azione terroristica non è altro che risultato di una scelta razionale effettuata da un attore politico nel perseguimento di un obiettivo concreto. Ogni gruppo, prima di commettere un qualsiasi atto di terrorismo, compie un calcolo razionale di costi, benefici e probabilità di successo connesse all’operazione. Se i benefici sono enormi, o i costi sono bassi, o le probabilità di successo alte, l’organizzazione porterà a compimento l’azione
Il secondo approccio è quello organizzativo, che affonda le sue radici teoriche nella prospettiva relazionale secondo la quale è impossibile spiegare il comportamento di un gruppo senza prima considerare il contesto sociale entro cui si trova ad operare. Rifacendosi alla tradizione della Social Movement Theory (SMT), tale prospettiva teorica postula, in particolare, che l’obiettivo primario di ogni organizzazione socio-politica non è conseguire un successo strategico in sé e per sé, ma sopravvivere. In quest’ottica, il terrorismo può essere letto non tanto come il frutto di scelte razionali ed opportunità strutturali, quanto piuttosto come il risultato di una lotta per la sopravvivenza all’interno di un ambiente competitivo caratterizzato da relazioni sociali mutevoli e interdipendenti l’una dall’altra. In altre parole, per il modello organizzativo, la decisione di un gruppo di ricorrere o meno al terrorismo non si basa su una mera valutazione di costi previsti e benefici attesi, ma dipende da complessi fattori intergruppo e dinamiche intragruppo.
Il terzo paradigma teorico enfatizza invece l’importanza della dimensione comunicativa nel ricostruire le dinamiche di azione–reazione innescate dal terrorismo. La comunicazione è in- fatti il cuore del terrorismo e il terrorismo stesso può essere concettualizzato come un violento linguaggio comunicativo. In quest’ottica, l’approccio comunicativo sostiene come il terrorismo non vada ridotto ad una semplice tattica operativa, ma si configuri piuttosto come una raffinata strategia di azione indiretta volta al raggiungimento di una finalità di natura politica attraverso la realizzazione di eventi drammatici specificatamente concepiti per attirare l’attenzione e comunicare un messaggio attraverso la pubblicità che generano.
Il quarto e ultimo approccio teorico focalizza la propria attenzione sulla componente psicologica connessa al fenomeno terroristico, enfatizzando soprattutto le dinamiche sociali di gruppo e i profili psicologici dei vari attori coinvolti. Tale approccio psicologico-comportamentale introduce una prospettiva di microanalisi del terrorismo che si rivela particolarmente utile ai fini di un’indagine a più ampio raggio delle motivazioni e dei fattori individuali che spingono alcuni soggetti, più di altri, a radicalizzarsi ed eventualmente ad abbracciare il terrorismo.
Quali sono le cause del terrorismo moderno?
La risposta è più difficile di quanto si possa pensare. L’emergere e il perpetuarsi del terrorismo non è mai riconducibile a una singola causa, ma dipende dalla combinazione di più fattori, tra loro interagenti, che possono produrre una molteplicità di effetti. A questo bisogna poi aggiungere che non tutte le cause sono eguali tra loro ma esistono livelli diversi di causalità. Ad esempio, è possibile suddividere le cause del terrorismo in precipitans e preconditions. Mentre i primi sono eventi catalizzatori specifici che innescano o immediatamente precedono la comparsa del terrorismo (come per esempio delle elezioni, delle negoziazioni di pace o delle date simboliche), i secondi comprendono tutti quei fattori contestuali che contribuiscono a creare un ambiente favorevole per il terrorismo specialmente nel lungo periodo. A titolo esemplificativo, si pensi alla modernizzazione, alla globalizzazione e alla rivoluzione tecnologica. Tre fenomeni che hanno di gran lunga semplificato l’attività quotidiana delle organizzazioni terroristiche. I miglioramenti dei collegamenti aerei hanno consentito, per esempio, ai terroristi di spostarsi velocemente da un continente all’altro. La radio, la televisione e le più moderne comunicazioni satellitari ha garantito loro un accesso quasi immediato ad un pubblico globale. Lo sviluppo del mercato degli armamenti ha fornito loro un arsenale bellico sempre più sofisticato e facilmente reperibile. Il passaggio al digitale ha permesso infine a terroristi ed estremisti vari di aggirare la censura governativa e scambiare informazioni su larga scala in modo rapido, economico e soprattutto in forma anonima. La lista potrebbe essere facilmente estesa, ma tanto basta a dimostrare l’ampia varietà di fattori causali che devono essere presi in esame per una comprensione integrale delle origini del terrorismo.
Quale evoluzione storica ha seguito il terrorismo moderno?
Riprendendo la teoria delle “Four Waves of Modern Terrorism” di David Rapoport possiamo dire che i fenomeni terroristici moderni si generano, si sviluppano e decadono come “onde” (waves). Ogni ondata è connotata da dinamiche e tattiche peculiari. Essa si caratterizza come ciclo di attività, della durata di circa quarant’anni, che vede la presenza di molteplici gruppi terroristici guidati da una comune e predominante ideologia che perseguono obiettivi simili nel medesimo periodo storico ma in zone geografiche diverse. In tal senso, la prima grande ondata del terrorismo moderno fu quella anarchica, diffusasi alla fine del’Ottocento in Russia e lentamente esauritasi all’inizio del XX secolo. A questa fece seguito l’ondata anti-coloniale, iniziata lentamente con il trattato di pace di Versailles del 1919 e poi inaspritasi nel secondo dopoguerra. Durante questo periodo, in tutto il Continente antico, numerose organizzazioni utilizzarono la violenza politica come strumento di ritorsione nei confronti dei dominatori coloniali occidentali. L’evoluzione della guerra in Vietnam (1955-1975) pose le basi per lo sviluppo dell’ondata New Left. Durante questa fase, gruppi terroristici di estrema sinistra, finanziati ed equipaggiati dall’Unione Sovietica, iniziarono a sorgere in tutto l’Occidente; dagli Stati Uniti con la Weather Underground Organization, all’Italia con le Brigate Rosse, fino al Giappone della Japanese Red Army, passando per la Germania della Rote Armee Fraktion e per la Francia dell’Action Directe. Arriviamo così al 1979, anno contrassegnato da due eventi di portata storica che hanno sancito l’inizio dell’odierna ondata terroristica religiosa: la rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Da una prospettiva tattico-strategica, possiamo affermare che con quest’ultima ondata si è innescato un processo di radicale trasformazione della natura del terrorismo moderno tale da indurre molti addetti ai lavori a differenziare tra old e new terrorism. Dove il “vecchio” terrorismo (secolare) colpisce solo bersagli selezionati, il “nuovo” terrorismo (religioso) è un terrorismo totalmente e deliberatamente indiscriminato.
Quali orientamenti ideologici e aspetti strutturali caratterizzano il terrorismo moderno?
In linea generale, possiamo raggruppare le varie correnti ideologiche ascrivibili al terrorismo in due categorie principali: quelle di matrice religiosa e quelle di matrice secolare. Appartengono alla prima categoria tutti quei movimenti fondamentalisti che, abbracciando una dottrina basata sull’applicazione rigorosa, intransigente e dogmatica dei principi fondanti di una religione, interpretano il ricorso alla violenza come un atto sacrale o un dovere divino eseguito per rispondere direttamente a un imperativo o a un’esigenza di tipo teologico. A seconda del contesto religioso, possiamo poi distinguere tra terrorismo fondamentalista islamico, cristiano o ebraico. Rifacendosi alla tradizione islamista-salafita e wahabita, i fondamentalisti islamici credono in un’interpretazione stretta e letterale dei testi chiave dell’islam e hanno come obiettivo la creazione di un ordine politico islamico, nel senso di Stato, i cui principi governativi, istituzioni e sistema giuridico derivano direttamente dalla shari’a. I fondamentalisti cristiani fanno riferimento a una rigida interpretazione della Bibbia per giustificare la supremazia della razza bianca, contestare la narrazione ebraica del “popolo eletto” ed incoraggiare i fedeli a combattere per affrettare la fine dei tempi descritta nel Libro della Rivelazione. Infine, i fondamentalisti ebraici sono individui e gruppi che aderiscono al filone kahanista dell’ideologia sionista che promuove l’istituzione di uno Stato teocratico in Israele, indicando la guerra quale unica soluzione per risolvere il conflitto arabo-israeliano.
Per quanto la dimensione religiosa, soprattutto di matrice islamica, abbia assunto nel tempo un ruolo sempre più centrale, negli ultimi centocinquant’anni il terrorismo è stato un fenomeno prevalentemente secolare. In base alla tradizione di pensiero politico radicale in cui i gruppi secolari si riconoscono possiamo distinguere tra terrorismo di estrema sinistra, di estrema destra, etno-separatista, single-issue. Riprendendo la tradizione anarchico-rivoluzionaria e marxista, i gruppi appartenenti alla prima sottocategoria considerano la lotta armata come l’unica via per sovvertire il governo capitalista e instaurare la dittatura proletaria. In completa antitesi, il terrorismo di estrema destra affonda le sue radici ideologiche nella dottrina fascista e nazional-rivoluzionaria. Rientrano in questa sottocategoria anche i racial-ethnic supremacists, ovvero gruppi violenti a sfondo xenofobo che costruiscono la propria narrativa di pensiero sul presupposto che esistano razze o identità etniche biologicamente e storicamente superiori ad altre. Fondamenti ideologici del terrorismo di matrice etno-separatista sono invece il principio di autodeterminazione dei popoli e il diritto di resistere ad atti di violenza che possano precluderne l’attuazione. Fanno parte di questa sottocategoria tutte quelle organizzazioni di stampo nazionalista, separatista ed indipendentista che ricorrono alla violenza nel tentativo di realizzare obiettivi essenzialmente territoriali. Infine vi sono gruppi che non mirano ad alcun cambiamento politico, sociale o religioso profondo, ma agiscono in funzione di una singola causa, talvolta commettendo azioni violente. Questa quarta e ultima sottocategoria di terrorismo può essere definita single-issue.
Venendo ora agli aspetti strutturali del terrorismo, è interessante notare come fino alla fine degli anni Ottanta il terrorismo è stato associato quasi esclusivamente a organizzazioni non statali e regimi autoritari. Da allora, tuttavia, la situazione è notevolmente cambiata. Oggi il panorama del terrorismo internazionale è estremamente frammentario, caratterizzato dalla presenza di numerosi attori dalle caratteristiche marcatamente differenti. In tale prospettiva, è possibile suddividere gli attori terroristici odierni in cinque idealtipi principali: Stati, organizzazioni formali, network informali, imprenditori terroristici e attori singoli. La prima categoria include tutti quei governi e regimi che utilizzato illegittimamente il monopolio della forza come strumento terroristico di repressione coercitiva e controllo sociale. Le organizzazioni formali sono invece gli agenti classici del terrorismo. Fanno parte di questa categoria tutti quei gruppi che presentano una struttura organizzativa definita e chiari processi di decision-making come per esempio l’ISIS o al-Qaeda. La terza categoria è costituita dai network informali, ovvero reti terroristiche composte da individui o gruppi di individui connessi tra loro attraverso legami sociali, culturali, di amicizia o familiari. A differenza delle organizzazioni classiche, i network terroristici difficilmente hanno processi di decision-making ben definiti, né possiedono una struttura formale. Al contrario, molti di essi presentano confini organizzativi fluidi che si traducono in una maggiore flessibilità sotto il profilo dell’operatività e della membership nel gruppo. In alcune situazioni sia reti terroristiche che organizzazioni più strutturate possono essere coadiuvate da imprenditori terroristici, ovvero individui intraprendenti e altamente motivati alla costante ricerca di nuove opportunità e nuovi modi per eseguire, pianificare e supportare atti terroristici. In altre parole, una sorta di freelances del terrore al servizio di una varietà di gruppi e governi diversi. Infine, la quinta categoria è quella degli attori singoli, ossia individui che pianificano ed eseguono un attacco terroristico in maniera autonoma senza essere necessariamente affiliati ad un’organizzazione o ad un network.
Quali teorie e modelli spiegano la radicalizzazione jihadista?
Parlare o meglio spiegare i processi di radicalizzazione è un compito assai arduo. Negli anni, numerosi accademici e professionisti del settore hanno cercato di stabilire un profilo comune del tipo terrorista sulla base delle analogie riscontrate nelle biografie di vari jihadisti ed estremisti europei. Questa predilezione per una microanalisi della radicalizzazione ha contribuito tuttavia alla proliferazione di “falsi positivi”, dal momento che non tutti gli individui che condividono caratteristiche simili o si trovano nelle medesime condizioni, automaticamente si radicalizzano o, peggio ancora, ricorrono alla violenza. La radicalizzazione, infatti, è un processo altamente individuale, spesso dettato da un’interazione di un caleidoscopio di fattori diversi, che si concretizza nel momento in cui la traiettoria personale di un soggetto si interseca con un ambiente favorevole.
Detto questo, vi è un consenso generalizzato nel considerare la radicalizzazione un processo graduale che avviene in un intervallo di tempo variabile a seconda del soggetto e della situazione. Questa progressione è stata descritta attraverso svariati modelli teorici. Quello che a parer mio meglio si presta alla comprensione delle dinamiche di radicalizzazione ed affiliazione nei gruppi estremisti islamici è il modello a quattro fasi elaborato da Quintan Wiktorowicz. Come spiega l’esperto americano, durante la prima fase, definita cognitive opening, l’individuo inizia a mettere in discussione le proprie convinzioni, diventando al contempo più ricettivo verso idee e visoni radicali. Questa “apertura cognitiva” non si manifesta tuttavia dal nulla, ma è innescata da uno o più eventi catalizzatori come, per esempio, una crisi esistenziale, la perdita del lavoro o esperienze traumatiche come episodi di discriminazione o la morte di un familiare o di un amico. Nella seconda fase, denominata religious seeking, il soggetto trova nel fondamentalismo islamico la sua nuova raison d’etre. Nella terza fase, la cosiddetta frame alignment, la persona coinvolta allinea la sua nuova interpretazione del mondo alla rappresentazione della realtà sociale fornita da un determinato gruppo estremista. Nell’ultima fase, nota come socialisation and joining, l’individuo entra a far parte del gruppo islamista e, attraverso processi di indottrinamento e socializzazione, ne interiorizza completamente l’ideologia e l’identità.
Per quanto concerne invece i possibili fattori di radicalizzazione, penso che un libro non basterebbe per elencarli tutti. D’altra parte la crescita del terrorismo di matrice islamica in Europa ha dato origine a innumerevoli teorie che hanno cercato di spiegare il processo di radicalizzazione, evidenziandone cause ed elementi facilitatori. Alcune di esse si concentrano su fattori personali, come una crisi esistenziale o lo shock causato da un’esperienza traumatica. Altre di esse mettono in evidenza fattori sociali, quali rimostranze politiche e conflitti culturali. Infine, varie teorie sono state formulate specificamente per fare luce sul processo di radicalizzazione di giovani musulmani europei ed enfatizzano elementi quali la ricerca identitaria, la discriminazione o la situazione di relativo disagio socio-economico.
Quale convivenza è possibile tra misure di contrasto al terrorismo e democrazia?
Diciamo che si tratta di un rapporto spesso complicato. Come scrivo nel mio libro, la scelta e la misura degli interventi di contrasto al terrorismo sono spesso causa di forti tensioni tra le varie componenti politiche, legislative e giudiziarie dei sistemi democratici; tensioni che naturalmente finiscono per incidere in maniera determinante sull’efficienza degli enti preposti alla sicurezza nazionale. Del resto, trovare il giusto equilibrio fra esigenze di prevenzione e garanzia delle libertà personali non è sempre facile né così scontato.
Nel Regno Unito, per esempio, sono stati emanati nel tempo una serie di provvedimenti che ledono la libertà personale e il diritto alla vita privata per ragioni di sicurezza, attribuendo il potere alle autorità competenti di procedere ad arresti preventivi sulla base di meri sospetti o di privare i cittadini britannici naturalizzati della loro cittadinanza nel caso in cui vi sia il rischio concreto che questi possano costituire una minaccia pubblica. Similmente ha agito la Francia, che, in seguito agli attentati del novembre 2015, ha adottato misure d’urgenza eccezionali che hanno posto notevoli restrizioni ad alcune libertà fondamentali introducendo l’obbligo di dimora per i soggetti ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico, così come la possibilità di effettuare perquisizioni domiciliari senza previa autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria. A livello europeo, infine, le nuove disposizioni EU in materia di antiterrorismo hanno determinato una compressione del diritto alla riservatezza e protezione dei dati personali, consentendo agli apparati di sicurezza dei rispettivi Stati membri di ricorrere a sistemi di monitoraggio estremamente sofisticati nonché di acquisire e immagazzinare massicce quantità di dati su milioni di viaggiatori attraverso l’EU Passenger Name Record.
Se da un lato è indiscutibile che l’applicazione incondizionata di queste misure incide in senso restrittivo sull’apparato di garanzie individuali, è altrettanto vero che il rispetto scrupoloso e intransigente di tali garanzie finisce inevitabilmente per ripercuotersi sul funzionamento del sistema di prevenzione e contrasto al terrorismo, riducendo le capacità operative dei Servizi a tutela della sicurezza interna ed esterna. A titolo esemplificativo, si pensi alle limitazioni giuridiche in tema di arresto, detenzione e interrogatorio dei sospettati di terrorismo, o ancora alle restrizioni in materia di intercettazioni telefoniche, sorveglianza e operazioni sotto copertura presenti nei vari ordinamenti nazionali e internazionali. È bene ricordare, infatti, che le attività di intelligence e polizia giudiziaria devono sempre svolgersi nel rispetto delle leggi e nei limiti previsti dalle norme vigenti, a costo di precludere l’impiego di tutti i più efficaci mezzi di contrasto al terrorismo, ma solo di quelli che risultano compatibili con il sistema costituzionale.
Quali prospettive future per il terrorismo?
Prevedere gli sviluppi futuri di un fenomeno estremamente complesso e multiforme come il terrorismo non è un compito facile. Questo perché il terrorismo, come ogni fenomeno sociale, è connesso a una gamma variegata di situazioni, eventi e dinamiche alquanto imprevedibili e spesso impronosticabili che, combinandosi e influenzandosi reciprocamente, danno vita ad una moltitudine di possibili scenari evolutivi. Senza l’invasione sovietica dell’Afghanistan difficilmente avremmo assistito alla nascita e allo sviluppo di al-Qaeda. Allo stesso modo, se non ci fosse stata la primavera araba e il conseguente conflitto siriano probabilmente non ci sarebbe mai stato lo Stato Islamico, e con esso il fenomeno dei foreign fighters. Detto questo, se guardiamo alla minaccia jihadista nostrana vi sono diverse indicazioni sulla base delle quali è possibile supporre che la realtà italiana stia cambiando e si stia gradualmente avvicinando a quella di altri Paesi europei. Lungi dal voler compiere semplicistiche equazioni tra flussi migratori e terrorismo, è innegabile come gli sconvolgimenti geopolitici in atto nel quadrante africano e mediorientale siano destinati ad accrescere la pressione migratoria verso l’Italia, con il rischio concreto di favorire la penetrazione nel nostro territorio di soggetti già radicalizzati o con trascorsi associati alla criminalità organizzata e al terrorismo. Se, in aggiunta, si considera che per il 2030 è previsto un incremento del 102% della popolazione musulmana in Italia, nonché un’inevitabile crescita del numero di seconde e terze generazioni (ovvero i soggetti più a rischio di radicalizzazione), le prospettive di un futuro nel quale possa svilupparsi una scena autoctona simile a quella di Francia o Regno Unito sono tutt’altro che inconcepibili.
Volgendo invece lo sguardo al contesto europeo, è l’estremismo violento di estrema destra a destare le maggiori preoccupazioni tra gli addetti ai lavori. Sebbene infatti negli ultimi anni il terrorismo di matrice far-right si sia rivelato un fenomeno per lo più disorganizzato, non associabile a gruppi specifici e complessivamente indicativo di un sentimento di alienazione politica e malcontento diffuso, non vi è alcuna garanzia che esso rimarrà tale anche in futuro. Anzi, il recente aumento di episodi violenti riconducibili alle estreme destre in Occidente, sopratutto negli Stati Uniti, suggerisce che la probabilità di un’intensificazione di questa particolare forma di terrorismo politico aumenterà in maniera significativa nei prossimi anni; a maggior ragione se la minaccia continuerà ad essere percepita da alcuni governi come non sufficientemente grave da richiedere l’implementazione di misure di contrasto urgenti o giustificare l’impiego di maggiori risorse per il monitoraggio delle attività di individui e gruppi appartenenti alle frange più estreme delle destre occidentali.
Infine, l’ISIS e al-Qaeda rimangono le principali minacce in ottica globale. La dissoluzione del Califfato in Medio Oriente ha segnato una nuova era per l’ISIS, spingendo i vertici del gruppo ad avviare un massiccio processo di destrutturazione e decentralizzazione dei propri assetti organizzativi. Ciò ha permesso di instaurare nel tempo una potente e ramificata rete jihadista con salde e consolidate alleanze nel sud-est asiatico, nel Kashmir e nell’Africa centro-occidentale. Proprio in Africa va registrato un aumento significativo dei franchising regionali disposti a riconoscere l’autorità politica e religiosa dell’ISIS. Tale espansione potrebbe consentire al gruppo di assicurarsi dei safe havens entro i quali operare in sicurezza, se non addirittura di ritagliarsi una zona di controllo territoriale dove implementare il proprio progetto statale qualora fallisse la ricostruzione del Califfato in Medio Oriente. Venendo ora ad al-Qaeda, la “Base” ha dimostrato di possedere una notevole capacità di adattamento e innovazione nonché un’abilità per certi versi unica di saper “leggere il momento”. Mentre nei passati anni l’ISIS dominava la scena jihadista, attirando su di sé le maggiori attenzioni dell’antiterrorismo mondiale, al-Qaeda ha iniziato un lento processo di ricostruzione e rafforzamento in Medio Oriente, in Asia e in varie zone dell’Africa, complici anche sviluppi geopolitici particolarmente favorevoli all’organizzazione. Con una rete terroristica globale arrivata a contare oltre venti gruppi affiliati per un totale stimato di circa 40.000 guerriglieri, al-Qaeda si presenta oggi come una realtà estremamente resiliente e, per certi versi, ancor più minacciosa di quanto non lo sia mai stata.
Nicolò Scremin è Direttore esecutivo di NextGen 5.0, nonché Fellow presso il Program On Extremism alla George Washington University. Ha ricoperto incarichi presso l’International Institute for Counter-Terrorism in Israele e il Combating Jihadist Terrorism and Extremism nel Regno Unito. È autore di Terrorismo. Teorie, problemi e prospettive, edito da Mondadori Università e co-editore di Jihadist Terror: New Threats, New Responses, pubblicato nel 2019 da I.B.Tauris. I suoi lavori sono stati pubblicati in “Studies in Conflict & Terrorism”, “Small Wars Journal” e “International Counter-Terrorism Review”.